CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – 3 maggio 2010, n. 10624. In materia di divisione ereditaria.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza.
Venendo quindi all’esame del ricorso principale, si rileva che la S. con il primo motivo, denunciando violazione o falsa applicazione dell’art. 720 c.c., censura la sentenza impugnata per non aver preso in considerazione la richiesta dell’esponente di vendita all’incanto dell’immobile oggetto di comunione tra le parti, attesa la volontà di entrambe le parti di rendersi acquirenti per l’intero di tale bene.
La ricorrente principale osserva che la Corte territoriale ha così disatteso il principio giurisprudenziale consolidato secondo cui la richiesta di attribuzione in proprio favore dell’intero immobile da parte di un condividente sul presupposto della sua indivisibilità, attenendo alle modalità di attuazione della divisione, è proponibile per la prima volta anche nel giudizio di appello, non costituendo una domanda nuova; pertanto la precedente richiesta del B. di attribuzione dell’intero bene formulata nel giudizio di primo grado non poteva essere preclusiva di quella espressa dall’appellante.
Inoltre la S. assume che il giudice di appello ha ritenuto erroneamente che a favore della decisione di attribuire la proprietà dell’immobile suddetto all’appellato conduceva in ogni caso la considerazione dell’occupazione di esso da parte sua in forza di contratto di locazione stipulato con l’appellante; invero non è stato considerato che l’attribuzione del bene al B. avrebbe comportato l’estinzione del rapporto di locazione per confusione nello stesso soggetto delle qualità di locatore e conduttore.
Con il secondo motivo la S. deduce l’erronea e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata nell’esprimere le considerazioni che l’avevano indotta alla scelta operata circa l’attribuzione dell’immobile oggetto di comunione tra le parti; infatti l’unico criterio che aveva condotto a tale decisione (già enunciato in sede di esposizione del primo motivo) si rivelava insufficiente a fondare le ragioni da parte del giudice di merito relative all’esercizio del proprio potere discrezionale al riguardo, non rispondendo il predetto parametro all’interesse comune dei condividenti.
Le enunciate censure, da esaminare congiuntamente per ragioni di connessione, sono in parte infondate ed in parte inammissibili per difetto di interesse.
La Corte territoriale, premessa l’indivisibilità dell’immobile in questione adibito a negozio, ha ritenuto condivisibile la decisione del giudice di primo grado che, in presenza della sola richiesta del B. di attribuzione in proprio favore del bene (richiesta formulata in sede di precisazione delle conclusioni), aveva provveduto in conformità, considerato altresì che la vendita all’incanto degli immobili indivisibili configura ai sensi dell’art. 720 c.c. un criterio residuale.
Tale convincimento è corretto sul piano logico – giuridico, posto che in effetti la S. nel primo grado di giudizio non solo non aveva chiesto a sua volta l’attribuzione del bene oggetto di comproprietà con il B., ma anzi aveva concluso per il rigetto della domanda attrice avente ad oggetto la divisione dell’immobile; pertanto si deve osservare da un lato che il Tribunale di Venezia, non essendo stato chiamato a decidere su due contrapposte domande di attribuzione, non ha dovuto applicare alcun criterio preferenziale nella scelta del condividente cui attribuire il bene, e dall’altro che l’orientamento giurisprudenziale richiamato dalla ricorrente principale sopra enunciato è irrilevante nella fattispecie laddove, essendovi già stata in primo grado una richiesta di attribuzione dell’immobile da parte del B. non seguita da analoga richiesta in tal senso da parte della S., la domanda al riguardo formulata da quest’ultima per la prima volta in appello era ormai preclusa dal fatto che il giudice di primo grado aveva correttamente provveduto in proposito.
Da tali considerazioni consegue poi l’inammissibilità per difetto di interesse dei profili di censura relativi all’esercizio del potere discrezionale del giudice della divisione nell’attribuzione all’uno o all’altro dei condividenti del bene indivisibile, considerato che la mancata presenza di due contestuali richieste da parte dei condividenti stessi (anzi può aggiungersi che la S. in appello si è limitata a chiedere la vendita all’incanto dell’immobile) ha comportato l’insussistenza in radice di una tale questione, in realtà trattata solo “ad abundantiam” dalla Corte territoriale.
Con il terzo motivo la S., deducendo violazione dell’art. 720 c.c., censura la sentenza impugnata per aver confermato le valutazioni del giudice di primo grado anche con riferimento al debito da conguaglio a carico del B., essendo stata omessa la sua rivalutazione con riferimento alla data della pronuncia d’appello.
La censura è infondata.
Deve premettersi che la sentenza di primo grado aveva stabilito un conguaglio di lire 96.390.000 in favore della S. ed a carico del B., e che tale statuizione non risulta essere stata oggetto di censure in appello da parte della attuale ricorrente principale, che in effetti lamenta la mancata rivalutazione d’ufficio del predetto importo da parte del giudice di appello con riguardo al periodo intercorso tra la decisione di primo grado e quella di secondo grado.
Orbene, se non può dubitarsi che il debito da conguaglio che grava sul condividente assegnatario di un immobile indivisibile ha natura di debito di valore, dunque rivalutabile anche d’ufficio dal giudice, nondimeno questa rivalutazione è dovuta se e nei limiti in cui nel frattempo vi sia stata una apprezzabile lievitazione del prezzo di mercato del bene tale da comportare una chiara sproporzione nel valore delle quote di cui sono rispettivamente titolari i condividenti e quindi una alterazione della funzione di riequilibrio cui il conguaglio è finalizzato; pertanto gli evidenziati poteri officiosi da parte del giudice della divisione non comportano l’insussistenza di un onere di allegazione della parte circa l’avvenuta verificazione di tale evento, tanto più che l’eventuale rivalutazione non può essere perseguita maggiorando automaticamente il prezzo del bene in base all’indice di svalutazione monetaria intervenuta “medio tempore”, in quanto spesso gli immobili si rivalutano con un ritmo diverso rispetto a quello della svalutazione della moneta secondo gli indici ISTAT.
Nella fattispecie quindi la S. nel giudizio di appello avrebbe dovuto dedurre una notevole lievitazione del mercato immobiliare nella zona in cui era ricompreso l’immobile oggetto di comunione tra le parti nel periodo intercorrente tra la decisione di primo grado e quella di secondo grado tale da incidere verosimilmente sulla misura del conguaglio dovuto, e dunque da sollecitare i poteri anche officiosi di accertamento da parte del giudice; in assenza di una simile attività di allegazione da parte dell’appellante la censura sollevata in questa sede deve essere disattesa.
Il ricorso principale deve quindi essere rigettato.
Occorre a tal punto esaminare il ricorso incidentale incentrato su di un unico motivo con il quale il B., deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 91-92 c.p.c., censura la sentenza impugnata per aver rigettato l’appello incidentale con il quale l’esponente aveva richiesto la riforma della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva compensato le spese di giudizio data “la natura della controversia”; tale assunto secondo il ricorrente incidentale sarebbe stato condivisibile qualora vi fosse stata una sostanziale comune volontà delle parti di procedere allo scioglimento della comunione, mentre nella specie, a fronte della domanda in tal senso introdotta dal B., la convenuta aveva chiesto la permanenza dello stato di comunione, cosicché la S., soccombente, avrebbe dovuto essere condannata al risarcimento delle spese del grado.
La censura è infondata.
Il giudice di appello ha ritenuto in proposito condivisibile la valutazione del Tribunale di Venezia circa la sussistenza di gravi motivi per la compensazione tra le parti delle spese, data la natura della controversia.
Tale convincimento non merita censure, posto che il provvedimento di compensazione delle spese per giusti motivi non deve essere necessariamente supportato da una specifica motivazione ad esso relativa, allorché le ragioni giustificatrici dello stesso siano desumibili dal complesso della motivazione addotta a sostegno della adottata statuizione; pertanto nella specie il provvedimento di compensazione totale delle spese è stato adeguatamente motivato con riferimento alla natura della controversia, considerato che soltanto la c.t.u. aveva consentito di rilevare la natura indivisibile del bene oggetto di comunione tra le parti, costituente la questione fondamentale dibattuta nel giudizio di primo grado.
Anche il ricorso incidentale deve quindi essere rigettato.
Ricorrono giusti motivi, avuto riguardo alla reciproca soccombenza, per compensare interamente tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, li rigetta entrambi e compensa interamente tra le parti le spese di giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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