CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE – 7 maggio 2010, n. 17694. In tema di riciclaggio.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Osserva

A D. G., imprenditore del casertano operante nel settore della vendita di bombole di gas, e ad E. B., commercialista, veniva applicata, dal GIP presso il Tribunale di Roma in data 15 luglio 2008, la misura cautelare della custodia in carcere perché indagati per il delitto di cui agli articoli 56 e 648 bis c.p., aggravato dalla circostanza di cui all’articolo 7 della legge 203 del 1991, perché avevano compiuto atti diretti ad occultare la provenienza da delitto di ingenti capitali tutti riferibili a famiglie appartenenti al Clan dei casalesi e a reimpiegare la somma di Euro 21.700.000,00 per l’acquisto di capitale sociale della Lazio spa, facente capo a L. Claudio, tramite Giorgio C..
Con ordinanza emessa in data 31 luglio 2008 il Tribunale del riesame di Roma, prescindendo da un puntuale esame degli indizi posti dal GIP a carico degli indagati, annullava l’ordinanza cautelare in base al principio che il delitto di associazione mafiosa non fosse idoneo a fungere in quanto tale da reato presupposto per la contestazione di riciclaggio; insomma per la configurabilità del delitto di cui all’articolo 648 bis c.p. sarebbe necessario che il compendio criminoso provenisse da un fatto, costituente reato o anche attività lecita, e non anche dalla mera esistenza del sodalizio.
Decidendo sul ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, la Corte di Cassazione, con sentenza emessa il 27 novembre 2008, annullava con rinvio per nuovo esame l’ordinanza del Tribunale del 31 luglio 2008 e rilevava che con la attuale formulazione dell’articolo 648 bis c.p. il delitto di riciclaggio era svincolato dalla pregressa tassativa indicazione dei reati presupposto, estesa attualmente a tutti i delitti non colposi previsti dal codice penale. La Corte, quindi, stabiliva che anche il delitto di associazione mafiosa rientrava tra i reati presupposto del riciclaggio. Infine la Corte chiariva anche che la provenienza del danaro oggetto di riciclaggio non doveva necessariamente essere tracciata, atteso che il delitto in esame era diretto proprio ad eliminare la traccia delle operazioni illecite di provenienza.
Con ordinanza emessa in data 2 luglio 2009 il Tribunale del riesame di Roma in sede di rinvio, premessa la ricostruzione dell’iter del procedimento, in applicazione dei principi di diritto stabiliti dalla Suprema Corte, analizzava il compendio indiziario esistente a carico dei due indagati al fine di verificare se, al di là di uno specifico tracciamento, la provvista di danaro destinata all’acquisto della azioni della SS Lazio spa, provenisse o meno da membri del Clan dei casalesi e dalle loro attività, lecite o illecite che fossero, e se gli indagati fossero a conoscenza di tale provenienza e avessero dato un apporto causale, e quale, al riciclaggio delle somme in discussione.
Ebbene in base agli esiti di numerose intercettazioni telefoniche, alle prove documentali acquisite ed agli esiti delle indagini bancarie compiute dalla Guardia di Finanza il Tribunale stabiliva che non vi potevano essere dubbi sia in ordine al fatto che il danaro in argomento provenisse dalle attività delittuose dei componenti del Clan, sia in ordine alla consapevolezza della provenienza illecita del danaro da parte del D. e dell’Errico.
Il Tribunale, inoltre, negava valore al fatto che il D. fosse stato assolto per non aver commesso il fatto dal delitto di partecipazione al Clan dei casalesi dal GUP presso il Tribunale di Napoli perché proprio la formula assolutoria dimostrava che il suddetto Clan era certamente esistente e rigettava tutte le altre deduzioni difensive.
Infine il Tribunale riteneva sussistenti le esigenze cautelari ed in particolare il pericolo di reiterazione della condotta criminosa e rigettava le istanze di riesame degli indagati.
Con il ricorso per cassazione E. B. deduceva:
– la violazione di legge relativamente alla eccezione preliminare di incompetenza per territorio per erronea applicazione dell’articolo 12 c.p.p., dovendosi ravvisare connessione tra il delitto di riciclaggio e quelli presupposti. Cosicché, trattandosi nel caso di specie del delitto di cui all’articolo 416 bis c.p. commesso nella regione campana, ai sensi dell’articolo 51 bis comma III c.p.p. si sarebbe dovuta individuare la competenza territoriale del Tribunale di Napoli;
– la erronea applicazione della legge penale in relazione alla circostanza aggravante ex articolo 7 della legge 203/91, mancando la prova della esistenza delle due condotte da tale norma previste;
– l’assenza di motivazione relativamente alla sussistenza della sopradetta aggravante, avendo il ricorrente richiesto la riforma del titolo detentivo previa esclusione della citata circostanza aggravante;
– l’assenza di motivazione relativamente alla richiesta di applicazione di una misura gradata.
Con il ricorso per cassazione D. Giuseppe deduceva:
– la violazione degli articoli 273 e 125 c.p.p. in relazione alla ritenuta sussistenza della violazione dell’articolo 648 bis c.p. ed il vizio di motivazione sul punto; il ricorrente ricordava di essere stato assolto dal delitto di cui all’articolo 416 bis c.p., deduceva la violazione del ne bis in idem e contestava che il Tribunale potesse considerare gravi indizi elementi che erano stati tenuti in considerazione ai fini della assoluzione;
– la violazione dell’articolo 292 comma II lettera c) bis c.p.p. per omessa valutazione delle censure difensive, ovvero per non avere considerato il Tribunale che il D. era stato assolto dal reato presupposto e che, pertanto, non era possibile rivalutare gli elementi già esclusi dal GUP. Insisteva, infine, il ricorrente sulla impossibilità del tentativo di riciclaggio, trattandosi di ipotesi criminosa a consumazione anticipata;
– la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla necessità di apprezzare in concreto se le somme utilizzate nella operazione Lazio avessero la provenienza indicata nel capo di incolpazione. Denunciava, inoltre, il ricorrente che il Tribunale non aveva tenuto conto degli elementi sopravvenuti;
– la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al dedotto ne bis in idem ed al divieto di duplicazione di procedimenti.
In data 8 gennaio 2010 D. Giuseppe depositava una memoria difensiva con la quale deduceva ulteriormente:
– la violazione dell’articolo 627 c.p.p. non essendosi il giudice di rinvio uniformato al dictum della Suprema Corte perché, posto che anche il reato associativo costituisce reato presupposto del riciclaggio, il giudice di rinvio avrebbe comunque dovuto individuare la traccia della provenienza illecita del danaro, specialmente se si considera che l’assoluzione del D. dal reato associativo aveva fatto venire meno proprio il presupposto della illecita provenienza;
– il travisamento del fatto perché secondo il Tribunale alcuni pentiti avrebbero confermato la partecipazione del Diana alla associazione, mentre i pentiti si sarebbero riferiti al Sorrentino;
– la mancanza di prova sulla stessa esistenza della provvista illecita;
– la violazione dell’articolo 648 bis c.p. non essendo possibile il concorso tra il delitto associativo – dal quale il D. è stato assolto, ma del quale rimane imputato per effetto dell’appello del Pubblico Ministero – ed il riciclaggio, escluso dalla chiara disposizione del citato articolo, secondo la quale i concorrenti nel reato presupposto non rispondono del delitto di riciclaggio; in effetti per l’associato il vivere dei proventi dell’associazione è un post factum non punibile e, quindi, sarebbe stato necessario un quid pluris, ovvero la individuazione dei reati fine produttivi di illeciti profitti;
– la incompetenza territoriale perché il tentativo di riciclaggio – meglio reimpiego -, della cui sussistenza è lecito dubitare, lega gli indagati al processo napoletano – accuse di associazione per delinquere, concorrenza sleale, estorsioni ed altro – sia perché alcune imputazioni sono sostanzialmente sovrapponigli, sia perché quanto meno vi è il vincolo della continuazione e quello teleologico, non potendosi, peraltro, sostenere che vi è una autonomia tra i due procedimenti. Il ricorrente indicava come competente la DDA di Napoli per la stretta connessione con il delitto associativo, delitto presupposto attribuito anche al D., e per il fatto che il danaro che sarebbe stato raccolto tra gli associati, sarebbe stato investito in Ungheria, cosicché un riciclaggio si sarebbe già consumato nel napoletano e all’estero, dovendosi l’attività contestata al D. nel presente procedimento tutto al più considerare come un ulteriore reimpiego del danaro di illecita provenienza. Anche il criterio della perpetuatio iurisdictionis troverebbe applicazione nel caso di specie perché in effetti il GUP di Napoli si era pronunciato sulla sostanzialmente identica ipotesi di riciclaggio, assolvendo il D..
I motivi posti a sostegno dei ricorsi proposti da D. Giuseppe ed E. Bruno sono infondati.
Nell’esaminare in primo luogo la posizione di D. Giuseppe deve rilevarsi che la Suprema Corte aveva annullato la prima ordinanza del Tribunale del riesame affermando il principio di diritto che anche il delitto di associazione mafiosa di cui all’articolo 416 bis c.p. può essere ritenuto il reato presupposto richiesto dall’articolo 648 bis c.p..
Orbene che esista il ed clan dei casalesi operante nella zona del casertano è fatto notorio accertato anche giudiziariamente con la sentenza, oramai passata in giudicato, del c.d. processo Spartacus.
Fatto questo per nulla escluso dalla più volte richiamata sentenza del GUP di Napoli, che si è pronunciato anche sulla posizione di D. Giuseppe ; il GUP, infatti, ha assolto il D. dal delitto di partecipazione al predetto clan per non aver commesso il fatto, sul presupposto che gli elementi raccolti a carico dell’imputato non consentissero di affermare la sua partecipazione alla associazione mafiosa, tanto è vero che in un passaggio il GUP ha rilevato che la condotta del Diana… appare connotata da una situazione adesiva alle ragioni dei camorristi, ma senza che ciò possa significare alcuna appartenenza dello stesso al clan.
Ciò detto deve ancora rilevarsi che è sufficiente perché possa ritenersi integrato il delitto di cui all’articolo 648 bis c.p. che risulti al giudice chiamato a conoscere di tale reato la esistenza del reato presupposto – nel caso di specie la violazione dell’articolo 416 bis c.p. -, ma non è affatto richiesto che la persona imputata del delitto di riciclaggio sia altresì imputata del delitto di partecipazione alla associazione mafiosa.
Anzi sarebbe vero il contrario perché, tenuto conto della causa di esclusione “fuori dei casi di concorso nel reato” contenuta nell’articolo 648 bis c.p., il partecipe al delitto associativo, quando lo stesso costituisca il reato presupposto, non potrebbe essere considerato autore del delitto di riciclaggio, come del resto si desume a contrario dalla giurisprudenza che escludeva un rapporto di presupposizione tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere di stampo mafioso (vedi Cass., Sez. II, 14 febbraio – 6 marzo 2003, n. 10582, CED 223689).
I rilievi del ricorrente sul punto non sono, pertanto, fondati.
Anche il rilievo, contenuto sempre nel primo motivo di impugnazione, che sarebbe stato violato il divieto del ne bis in idem non può trovare accoglimento perché, come è stato posto in evidenza dal Tribunale del riesame, i fatti oggetto di valutazione del GUP di Napoli e quelli oggetto del presente procedimento penale non sono sovrapponibili per la semplice ed assorbente ragione che nel procedimento napoletano si discuteva, tra l’altro, sulla appartenenza o meno del D. al sodalizio mafioso, mentre l’oggetto del presente procedimento penale consiste nel verificare se il D. abbia tentato di reimpiegare il danaro proveniente dagli associati, o meglio dalle famiglie del clan, investendolo in operazioni apparentemente lecite.
In tale ottica anche il rilievo che sarebbero stati rivalutati degli elementi, considerandoli gravi indizi di reato, già valutati negativamente dal GUP di Napoli, non può trovare accoglimento perché, anche quando sono stati presi in considerazione identici elementi, essi sono stati valutati a fini diversi ed in relazione ad ipotesi di reato del tutto diverse.
Anche il secondo motivo di impugnazione è infondato.
Il ricorrente, partendo dal presupposto della violazione del ne bis in idem, ha escluso la valenza indiziaria degli elementi messi in evidenza dal Tribunale del riesame perché esclusi dal GUP con la sentenza di assoluzione.
Superato il problema del rapporto tra i due procedimenti con il rinvio a quanto già detto in proposito, bisogna rilevare che, invece, in punto di fatto, facendo leva su dichiarazioni di collaboratori di giustizia reciprocamente riscontratesi, esiti di intercettazioni telefoniche, documentazioni bancarie concernenti l’apertura di conti correnti presso banche ungheresi ed italiane, ecc. ecc. il Tribunale del riesame ha descritto un quadro indiziario davvero grave, dal quale emerge – detto in estrema sintesi – che la provvista finanziaria necessaria per tentare la scalata alla società sportiva Lazio proveniva proprio dalla raccolta di fondi presso le famiglie mafiose aderenti al clan dei casalesi e che le operazioni di riciclaggio erano dirette e coordinate proprio da Diana Giuseppe, che agiva con la collaborazione del commercialista Errico e di altri soggetti quali il D. C., considerato mandatario del D., e tale S. Zoltan.
Non può questo giudice di legittimità rivalutare la gravità del compendio indiziario, essendo tale operazione di competenza dei giudici di merito; è sufficiente, perciò, rilevare che la motivazione del provvedimento impugnato – che, peraltro, non è stata specificamente censurata – che sorregge tale valutazione è immune da manifeste illogicità.
Anche l’ulteriore censura contenuta nel secondo motivo di impugnazione, secondo la quale non sarebbe configurabile il tentativo nel delitto di riciclaggio, sul presupposto che si tratti di una fattispecie a consumazione anticipata, appare destituita di fondamento.
Infatti in tal modo poteva configurarsi la fattispecie descritta nel testo originario dell’articolo 648 bis c.p. inserito nel codice penale dall’articolo 3 del decreto legge 21 marzo 1978 n. 69, convertito dalla legge 18 maggio 1978 n. 191, secondo il quale chiunque compie “fatti o atti diretti” a sostituire danaro o valori… è punito (vedi in proposito Cass. 15 maggio 1986, Catanzaro).
Senonché il testo dell’articolo in discussione è stato dapprima modificato con l’articolo 23 della legge 19 marzo 1990 n. 55 e poi dall’articolo 4 della legge 9 agosto 1993 n. 328.
In virtù di tali modifiche, resesi necessarie per conformare la legislazione italiana in materia alla direttiva del 10 giugno 1991 del Consiglio dei Ministri della Comunità Europea, è punito oggi a titolo di riciclaggio “chiunque sostituisce o trasferisce” denaro, beni…; cosicché risulta evidente dal tenore letterale della norma che non si tratta più di una fattispecie a consumazione anticipata, circostanza questa che consente senz’altro di configurare una ipotesi di tentativo.
Non è fondato nemmeno il terzo motivo di impugnazione del D. che ha eccepito il vizio di motivazione non avendo il Tribunale accertato in concreto se le somme utilizzate nella operazione Lazio avessero la provenienza indicata nel capo di imputazione.
Non è così perché il Tribunale, dopo avere esaminato gli atti e le prospettazioni dell’interessato, ha tenuto conto delle indicazioni della Corte Suprema che, tra l’altro, aveva chiarito non essere necessaria una completa tracciabilità del danaro proprio perché la condotta di riciclaggio consiste nel ripulire il cd. danaro sporco e nel fare perdere le tracce dell’iniziale conseguimento illecito della somma poi reimpiegata, ed ha in modo diffuso indicato tutti gli elementi – telefonate tra D. e D. C., telefonate tra D. e C., dalle quali si evinceva l’assenso di quest’ultimo a fare transitare sul proprio conto una somma ingente necessaria per l’acquisto delle azioni della Lazio, l’apertura di un conto corrente presso la Volksbank di Budapest da parte di D.C., mandatario del D., e l’ordine di bonificare una somma ingente in favore del C., ecc. ecc. – che consentivano di ritenere che il D., con l’aiuto del commercialista Errico ed in concorso con altre persone, aveva predisposto una serie di atti univoci diretti a far transitare una provvista di ingente valore da una banca ungherese in Italia per l’acquisto della società sportiva Lazio.
Infondato è, infine, anche il quarto motivo di impugnazione, tutto dedicato alla presunta violazione del principio del ne bis in idem, per le considerazioni già svolte sul punto, alle quali si deve rinviare.
Con memoria difensiva poi il D. ha dedotto ulteriori motivi di impugnazione.
Non è ravvisabile la dedotta violazione dell’articolo 627 c.p.p., e ciò a prescindere dal fatto che si tratta di motivo inammissibile perché del tutto nuovo rispetto a quelli dedotti con il ricorso.
Ed, infatti, il Tribunale ha rispettato in pieno il dictum della Suprema Corte perché, dopo avere preso atto della assoluzione del D. dal delitto di partecipazione ad una associazione mafiosa, ha rilevato che, comunque, l’associazione mafiosa sussisteva e che, pertanto, poteva costituire il reato presupposto del delitto di riciclaggio.
Ha poi logicamente chiarito che dai vari elementi indiziari – dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ed esiti di intercettazioni telefoniche – era possibile stabilire che le somme di danaro di cui si discute provenivano proprio dalle famiglie del clan dei casalesi, che le avevano affidate al D., uomo molto rispettato dal clan, proprio per un reimpiego.
Quindi il danaro era di sicura provenienza illecita, a nulla rilevando che il D. non appartenesse alla associazione mafiosa.
Anche il secondo rilievo è del tutto nuovo, nel senso che non concerne i punti impugnati con il ricorso (vedi Cass., Sez. III, 22 gennaio – 26 marzo 2004, n. 14776, CED 228525), ed è, quindi, inammissibile.
In ogni caso tale motivo risulta inammissibile anche perché deduce in modo generico questioni di merito, quale il presunto errore nella indicazione di un collaboratore di giustizia al posto di un altro, fatto che, se vero, potrebbe anche costituire un semplice errore materiale del tutto irrilevante.
Nessun rilievo ha poi la circostanza che il danaro di cui si discute non sia stato materialmente rinvenuto, perché nel caso di specie si discute di tentativo di riciclaggio e non di reato consumato.
Né ha rilievo la considerazione che se riciclaggio vi fu esso si era già consumato in Ungheria, ovvero con il trasferimento all’estero del danaro, in quanto le condotte di riciclaggio e di reimpiego di cui all’articolo 648 bis c.p. contemplano l’attività delittuosa diretta sia alla trasformazione parziale o totale del danaro che ad ostacolare l’accertamento sulla origine delittuosa del danaro, e sono caratterizzate da un effetto dissimulatorio, tendente ad ostacolare l’accertamento dell’origine delittuosa illecita, come nella specie desumibile dalle telefonate tra il D., il D.C. e B. Giancarlo tendenti a procurarsi pezze di appoggio giustificative della provenienza del denaro, cioè a preparare tutto come se fosse vero.
Della infondatezza del quarto rilievo dei motivi nuovi, ovvero della dedotta impossibilità del concorso tra delitto associativo e riciclaggio, si è già detto in precedenza e non occorre ripetersi.
È infondata anche la eccezione di incompetenza territoriale, che è stata sollevata per la prima volta con i motivi nuovi.
Come ha chiarito il Tribunale, il procedimento napoletano e quello oggi in discussione riguardano fatti soltanto parzialmente sovrapponibili ed utilizzano un materiale di indagine diverso, che lega i fatti contestati a profili delittuosi diversi.
Ed il Tribunale ha ulteriormente chiarito che allo stato non è ravvisatole una connessione giudiziariamente rilevante con i ed delitti presupposti, attesa l’autonomia delle condotte afferenti ai delitti in contestazione; ed ha concluso il Tribunale osservando che i fatti per cui si procede sono stati ideati e realizzati a Roma, pur se il danaro rappresenta il provento di attività illecite compiute in altri territori.
Si tratta di corrette e logiche osservazioni che debbono essere condivise e che non sono superate dalle osservazioni del ricorrente.
A ciò bisogna aggiungere che non è prevista una vis attractiva della competenza in relazione al luogo del delitto presupposto per l’ipotesi di riciclaggio delle cose che ne costituiscono il provento.
È appena il caso di rilevare, inoltre, che il Tribunale del riesame può pronunciarsi sulla propria competenza in sede di giudizio de libertate solo entro i limiti dei fatti sottoposti alla sua valutazione e, pertanto, non può accertare la connessione con altri reati sottoposti alla cognizione di un giudice territorialmente diverso (vedi Cass., Sez. V, 11 dicembre 2002 – 11 febbraio 2003, n. 6548, CED 224664).
Infine è necessario ricordare che nell’attuale sistema processuale la connessione postula necessariamente per la sua operatività che i procedimenti da riunire si trovino nella medesima fase cognitiva (così Cass., Sez. I, 8 aprile 2004 – 22 aprile 2004, n. 19003, CED 227947), cosa non ravvisabile nel caso in discussione, ove per uno dei procedimenti è stata già pronunciata sentenza.
Anche il ricorso di Bruno Errico è infondato.
Quanto alla eccezione di incompetenza territoriale si rinvia a quanto si è detto in proposito in relazione ad analoga eccezione del D..
Del pari infondati sono i motivi secondo e terzo concernenti l’aggravante di cui all’articolo 7 della legge 230 del 1991.
In verità da tutta la motivazione del provvedimento impugnato risulta che l’attività di riciclaggio posta in essere dal D. con l’aiuto dell’E. – o, per essere più precisi, gli atti posti in essere diretti a commettere tale reato – fosse diretta ad investire in attività lecite una ingente somma di danaro costituita da versamenti effettuati da famiglie del clan dei casalesi.
È allora evidente che, indipendentemente dalla partecipazione o meno del D. alla associazione, condotta presa in considerazione dal Tribunale del riesame fosse diretta ad avvantaggiare, o comunque, a favorire l’associazione mafiosa, che aveva interesse ad investire in attività lecite la somma di danaro di loro appartenenza e conseguita illecitamente.
Sostenere in una situazione siffatta la non configurabilità dell’aggravante in discussione non appare, in verità, possibile.
Non è ravvisabile il vizio di motivazione in ordine alla richiesta di una misura cautelare di minore gravità perché il Tribunale ha, anche con riferimento all’Errico, sottolineato il pericolo di reiterazione della condotta criminosa, affermazione quest’ultima nemmeno contestata dal ricorrente.
In ogni caso si tratta di una valutazione di merito non sindacabile in sede di legittimità in quanto sostenuta da una motivazione immune da vizi logici. Inoltre bisogna considerare che la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’articolo 7 della legge 203 del 1991 fa scattare la presunzione di adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere, presunzione che non risulta essere vinta da alcun concreto elemento.
Per le ragioni indicate i ricorsi debbono essere rigettati e ciascun ricorrente deve essere condannato a pagare le spese del procedimento.
La Cancelleria è tenuta ad inviare gli avvisi e le comunicazioni di cui all’articolo 94 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente a pagare le spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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