Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, Sentenza del 4 giugno 2010 n. 21013. In materia di estorsione.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 18 settembre 2009, la Corte d’Appello di Milano, 3^ sezione penale, in parziale riforma della sentenza del Tribunale in sede riduceva la pena inflitta a XXX a tre anni quattro mesi di reclusione ed € 400 di multa, concesse le attempanti generiche equivalenti alla contestata aggravante e alla recidiva e per l’effetto sostituiva la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea per la durata di cinque anni e revocava la pena accessoria dell’interdizione legale dorante l’espiazione della pena; confermava nel resto la decisione impugnata con la quale l’appellante era stato dichiarato colpevole di concorso con YYY(socio della ditta Milangel snc) e ZZZ nel delitto di estorsione aggravata in danno di AAA, proprietario del ristorante Nuovo Yacht e debitore della Milangel di € 32.327,08 per forniture di pesce, per avere con minacce richiesto l’immediato pagamento del dovuto ed accettando poi, il pagamento rateizzato di € 4.000,00 al mese per otto mesi, ottenendo quindi la corresponsione della prima rata di € 4.000,00 in Milano dal 22.2 al 20.3.2008.
La Corte territoriale, rigettata l’eccezione di nullità del giudizio per la mancata trasmissione degli atti al PM a seguito della contestazione dinanzi al giudice monocratico dell’aggravante di cui al comma 2 dell’art. 629 c.p. sul rilievo che dinanzi al tribunale in composizione collegiale (al quale erano stati trasmessi direttamente gli atti) il giudizio era stato definito col rito abbreviato condizionato, nel merito riteneva fondata la prova della responsabilità sulla scorta della deposizione della persona offesa. Non accoglieva la richiesta di derubricare nel meno grave delitto di cui all’art. 393 c.p. (ovvero, in subordine, 610 c.p.) perché la minaccia di esercitare il preteso diritto era stata realizzata con tale forza intimidatoria e con tale sistematica pervicacia da risultare incompatibile con il ragionevole intento di far valere il diritto vantato. Inoltre senza dubbio 1’imputato si riprometteva di ottenere un compenso per 1’attività svolta non essendo credibile che si fosse prestato gratuitamente a favore di persona alla quale non era legato da un particolare rapporto. Sussisteva l’ipotesi aggravata perché l’imputato, pur presentatosi da solo, alludeva (oltre alla sua origine calabrese) all’esistenza di collegamenti con altri soggetti. Escludeva infine la ricorrenza dei presupposti dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. ma concedeva le attenuanti generiche, equivalenti alle contestate aggravanti e per 1’effetto rideterminava la pena principale e quelle accessorie.
Contro tale decisione ha proposto tempestivo ricorso 1’imputato, a mezzo del difensore, che ne ha chiesto 1’annullamento per i seguenti motivi: – erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta configurazione del reato di estorsione in ordine all’intensità della minaccia nonché alla sussistenza di un ingiusto profitto, perché la stessa sentenza ha riconosciuto che la vicenda in esame "non [è] connotata da elementi di particolare violenza", vero essendo che la condotta posta in essere è stata connotata solo da una certa arroganza integrante soltanto il meno grave delitto di ragion fattasi posta 1’indubbia liceità della pretesa. La Corte territoriale ha presunto che il ricorrente agisse anche per un profitto proprio, senza che sussistesse alcun riscontro probatorio; – erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante nonché carenza e illogicità della motivazione, perché l’uso della prima persona plurale e 1’accento calabrese sono stati arbitrariamente assunti a prova del collegamento con gruppo criminale, peraltro escluso dalla stessa sentenza allorché ha dovuto dare atto della personalità dell’imputato e della sua limitata pericolosità.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Va invero confermato il canone interpretativo secondo il quale "si configura il reato di estorsione di cui all’art. 629 cod. pen. e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 cod. pen., allorché il terzo incaricato dell’esazione del credito, a nulla rilevando la natura, lecita o illecita, di essa, agisca con violenza o minaccia nei confronti del debitore non al mero fine di coadiuvare il creditore a farsi ragione da se medesimo, ma anche e soprattutto per il perseguimento dei propri autonomi interessi illeciti" (Cass. Sez. 2, 16.2-12.4.2006 n. 12982).
La sentenza impugnata ha ben posto in evidenza come il ricorrente abbia agito rappresentando una posizione di supremazia territoriale ("noi siamo calabresi e questa zona la comandiamo noi") dato dal quale non illogicamente è stato tratto il convincimento che egli si riprometteva di ottenere un compenso per 1’attività svolta, anche in considerazione del fatto che la rischiosità del compito assunto è incompatibile con la sua gratuità in assenza di particolari rapporto con il creditore. Tale passaggio della motivazione, che si fonda su massima d’esperienza di tipo empirico, non è stata oggetto di critica specifica e quindi resta come valido argomento a sostegno della decisione adottata.
Peraltro in maniera appropriata, in ragione del contenuta fortemente intimidatorio delle frasi minacciose pronunciate, la Corte territoriale ha richiamato il principio ermeneutico secondo il quale la condotta posta in essere è tale da risultare incompatibile con il ragionevole intento di far valere il diritto (Cass. Sez. 2 n. 14440 del 2007), principio che la ora richiamata sentenza ha ribadito, in quanto già espresso in un precedente arresto (Cass. Sez. 2, 12.7.2002 n. 29015) e successivamente ancora ribadito (Cass. Sez. 2, 27.6-26.9.2007 n. 35610) .
Né ricorre la denunciata contraddittorietà della motivazione perché solo al fine di riconoscere la meritevolezza delle attenuanti generiche la Corte territoriale ha proceduto ad una valutazione complessiva della vicenda, avendo valorizzato in tale caso non la gravità delle minacce ma soltanto il diverso elemento della violenza. Peraltro residua comunque 1’argomento che ha valorizzato la condotta posta in essere dal ricorrente in quanto terzo portatore di un autonomo interesse rispetto a quello legittimo del creditore: non è dato comprendere a quale titolo il ricorrente potesse quietanzare in nome e per conto del creditore. La sentenza di primo grado, che a tutti gli effetti integra quella di appello, ha specificamente argomentato sul punto, con motivazione che non è stata oggetto di. critica neppure con 1’appello, laddove ha evidenziato il realizzarsi del danno per la vittima "costretta a pagare nelle mani di chi, come il XXX, non si era neppure premurato neppure di presentarsi e di qualificarsi come rappresentante del creditore" sicché aveva privato "la persona offesa della possibilità di richiedere, come nel diritto di ogni creditore, una quietanza liberatoria quale ricevuta di pagamento".
2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Va ribadito che "in tema di estorsione, per la configurabilità dell’aggravante delle "più persone riunite" non è necessaria la simultanea presenza di più soggetti attivi nel luogo e nel momento della commissione del reato, essendo sufficiente che il soggetto passivo abbia acquisito la sensazione che la minaccia provenga non solo dal singolo che la proferisce, ma che costui manifesti le comuni, perverse intenzioni di più persone, di cui si fa portavoce (Cass. Sez. 1, 3.11.2005 – 14.2.2006 n. 5639; Cass. Sez. 2, 22.11 – 6.12.2006 n. 40208; Cass. Sez. 1, 25.9 – 6.11.2007 n. 40494; Cass. Sez. 2, 31.3 – 22.4.2008 n. 16657).
Il contrasto interpretativo evocato dal ricorrente è solo apparente, perché il principio costantemente ribadito è quello della ratio che giustifica 1’aggravamento di pena, legato all’obiettiva pericolosità del fatto e dalla maggiore efficacia intimidatrice connessa alla presenza di più persone, ancorché la minaccia o la violenza sia stata posta in essere da una sola (in tal senso cfr. Cass. Sez. 2, 5-20.2.2008 n. 7923; Cass. Sez. 2, 22.4 – 18.6.2009 n. 25614). La simultaneità della presenza fisica si pone quindi come elemento accidentale, perché quello che rileva è la percezione della vittima sull’esistenza di una pluralità di persone.
3. Il ricorso deve in conseguenza essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Roma 13 maggio 2010
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 4 GIUGNO 2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *