Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 18-01-2011) 16-03-2011, n. 10748

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

etto del ricorso.
Svolgimento del processo

Con sentenza del Tribunale di Bergamo, Sezione distaccata di Treviglio, emessa in data 9.11.2005 C.G. veniva riconosciuto responsabile del reato di calunnia per avere denunciato falsamente il furto di alcuni assegni, che in realtà egli stesso aveva consegnato a D.S.C. a garanzia di un prestito di circa 200 milioni di lire che questi gli aveva erogato, così accusando indirettamente quest’ultimo di ricettazione, reato per il quale veniva effettivamente indagato dopo aver posto all’incasso uno degli assegni oggetto della denuncia. L’imputato veniva condannato alla pena di un anno e cinque mesi di reclusione, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, liquidati in Euro 5.000.

Con sentenza emessa il 4.5.2006 dallo stesso Tribunale, il C. veniva condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile liquidato in complessivi Euro 2.500. Quest’ultima sentenza aveva ad oggetto la stessa denuncia di furto, ma con riferimento ad altri quattro assegni, anch’essi consegnati al D.S..

A seguito delle impugnazioni proposte dall’imputato avverso le due sentenze di condanna, la Corte d’appello di Brescia, disposta la riunione dei distinti procedimenti, ha ritenuto il fatto di cui alla sentenza del 9.11.2005 assorbito nell’imputazione oggetto dell’altra e ha determinato la pena in un anno e quattro mesi di reclusione, confermando la condanna al risarcimento dei danni morali subiti dalla parte civile, che ha liquidato in Euro 5.000,00, oltre alle maggiori spese processuali e alla rifusione di quelle di rappresentanza e difesa in favore della parte civile.

Nell’interesse dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione il difensore, avvocato Lorenzo Longhi Zanardi.

Dopo aver ricostruito le modalità processuali che hanno portato alla riunione dei due procedimenti, il ricorrente ha eccepito la nullità della sentenza d’appello per omessa citazione dell’imputato a comparire all’udienza del 15.1.2008, fissata al fine di disporre la trattazione unitaria delle regiudicande. Si sostiene, infatti, che il C., dichiarato contumace alla prima udienza del 12.9.2007 davanti alla Corte d’appello avente ad oggetto la sentenza del 4.5.2006, non sarebbe stato notiziato della successiva udienza del 15.1.2008, fissata per la trattazione anche dell’altro procedimento.

Con un secondo motivo il ricorrente ha denunciato l’abnormità del provvedimento con cui la Corte d’appello ha disposto la riunione dei procedimenti. Si sostiene che i giudici non avrebbero dovuto disporre la riunione, ma una volta verificato che i due procedimenti riguardavano un identico fatto-reato, avrebbero dovuto dichiarare improcedibile il secondo processo.

Con il terzo motivo deduce comunque l’erronea applicazione delle disposizioni sulla riunione, rilevando che il provvedimento andava disposto solo dopo avere sentito le parti, circostanza che nella specie non si sarebbe verificata.

Con il quarto motivo il ricorrente assume che anche a non voler considerare abnorme la disposta riunione, la sentenza deve essere annullata ai sensi dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. a) in quanto l’azione penale non doveva essere proseguita con riferimento al secondo processo oggetto dell’impugnazione.

Con il quinto motivo viene dedotta l’illogicità della motivazione derivante dal fatto che la Corte d’appello, partendo dall’erroneo presupposto di dover giudicare unitariamente i due procedimenti, utilizza argomentazioni ed elementi probatori tratti ora dall’uno ora dall’altro procedimento, finendo per affermare la responsabilità del C. in ordine ad una condotta che non risulta contestata nell’imputazione.

Con l’ultimo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 597 c.p.p., per avere i giudici di secondo grado condannato l’imputato al risarcimento dei danni in misura più gravosa rispetto alla sentenza di primo grado (da Euro 2.500 a Euro 5.000). Si sostiene che essendo il fatto reato unico, avendo gli stessi giudici escluso la continuazione, il limite della reformatio in pejus è rappresentato dalle statuizioni previste dalla sentenza più favorevole, cioè quella del 4.5.2006, che ha condannato l’imputato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione e al risarcimento del danno pari ad Euro 2.500.
Motivi della decisione

I motivi dedotti sono tutti infondati.

La dedotta nullità assoluta non sussiste, in quanto la Corte d’appello ha comunicato al difensore dell’imputato contumace, presente all’udienza del 23.10.2007, che avrebbe disposto la riunione dell’altro procedimento penale, come risulta dall’ordinanza emessa in quella stessa udienza, sicchè deve escludersi qualsiasi violazione dei diritti della difesa, in quanto l’imputato doveva considerarsi a tutti gli effetti rappresentato dal suo difensore.

Non sussiste la denunciata abnormità del provvedimento di riunione, avendo la Corte d’appello fatto uso di un potere che l’ordinamento processuale riconosce al giudice ex art. 17 c.p.p.. La giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni ribadito che è abnorme il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, nonchè quello che, pur essendo in astratto espressione di un legittimo potere, si esplichi, al di là di ogni ragionevole limite, al di fuori dei casi consentiti o delle ipotesi previste (v. Cass., sez. un., 24 novembre 1999 n. 26, Magnani e 10 dicembre 1997 n. 17), situazioni che non ricorrono nel caso in esame.

Infondato è anche il motivo con cui si assume la violazione della disposizione che impone al giudice di sentire le parti prima della riunione. In tema di riunione di processi, il dovere di sentire le parti prima della decisione è adempiuto se sono previamente informate della possibilità della riunione, in modo da potere interloquire in merito, e non è necessaria la loro audizione effettiva, potendo esse mantenere sulla questione un passivo silenzio (Sez. 6^, 20 aprile 2005, n. 6221, Aglieri). Ed è quanto è accaduto nel caso in esame, avendo la Corte d’appello, alla presenza del difensore dell’imputato contumace, disposto il rinvio dell’udienza per procedere alla riunione dei procedimenti, senza che alcuno abbia avanzato obiezioni.

Manifestamente infondato è il quarto motivo, che censura la sentenza per non aver dichiarato l’improcedibilità del procedimento riunito.

Invero, il ricorrente non considera che si trattava di diversi procedimenti, aventi ad oggetto diverse condotte poste in essere dall’imputato, sebbene originate dalla stessa causa, sicchè non vi era alcuno spazio per fare applicazione del principio del ne bis in idem.

Quanto al motivo con cui si fa valere la manifesta illogicità della motivazione si rileva che la sentenza ha, in maniera logica e coerente, offerto una spiegazione ragionevole circa la responsabilità dell’imputato, basata su un attento esame degli elementi di prova desumibili, legittimamente, dai due procedimenti.

Infine, del tutto infondata è la doglianza relativa al capo sugli interessi civili. Lungi dall’avere operato un peggioramento del trattamento, la sentenza impugnata ha ridotto l’ammontare complessivo del risarcimento dei danni in favore della parte civile, liquidando per il danno morale la somma di Euro 5.000,00 con riferimento ad entrambi i procedimenti riuniti, eliminando, pertanto, la somma di Euro 2.500,00 liquidata in più dalla sentenza di primo grado.

All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute in questo grado dalla parte civile, che si liquidano equitativamente in complessivi Euro 3200,00, oltre I.V.A. e C.P.A..
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè delle spese in favore della parte civile, liquidate complessivamente in Euro 3.200,00, oltre I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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