CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE – 1 giugno 2010, n. 13413. In materia di concessione abusiva del credito.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

2.1. – Con il primo motivo la curatela ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto deducendo che dagli artt. 6, 64 ss., 187 (ora abrogato), 217 e 218 L. Fall., 30 D.Lgs. 270/1999 e 2449 c.c. (vecchio testo e nuovi artt. 2484, 2485 e 2486 c.c.) si trae il principio generale del divieto per l’imprenditore insolvente di compiere nuove operazioni, che avrebbero il solo effetto di aggravare l’insolvenza e di erodere ulteriormente il patrimonio dell’impresa, che l’art. 2740 c.c. vincola a garanzia della soddisfazione dei creditori, con il corollario che è dovere per i terzi di astenersi dal compiere atti illeciti, che consentano all’imprenditore di dissimulare l’insolvenza e continuare a contrarre debiti.

Comportamenti, questi ultimi, che determinano un danno ingiusto non solo per il singolo creditore del fallito (indotto in errore circa la solvibilità del fallito) ma anche il patrimonio sociale e per la massa dei creditori del fallito, i quali vedono eroso il patrimonio sociale che l’art. 2740 c.c. vincola a garanzia per la loro indistinta e paritaria tutela.

2.2. – Con il secondo motivo la curatela ricorrente deduce che l’illecito (ex artt. 2043 e 2049 c.c.) lede contemporaneamente l’impresa, di cui aggrava il dissesto economico, e la massa dei creditori. Ne conseguirebbe la legittimazione attiva del curatore a promuovere l’azione risarcitoria a tutela di quel diritto dell’impresa e della massa, come si evince dall’art. 240 L. Fall. che riconosce al curatore il diritto di costituirsi parte civile anche per i reati di cui agli artt. 217 e 218 L. Fall..

A ciò non sarebbe di ostacolo l’art. 146 L. Fall..

L’argomento valorizzato dalla Corte di merito – secondo cui l’azione sarebbe rivolta contro un soggetto (la banca) che, come creditore, si avvantaggerebbe della reintegrazione del patrimonio – sarebbe, peraltro, irrilevante a fronte di analoga situazione disciplinata dall’art. 71 l. Fall..

2.2.1. – Deduce, infine, che tutti gli elementi dell’illecito sarebbero desumibili dalla sentenza penale di condanna (intervenuta nelle more del giudizio civile) dell’amministratore e del direttore della filiale della banca per concorso in bancarotta fraudolenta e ricorso abusivo al credito.

3.1. – È opportuno premettere che su parte delle questioni poste con il ricorso sono intervenute le Sezioni unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 7029 del 28/03/2006) le quali hanno affermato i seguenti principi:

1) Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre, nei. confronti del finanziatore responsabile (nella specie, una banca), l’azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall’abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita una impresa decotta, suscitando così nel mercato la falsa impressione che si tratti di impresa economicamente valida. Nel sistema della legge fallimentare, difatti, la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa – finalizzate, cioè, alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo – al cui novero non appartiene l’azione risarcitoria in questione, la quale, analogamente a quella prevista dall’art. 2395 cod. civ., costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore, giacché, per un verso, il danno derivante dall’attività di sovvenzione abusiva deve essere valutato caso per caso nella sua esistenza ed entità (essendo ipotizzabile che creditori aventi il diritto di partecipare al riparto non abbiano ricevuto pregiudizio dalla continuazione dell’impresa), e, per altro verso, la posizione dei singoli creditori, quanto ai presupposti per la configurabilità del pregiudizio, è diversa a seconda che siano antecedenti o successivi all’attività medesima.

2) Costituisce domanda nuova, inammissibile ave proposta per la prima volta in sede di legittimità, quella con la quale il curatore fallimentare – dopo aver richiesto, nei confronti del finanziatore responsabile (nella specie, una banca), il risarcimento del danno da illecito aquiliano causato alla massa dei creditori dall’abusiva concessione di credito ad una impresa in stato di insolvenza, poi fallita, allo scopo di mantenerla artificiosamente in vita – deduca a fondamento della sua pretesa la responsabilità del finanziatore verso il soggetto finanziato per il pregiudizio diretto ed immediato causato al patrimonio di questo dall’attività di finanziamento, quale presupposto dell’azione che al curatore spetta come successore nei rapporti del fallito.

3.2. – Dal principio di cui alla prima massima – al quale il collegio, pienamente condividendolo, intende dare, anche in questa occasione, integrale continuità – discende l’infondatezza delle censure miranti all’affermazione della legittimazione del curatore a promuovere l’azione per abusiva concessione di credito quale rappresentante della massa dei creditori.

Peraltro, nella concreta fattispecie – come evidenziato nella parte narrativa – la Corte di merito dà per formulata, sin dalla precisazione contenuta nelle memorie integrative di primo grado, la domanda risarcitoria fondata sulla lesione del patrimonio dell’impresa fallita alla stregua di un diritto rinvenuto dal curatore nel patrimonio di questa ed esercitato ai sensi dell’art. 43 L. Fall..

In relazione a tale tipo di azione le Sezioni unite hanno puntualizzato che la società fallita “partecipò al contratto che dette luogo alla abusiva concessione del credito. Essa dunque da quel contratto non trasse un credito nei confronti della banca, oggi rivendicabile dal curatore.

Piuttosto dette luogo, nella stessa costruzione proposta dalla curatela, all’illecito di cui si discute. Dunque non può ragionarsi in termini di compensazione delle colpe, come pretende la curatela, giacché l’ipotesi di cui all’art. 1227 cod. civ., non può applicarsi al caso in cui entrambe le parti del rapporto danno vita, consapevolmente, al medesimo illecito, riguardando la norma codicistica la fattispecie nella quale distinte condotte, diversamente efficienti a produrre l’evento di danno, ma tuttavia l’una avente titolo nella colpa, concorrono a produrre l’evento pregiudizievole”. Considerazioni che si attagliano anche alla domanda proposta dalla curatela ricorrente nella parte in cui ha precisato di avere agito per far valere il danno cagionato al patrimonio sociale e, solo di riflesso, alla massa dei creditori.

3.3. – È da rilevare, però, che la peculiarità della fattispecie concreta consiste in ciò che – come dedotto dalla curatela ricorrente – tutti gli elementi dell’illecito sarebbero desumibili dalla sentenza penale di condanna (intervenuta nelle more del giudizio civile) dell’amministratore e del direttore della filiale della banca per “concorso in bancarotta fraudolenta e ricorso abusivo al credito”.

Orbene, premesso che la “legitimatio ad causam”, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa – con la conseguenza che, fondandosi la legittimazione ad agire, quale condizione all’azione, sulla mera allegazione fatta in domanda, una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea solo quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio (Sez. 3, Sentenza n. 14468 del 30/05/2008) -, per quanto attiene alla prospettazione della domanda come azione ex artt. 2043 e 2049 cod. civ. per la lesione arrecata al patrimonio della società – come interpretata dalla Corte di merito con accertamento non impugnato con ricorso incidentale condizionato – va precisato che, “in relazione a domanda di risarcimento del danno, derivante dalla dichiarazione di fallimento, proposta nei confronti di un terzo al cui comportamento illecito sia addebitata la verificazione dello stato di insolvenza”, “il curatore del fallimento è legittimato a far valere la responsabilità di terzi per fatti anteriori e colpevolmente causativi dello stato di insolvenza” (Sez. 3, 18/04/2000 n. 5028). Invero, da tempo questa Corte ha chiarito che il diritto al risarcimento dei danni subiti dal fallito che sia fondato sul comportamento illecito, contrattuale o extracontrattuale, di un soggetto che si assume aver cagionato la situazione di dissesto determinativa del fallimento, è un ordinario credito risarcitorio da illecito che, atteso il suo contenuto patrimoniale, non rientra tra i beni ed i diritti di natura strettamente personale esclusi dall’esecuzione concorsuale ai sensi dell’art. 46 n. 1 Legge Fallimentare, ed è anch’esso acquisito alla massa attiva del fallimento (Sez. 1, 20/05/1982 n. 3115).

Sennonché, la circostanza che l’amministratore della società fallita e il direttore della filiale della banca siano stati condannati per “concorso in bancarotta fraudolenta e ricorso abusivo al credito”, vale ad integrare un’ipotesi di responsabilità dell’amministratore verso la società ex art. 2393 cod. civ. – che il curatore può far valere ai sensi dell’art. 146 L. Fall. – e di concorso nella stessa responsabilità della banca convenuta in relazione alla condotta del proprio funzionario.

Costituisce, infatti, principio giurisprudenziale indiscusso quello secondo cui, sia in tema di responsabilità contrattuale che responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell’obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità e il concorso di più cause efficienti nella produzione dell’evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, configurandosi a carico dei responsabili del danno, un’obbligazione solidale, il cui adempimento può essere richiesto, per la sua totalità, ad uno solo dei coobbligati con azione separata, non sussistendo nei confronti di coobbligati in solido un’ipotesi di litisconsorzio necessario.

Il curatore è, perciò, legittimato ad agire, ai sensi dell’art. 148 L. Fall. in relazione all’art. 2393 cod. civ., nei confronti della banca, quale responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita dall’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della stessa società, senza che possa assumere rilievo il mancato esercizio dell’azione anche contro l’amministratore infedele.

Ma, poiché la responsabilità della banca convenuta quale concorrente nell’illecito commesso dall’amministratore della società fallita non risulta essere stata prospettata nel giudizio di merito e il curatore della società fallita in violazione del principio dell’autosufficienza – non ha indicato nel ricorso (trascrivendone il contenuto rilevante) in quali atti del giudizio di merito abbia formulato la domanda nei termini sopra precisati, le censure formulate con il secondo motivo debbono essere dichiarati inammissibili.

La novità delle questioni trattate e solo in parte risolte dalle Sezioni unite (stante la segnalata peculiarità della concreta fattispecie) giustifica l’integrale compensazione delle spese processuali del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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