Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-05-2011, n. 11506 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 346/2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Ascoli Piceno respingeva la domanda proposta da F.G. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta a far dichiarare la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, intercorso fra la parti dal 1-3-1999 al 31-5-1999, per "esigenze eccezionali" ex art. 8 c.c.n.l. 1994 e acc. az. 25-9-97, con la conseguente sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato e con la condanna della società al ripristino del rapporto e al pagamento delle relative retribuzioni, oltre accessori.

La F. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma, con l’accoglimento della domanda.

La società si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza depositata l’8-5-2006, in accoglimento dell’appello, dichiarava la nullità del termine e la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dall’origine, ancora in corso, e condannava la società al ripristino del rapporto e al pagamento delle relative retribuzioni dal 14-10- 2003, oltre rivalutazione ed interessi ed oltre le spese del doppio grado di giudizio.

Per la cassazione della detta sentenza la società ha proposto ricorso con due motivi.

La F. ha resistito con controricorso.

Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 e degli artt. 1362 e ss. c.c., nonchè vizio di motivazione, denuncia che la sentenza impugnata, disapplicando il principio della "delega in bianco contenuta nel citato art. 23, erroneamente ha ritenuto che "per ridurre a razionalità il sistema" l’ipotesi prevista in sede collettiva dovesse "essere necessariamente correlata ad una precisa limitazione temporale", così interpretando l’accordo citato ed i successivi accordi attuativi, in violazione dei criteri ermeneutici., nel senso della efficacia temporalmente limitata al 30-4-1998, laddove i detti accordi attuativi avevano, una natura meramente ricognitiva.

Osserva il Collegio che la Corte di merito, tra l’altro, ha attribuito rilievo decisivo in particolare alla considerazione che nella fattispecie, con gli accordi attuativi dell’accordo del 97, "le parti hanno espressamente previsto un termine di scadenza del potere datoriale di concludere contratti di lavoro a tempo determinato. Si deve pertanto concludere che il contratto di lavoro che ha interessato la F., successivo al 30-4-1998, è stato stipulato al di fuori della autorizzazione prevista nella contrattazione collettiva. Le relative clausole di apposizione del termine finale sono nulle ed il contratto stesso, in conseguenza della dichiarata nullità della suddetta clausola, si intende stipulato a tempo indeterminato fin dell’"origine".

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere la impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de qua (stipulato "per esigenze eccezionali" in data successiva al 30-4-1998).

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063,v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha ripetutamente affermato e come va anche qui enunciato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit).

Così respinto il primo motivo, osserva il Collegio che, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Orbene, a prescindere da ogni altra considerazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria.

In particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che essi non siano tardivi o generici, etc.,; in particolare, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D. Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, tali motivi devono essere altresì corredati, a pena di inammissibilità degli stessi, dalla formulazione di un adeguato quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., ratione temporis ad essi applicabile.

In caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

Premessi tali principi di diritto, si rileva che nel caso in esame il motivo che investe il tema cui potrebbe essere riferibile, secondo la prospettazione della ricorrente, la disciplina di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, è il secondo, indicato nella rubrica come di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo.

Si tratta, in realtà, di un motivo relativo alla pretesa violazione di una regola iuris riconducibile all’art. 2697 cod. civ. (con conseguente assorbimento, comunque, del preteso vizio di motivazione – arg. art. 384, cod. proc. civ., u.c.) e attinente all’argomento della detrazione all’aliunde perceptum dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullità del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato.

La ricorrente con tale motivo lamenta infatti del tutto genericamente e quindi in maniera inammissibile che la Corte territoriale abbia errato nel ritenere irrilevante la relativa eccezione e poi censura la sentenza per non avere tenuto conto che dai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte (cita al riguardo Cass. 17 ottobre 2001 n. 12697) discenderebbe che l’aliunde perceptum … non può che essere genericamente dedotto dall’istante … Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere sfato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga)".

Il motivo così riassunto conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.:

"Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum il giudice debba valutare le richieste probatorie con minar rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto".

Se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura (cfr., ad es., Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36 e 5 febbraio 2008 n. 2658) è evidente che il quesito come sopra formulato dalla società appare in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente e quindi si valuta inammissibile il relativo motivo, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (in tal senso v. fra le altre Cass. 10-1-2011 n. 325).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della F..
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente a pagare alla F. le spese, liquidate in Euro oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 14 aprile 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *