Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 09-12-2010) 22-03-2011, n. 11458 Sequestro preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

‘accoglimento dei motivi di ricorso.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 11 giugno 2009 il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Udine, all’esito del giudizio abbreviato, ha dichiarato F.F. colpevole del reato di tentato omicidio aggravato in danno del figlio F.M., e, previa applicazione della diminuente per la scelta del rito, l’ha condannato alla pena di anni nove di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici e la confisca di quanto in sequestro.

Con la stessa sentenza l’imputato è stato condannato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile F.M., liquidati in complessivi Euro 35.000,00 da rivalutarsi in ragione dell’indice ISTAT, oltre interessi ai tasso legale.

Per i fatti di maltrattamento in danno dei figli, F.M. e Fa.Ma., pure contestati a F.F., è stato dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione, previa riqualificazione giuridica dei fatti come reati di percosse, lesioni e ingiurie, ai sensi degli artt. 581, 582 e 594 c.p..

2. Con sentenza del 4 febbraio 2010 la Corte d’appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha concesso all’imputato le circostanze attenuanti generiche, che ha dichiarato prevalenti sulle contestate aggravanti, ed ha rideterminato la pena in anni sette di reclusione.

3. Da entrambe le decisioni di merito emergeva che:

– il (OMISSIS) F.M., mentre era nella cucina della casa di abitazione in (OMISSIS), che condivideva con i genitori, F.F. e C.M., da tempo separati di fatto in casa, e con la sorella, Fa.Ma., era stato aggredito alle spalle e colpito al torace, alla schiena e all’avambraccio dal padre F.F. con un coltello a serramanico rinvenuto nel davanzale di una finestra, indicato agli operanti dallo stesso imputato, e risultato avere una lunghezza complessiva di diciassette cm., di cui sette cm. di lama;

– le due ferite da taglio riportate dalla vittima al tronco e la ferita all’avambraccio destro erano state riscontrate in ospedale con prognosi riservata;

– della dinamica dei fatti avevano parlato nella immediatezza dei fatti sia F.M., che aveva subito indicato il padre come autore dell’aggressione, che la sorella Ma. e la madre C.M., oltre allo stesso imputato nel corso degli interrogatori resi in sede di udienza di convalida del fermo e all’esito dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari;

– il contesto in cui l’episodio era maturato era stato descritto dai testi escussi, anche esterni alla famiglia, come caratterizzato da una convivenza familiare, carica di tensioni coniugali, culminanti in insulti volgari, accuse e insinuazioni da parte dell’imputato, che aveva mostrato un carattere autoritario e manesco, nei confronti della moglie, sospettata di relazioni extraconiugali;

– in particolare, nel giorno dell’episodio delittuoso, alla tensione coniugale, manifestatasi ancora con rimproveri e insulti rivolti dall’imputato alla moglie, avevano fatto seguito un atteggiamento violento dell’imputato, espresso gettando a terra ciò che era sul tavolo della cucina, e il ricorso della C. a un inalatore per sopperire a una crisi respiratoria;

– F.M., mentre la madre – con la quale aveva avuto un dialogo teso – era al piano superiore della casa di abitazione, e lui stesso stava riordinando la cucina, era stato raggiunto dal padre che, dopo averlo rimproverato ed essere stato a sua volta insultato, l’aveva aggredito, puntando alla gola, e colpendolo in più parti del corpo, un coltello tenuto nell’incavo tra pollice e indice della mano destra, superando la resistenza oppostagli;

– l’intervento della sorella e della madre della vittima era riuscito ad evitare ulteriori colpi;

– secondo il racconto della C., moglie dell’imputato, il coltello era detenuto dal coniuge in un borsello, che gli operanti avevano, in effetti, trovato aperto nella stanza dell’imputato e che la figlia aveva indicato essere stato utilizzato dal padre anni prima per minacciare il "moroso" all’epoca V.G.;

– i figli dell’imputato avevano descritto episodi e situazioni in cui il padre aveva manifestato la sua indole violenta attraverso insulti, aggressioni fisiche e angherie, diretti a essi stessi e alla madre;

– l’imputato aveva dedotto di avere aggredito il figlio per reazione agli insulti verbali e alle minacce ricevute con una scopa, utilizzando un coltello posto in una cassetta di attrezzi e non nel borsello, senza profferire frasi ingiuriose o minacciose e colpendo il figlio, da lui stesso immobilizzato, all’addome mentre erano tra loro avvinghiati in una colluttazione;

– i fatti denunciati dai figli come integranti l’ipotizzato delitto di maltrattamenti erano stati minimizzati dall’imputato e dalla sorella F.A. sentita come teste.

4. Ad avviso dei Giudici di merito, sulla base delle risultanze acquisite:

– era da escludere la chiesta derubricazione del reato di tentato omicidio in quello di lesioni volontarie, essendo provata la volontà omicida, avuto riguardo alla pluralità di colpi inferti e alla posizione del coltello quando il braccio dell’imputato era stato fermato dalla moglie e dalla figlia, oltre che alla determinazione di fare uso del coltello (collocato, a dire della moglie, nel borsello, effettivamente trovato aperto) e di eludere, tenendolo celato nel pugno, la reazione della vittima;

– era da ritenere anche provata l’idoneità della condotta, avuto riguardo alle valutazioni del perito in ordine ai tre colpi inferti, al mezzo utilizzato e alle parti del corpo interessate, nonchè l’univocità della condotta, in relazione al come e a quante ferite erano state infette, a determinare l’evento delittuoso, senza che fosse rinvenibile alcun profilo di desistenza volontaria, essendo stato reso impossibile il completamento dell’azione aggressiva da fattori esterni alla volontà dell’imputato.

La ricorrenza delle aggravanti del rapporto di discendenza tra aggressore e aggredito e della futilità del motivo era stata motivata dai Giudici di merito avendo riguardo alla circostanza pacifica del rapporto di discendenza e al rilievo dell’assoluta sproporzione dell’azione delittuosa (ripetuto accoltellamento a freddo) rispetto allo stimolo esterno che l’aveva determinata (l’offesa pesante cagionata, peraltro, da un comportamento riprovevole dello stesso F.).

Secondo i Giudici di merito le azioni violente attribuite all’imputato nei confronti dei figli, in difetto di prova di una "costante e stabile umiliazione" degli stessi, dovevano essere inquadrate in una pluralità di ipotesi di percosse, ingiurie e lesioni, la cui risalenza nel tempo, non successiva agli anni 1999- 2002, ne comportava la declaratoria di estinzione per intervenuta prescrizione.

Le circostanze attenuanti generiche, escluse in primo grado, venivano concesse in appello con giudizio di prevalenza, non nella massima portata, sulle contestate aggravanti, avuto riguardo al rilievo della mancanza di problemi di inserimento sociale dell’imputato, gravato da un unico precedente specifico, e soprattutto al contesto culturale arretrato che aveva fatto da sfondo alla condotta delittuosa.

La pena base, che in primo grado era stata determinata in anni tredici e mesi sei di reclusione, era ridotta in appello ad anni dieci e mesi sei, e la pena finale era determinata, per effetto della diminuente del rito prescelto, in quella di anni sette di reclusione.

L’importo liquidato in primo grado a titolo di risarcimento dei danni era ritenuto dal Giudice d’appello congruo nella sua determinazione equitativa.

5. Avverso la predetta decisione F.F. ha proposto due ricorsi per cassazione, tramite i propri difensori di fiducia.

5.1. Con il primo ricorso, presentato per mezzo dell’avv. Salvatore Coluccia, il ricorrente chiede l’annullamento della sentenza sulla base di sei motivi, con i quali deduce:

1) violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 56 e 575 c.p., con riguardo all’asserita idoneità degli atti, essendosi trascurato l’esame della intensità dei colpi e della entità delle lesioni procurate con il coltello, la cui lama di sette cm. è penetrata nel tessuto molle per soli quattro cm., volutamente contenendosi la potenza del colpo;

2) contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, evincibile dal testo del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine all’asserita idoneità degli atti, avendo rilevato il perito, le cui conclusioni sono state ritenute di "valore centrale", che in concreto le azioni non sono state idonee a determinare lesioni mortali e che è stato anche l’intervento chirurgico di laparotomia esplorativa, non necessario, a incidere sulla durata della malattia;

3) contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, evincibile dal testo del provvedimento impugnato e dagli atti del processo, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine all’asserito pericolo di vita corso dalla parte offesa, essendo l’affermazione svolta al riguardo dalla Corte d’appello in palese contraddittorietà con l’accertamento peritale, secondo il quale, durante il decorso clinico, la vita della parte offesa non è stata mai messa in pericolo per alterazioni o complicazioni;

4) manifesta illogicità della motivazione, evincibile dal testo del provvedimento impugnato e dagli atti del processo, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine all’asserita assenza di intenzionalità nell’infliggere una ferita non mortale, essendosi omesso di esaminare la dipendenza della parziale penetrazione della lama da una volontaria limitazione della potenza del colpo;

5) violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 43, 56 e 575 c.p.p., e motivazione apparente o quantomeno contraddittoria e/o manifestamente illogica, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine all’asserita non equivocità degli atti e alla non configurabilità del dolo eventuale, deducendosi che la Corte di merito ha ritenuto l’intenzionalità omicida erroneamente e con motivazione illogica e contraddittoria, trascurando l’assenza di un apprezzabile movente, la successione e le modalità dei colpi inferti, la colluttazione compatibile con la volontà dell’imputato di immobilizzare e non uccidere il figlio, il significato da darsi all’affermazione della parte offesa di avere visto la lama all’altezza della gola diverso da quello che l’imputato avrebbe cercato di attingere il figlio alla gola e l’esortazione dell’imputato ai familiari accorsi di portare via il figlio. La decisione del Giudice di appello sarebbe stata, invece, ispirata a un forte pregiudizio nel tratteggiare la figura dell’imputato e avrebbe illogicamente riportato la volontà omicida alla fase precedente all’accoltellamento;

6) violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 56, 575 e 582 c.p.p., e motivazione apparente o quantomeno contraddittoria e/o manifestamente illogica, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, sul rilievo che per l’inidoneità dell’azione, la non univocità degli atti e la mancanza di volontà omicida il fatto contestato andava inquadrato nel reato di lesioni volontarie;

7) violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 185 c.p., e motivazione apparente o quantomeno contraddittoria e/o manifestamente illogica, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine alla condanna al risarcimento del danno, la cui liquidazione equitativa sarebbe immotivata e illogica e, comunque, esorbitante in rapporto alla durata della malattia e all’assenza di una invalidità permanente residuata.

5.2. Con il secondo ricorso, presentato per mezzo dell’avv. Federico Carnelluti, il ricorrente chiede l’annullamento della sentenza sulla base di tre motivi, con i quali deduce:

1) vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per violazione dell’art. 192 c.p.p. e artt. 56 e 575 c.p., e, in ogni caso, vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione risultante dal testo stesso del provvedimento impugnato, in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato tentato, sul rilievo che la Corte d’appello avrebbe ignorato la testimonianza di F.E. in dipendenza della quale la difesa aveva sostenuto la presenza in capo all’imputato non del dolo diretto o alternativo volto all’uccisione del figlio, ma del dolo eventuale incompatibile con la struttura del reato tentato;

2) vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per violazione degli artt. 192 c.p.p., con riguardo alla conferma della sentenza di primo grado nella parte in cui ha riqualificato in percosse, ingiurie e lesioni i maltrattamenti contestati ai sensi dell’art. 572 c.p., e, in ogni caso, motivazione mancante e illogica, risultante dal testo stesso della decisione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, in ordine alla mancata valutazione, ai fini del decidere, delle dichiarazioni rese da F.A., deducendosi che le dichiarazioni sulle quali si è fondata la valutazione circa la sussistenza dei fatti di reato sono state quelle dei figli dell’imputato, sospette per l’epoca in cui sono state rese, non riscontrate da alcun elemento e contrastate dalle dichiarazioni della predetta teste, giudicate inattendibili senza adeguato vaglio critico del loro contenuto;

3) vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per violazione dell’art. 61 c.p., n. 1, e vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza e illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante dei futili motivi, configurata in concreto prescindendo dai fattori ambientali, dalle connotazioni culturali dell’imputato e dal contesto sociale dell’episodio delittuoso, la cui valutazione doveva essere compiuta per uniformarsi all’orientamento espresso da questa Corte.
Motivi della decisione

1. I motivi di ricorso prospettati dalle difese del ricorrente sono infondati in ogni loro deduzione.

2. E’ infondato il primo motivo del ricorso (presentato per mezzo dell’avv. Salvatore Coluccia), con il quale si denuncia il vizio della violazione di legge con riferimento alla idoneità degli atti, al fine della integrazione della figura del delitto tentato, sul rilievo che la sentenza impugnata, erroneamente applicando il disposto dell’art. 56 c.p., avrebbe fondato l’idoneità dell’azione in via esclusiva sulla idoneità del mezzo e sulle parti del corpo attinte, senza tener conto della potenza dei colpi inferti e della entità delle lesioni procurate.

Si rileva che, per aversi il reato tentato, l’art. 56 c.p., richiede la commissione di atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. E’, quindi, elemento strutturale oggettivo del tentativo, insieme alla direzione non equivoca degli atti, l’idoneità degli stessi dovendosi intendere per tali quelli dotati di un’effettiva e concreta potenzialità lesiva per il bene giuridico tutelato, alla luce di una valutazione prognostica da effettuarsi con giudizio ex ante.

Tale valutazione, da compiersi non dal punto di vista del soggetto agente, ma nella prospettiva del bene protetto dalla norma incriminatrice, deve tener conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, sì da determinarne la reale ed effettiva adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione dell’indicato bene (tra le altre, Sez. 1, n. 27918 del 04/03/2010, dep. 19/07/2010, Resa e altri, Rv. 248305; Sez. 1, n. 19511 del 15/01/2010, dep. 24/05/2010, Basco e altri, Rv. 247197; Sez. 6, n. 27323 del 20/05/2008, dep. 04/07/2008, P., Rv. 240736; Sez. 6, n. 23706 del 17/02/2004, dep. 21/05/2004, P.M. in proc. Fasano, Rv. 229135).

La Corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi avendo riferito l’accertamento da compiersi, secondo i criteri che presiedono alla configurabilità del delitto tentato, a un giudizio ex ante di attitudine degli atti a porre in pericolo la vita della vittima, evidenziando in tale contesto prognostico l’idoneità del coltello con lama di sette cm. a ledere organi vitali e la parte del corpo attinta, sede di organi vitali.

Il giudizio preteso dal ricorrente in ordine all’intensità dei colpi inferti e alle loro conseguenze attiene a una valutazione ex post in contrasto con la lettera e la ratio della previsione normativa.

3. Destituito di fondamento è anche il secondo motivo del ricorso (presentato per mezzo dell’avv. Salvatore Coluccia). Con esso il ricorrente lamenta il percorso motivo seguito dal Giudice d’appello per ritenere l’idoneità degli atti, che, sulla base dello stesso testo del provvedimento, sarebbe contraddicono e manifestamente illogico.

Le deduzioni svolte attengono al rilievo centrale dato in sentenza alle conclusioni della perizia medico-legale e ai riferimenti, contenuti nella perizia o esposti dal perito nel corso del suo esame del 15 dicembre 2008, alle conseguenze dei colpi inferti, agli effetti derivati sulla durata della malattia e al trattamento di laparatomia esplorativa. Questi riferimenti, escludendo che "le azioni concretizzatesi fossero in grado di causare lesioni mortali" per la limitata penetrazione delle ferite, che la malattia causata dalle ferite avesse avuto una durata superiore a quaranta giorni e che fosse necessario l’intervento operatorio, avrebbero reso contraddittoria e illogica l’affermata irrilevanza delle conseguenze ex post dei colpi inferti e dei loro effetti sulla durata della malattia, nella pur affermata condivisione delle conclusioni peritali.

Le deduzioni non hanno pregio.

L’intrinseca razionalità della motivazione adottata in sede di merito si ricollega alla corretta valutazione, operata nella stessa sede, dell’idoneità degli atti, con giudizio ex ante, in relazione alla loro adeguatezza causale in rapporto alla lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice.

Applicando alla fattispecie i principi di diritto affermati da questa Corte, la sentenza impugnata, infatti, con motivazione non censurabile in questa sede per essere conforme ai canoni della logica e della non contraddizione, ha ritenuto la sussistenza dell’idoneità degli atti, avendo riguardo alle conclusioni del perito medico-legale in ordine all’arma utilizzata (coltello con lama di sette cm.), alla parte del corpo attinta dai colpi (parte alta del tronco, sede di organi vitali, posti a distanza anche inferiore alla lunghezza della lama rispetto alla superficie esterna) e alla scarsa resistenza dei tessuti molli superficiali all’ingesso della lama e all’affondamento del colpo, e ha, coerentemente, ritenuto, al fine della valutazione della potenzialità espansiva della condotta, non rilevante il giudizio del perito in ordine alle conseguenze ex post dei colpi inferti e non rilevanti, e del tutto opinabili, oltre che dimostrative dei rischi connessi all’accoltellamento al torace, le deduzioni difensive relative all’incidenza sulla durata della malattia della ritenuta inutile sottoposizione della vittima alla laparatomia esplorativa.

4. E’ infondato anche il terzo motivo del ricorso (presentato per mezzo dell’avv. Salvatore Coluccia), che censura la decisione per essere stato ravvisato un pericolo di vita della vittima, ritenuto, invece, insussistente dal perito.

L’infondatezza della censura deriva ancora una volta dalla diversa prospettiva in cui si pone la difesa nell’analisi della condotta dell’imputato, la cui valutazione, compiuta dalla Corte con corretto giudizio ex ante, ha, invece, consentito di ravvisare, conformemente alle conclusioni peritali, l’attitudine dell’arma utilizzata, in riferimento alle parti attinte, a provocare lesioni e a porre in pericolo la vita della vittima. Gli effetti concreti delle lesioni sono stati coerentemente collegati alla valutazione, non rilevante al fine della configurabilità del tentativo, delle conseguenze della condotta.

5. Il quarto motivo del ricorso (presentato per mezzo dell’avv. Salvatore Coluccia) attiene all’intenzionalità dell’imputato di infliggere una ferita non letale, la cui assenza sarebbe stata ritenuta dalla Corte d’appello omettendo di esaminare l’influenza sulla stessa della dipendenza della parziale penetrazione della lama nell’addome (quattro cm. invece che sette) dalla volontaria limitazione della potenza del colpo da parte dell’imputato stesso, piuttosto che da fattori esterni, e omettendo di valutare la compatibilità del comportamento da questi tenuto con una volontà punitiva piuttosto che con una volontà omicida.

Tale motivo deve essere esaminato unitamente alla doglianza svolta con il sesto motivo del ricorso (presentato anche per mezzo dell’avv. Salvatore Coluccia), riguardante la qualificazione giuridica del fatto per avere la Corte di merito ritenuto la sussistenza degli estremi del tentativo di omicidio, invece di quelli del meno grave delitto di lesione.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che, al fine della qualificazione del fatto quale reato di lesione personale o quale quello di tentato omicidio, si deve aver riguardo al diverso atteggiamento psicologico dell’agente e alla diversa potenzialità dell’azione lesiva. Se nel primo reato la carica offensiva dell’azione si esaurisce nell’evento prodotto, nel secondo vi è un quid pluris che tende ed è idoneo a causare un evento più grave di quello realizzato in danno dello stesso bene giuridico o di uno superiore, riguardante lo stesso soggetto passivo, che non si realizza per ragioni estranee alla volontà dell’agente (Sez. 1, n. 37516 del 22/09/2010, dep. 20/10/2010, Bisotti Rv. 248550; Sez. 1, n. 35174 del 23/06/2009, dep. 11/09/2009, M., Rv. 245204; Sez. 1, n. 1950 del 20/05/1987, dep. 15/02/1988, Incamicia, Rv. 177610).

La Corte d’appello, conformemente a questi principi, ha dato esaustivo conto della qualificazione del fatto quale tentato omicidio, con le considerazioni esposte in relazione all’idoneità dell’arma utilizzata, alla sede corporea attinta, alle modalità e al numero delle ferite inferte, idonee di per sè a esprimere l’animus necandi. Essa ha, infatti, illustrato e coerentemente giustificato la ricostruzione degli elementi fattuali a fondamento della ritenuta intenzionalità dell’imputato di infliggere una ferita letale e ha escluso, in modo logicamente congruo e approfondito, di potersi dare rilievo alle presunzioni formulabili in ordine alla condotta dell’imputato, la cui riproposizione in questa sede è inficiata dall’equivoco di fondo di ritenere che, con il giudizio di cassazione, si possa accedere a un terzo grado di merito e che la verifica di questa Corte sulla correttezza della motivazione si identifichi con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite e un’alternativa lettura degli elementi di fatto, alla luce di diversi parametri valutativi ritenuti dotati di migliore capacità esplicativa.

6. Con il quinto motivo del ricorso (presentato per mezzo dell’avv. Salvatore Coluccia) si deduce che erroneamente è stata ritenuta l’intenzionalità omicida dell’imputato attraverso una motivazione apparente e in ogni caso illogica e contraddittoria.

Tale motivo deve essere esaminato congiuntamente al primo motivo dell’altro ricorso (presentato per mezzo dell’avv. Carnelluti), con il quale si censura, per violazione di legge e vizio di motivazione, la ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato tentato, sul rilievo che la Corte d’appello avrebbe ignorato la testimonianza di F.E. in dipendenza della quale la difesa aveva sostenuto la presenza in capo all’imputato non del dolo diretto o alternativo volto all’uccisione del figlio, ma del dolo eventuale incompatibile con la struttura del reato tentato;

I motivi, ampiamente articolati, sono privi di pregio.

6.1. Con orientamento costante questa Corte ha affermato che la figura di reato prevista dall’art. 56 c.p., che ha come suo presupposto il compimento di atti finalizzati alla commissione di un delitto, non ricomprende quelle condotte rispetto alle quali un evento delittuoso si prospetta come accadimento possibile o probabile non preso in diretta considerazione dall’agente, che accetta il rischio del suo verificarsi (c.d. dolo eventuale), ricomprendendo invece gli atti rispetto ai quali l’evento specificamente richiesto per la realizzazione della fattispecie delittuosa di riferimento si pone come inequivoco epilogo della direzione della condotta, accettato dall’agente che prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (c.d. dolo diretto alternativo), o specificamente voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale o perseguito come scopo finale (c.d. dolo diretto intenzionale) (Sez. 1, n. 12954 del 29/01/2008, dep. 27/03/2008, Li e altri, Rv. 240275; Sez. 6, n. 8745 del 01/06/2000, dep. 02/08/2000, P.G. in proc. Spitella e altro, Rv. 217559; Sez. 1, n. 10431 del 30/10/1997, dep. 17/11/1997, Angelini, Rv. 208932; Sez. 1, n. 3277 del 29/01/1996, dep. 29/03/1996 Giannette e altro Rv.

204188; Sez. U, n. 748 del 12/10/1993, dep. 25/01/1994, Cassata, Rv.

195804).

Il problema del tentativo è, pertanto, soprattutto un problema di prova e di inequivocità del fatto.

Nell’ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo – ove, come nel caso in esame, manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato – ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da peculiarità estrinseche dell’azione criminosa, che, per la loro non equivoca potenzialità semantica, siano le più idonee a esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 1, n. 5029 del 16/12/2008, dep.05/02/2009, De Montis, Rv. 243370; Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, dep. 21/10/2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1, n. 20220 del 04/04/2001, dep. 18/05/2001, Cuomo, Rv. 218890; Sez. 1, n. 3185 del 10/02/2000, dep. 15/03/2000, Stabile, Rv. 215511).

Assumono, in particolare, valore determinante per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi, che rifiuta ogni presunzione che, oltre a contrastare con la personalità della responsabilità penale, non si concilierebbe con l’essenza del dolo, tutti i dati probatori acquisiti al processo che appaiano rilevanti per tale profilo per il loro valore sintomatico secondo l’id quod plerumque accidit (la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi).

La valutazione circa l’esistenza o meno dell’animus necandi costituisce, pertanto, il risultato di un’indagine di fatto, rimessa all’apprezzamento del giudice di merito.

6.3. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi avendo, con motivazione compiuta e logica, correttamente ed esaustivamente argomentato la sussistenza della volontà omicida, individuata nel dolo diretto intenzionale, sulla base dell’analisi della condotta complessivamente tenuta dall’imputato, degli accadimenti e della loro sequenza, ritenendo che tale analisi non consentiva di affermare che l’imputato volesse altro se non uccidere la vittima. Il tipo di arma utilizzata, l’inflizione "a freddo, proditoriamente" di almeno uno dei colpi, la ricostruzione della successione dei colpi indicata in perizia e dalla vittima, e condivisa, le sedi corporee attinte e l’insistenza dei colpi inferti con la lama, ortogonalmente e non tangenzialmente, facevano comprendere che gli atti posti in essere erano tali da risultare inequivocamente diretti all’evento morte, accettato nella sua concreta accadibilità, senza che l’imputato potesse accontentarsi – con atteggiamento psicologico improntato a indifferenza di risultato rispetto alla morte – di un mero ferimento del figlio.

La difesa, nel ripercorrere la descrizione della condotta dell’imputato, antecedente e contestuale rispetto al reato, il contesto dell’episodio e l’antefatto prossimo, ha dedotto che la volontà omicida dovesse ritenersi esclusa per l’assenza di un apprezzabile movente, per la successione e modalità dei colpi infetti, per la colluttazione seguita al primo colpo proditoriamente inferto e per l’esortazione dei familiari a intervenire per portare via il figlio.

Tali deduzioni prospettate come conseguenti a incongruenze logiche e lacune motive della decisione impugnata sono alternative letture dei dati di fatto esaminati dai giudici di merito, o espressione di "presunzioni prive di riscontri oggettivi e facilmente ribaltabili", come valutate dal Giudice di appello e analiticamente e congruamente esaminate, e si risolvono in critiche in linea di fatto e di puro merito, peraltro autoreferenziali nella parte in cui si riferiscono a dichiarazioni rese dallo stesso ricorrente, inammissibili in sede di legittimità.

Nè, come si assume, la Corte, nel ricostruire le fasi dell’aggressione, ha ignorato la testimonianza di F. M., dando solo rilievo al racconto della vittima, e a quanto dalla stessa riferito al perito medico-legale, risultando, viceversa, una particolareggiata analisi dei dati probatori rilevanti, che ha consentito di accertare che l’azione delittuosa è stata interrotta per l’intervento dell’indicata teste e della di lei madre, che hanno trattenuto il braccio armato di coltello dell’imputato. Nè, a fronte delle modalità della condotta, dello strumento utilizzato e dell’intervento di altri a impedire la prosecuzione dell’azione, ha alcun rilievo l’indagine, che inammissibilmente si propone, in merito alla mancata inflizione da parte dell’imputato di un colpo mortale alla vittima, peraltro logicamente aperta, in ogni caso, a diverse motivazioni.

6.4. La sentenza impugnata, attesa l’esatta interpretazione delle norme applicate alla luce dei principi di diritti fissati da questa Corte, condivisi dal Collegio, si sottrae, pertanto, alle censure di violazione di legge sviluppate con gli indicati motivi.

Essa si sottrae anche alle censure di vizio di motivazione, avendo dato conto adeguatamente e senza illogicità, come rilevato, delle ragioni della decisione, sicuramente contenendo l’iter motivo entro "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente e pienamente condivisa (Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, dep. 06/02/2004, Elia e altri, Rv. 229369;

Sez. 1, n. 624 del 05/05/1967, dep. 23/10/1967, Maruzzella, Rv.

105775; Sez. 2, n. 230 del 15/07/1980, dep. 17/01/1981, Miranda, Rv.

147306; Sez. 2, n. 3777 del 10/11/1981, dep. 08/04/1982, Laraspata, Rv. 153164).

7. Infondato è il secondo motivo del ricorso (presentato per mezzo dell’avv. Carnelluti), con il quale si assume la violazione delle regole di valutazione della prova di cui all’art. 192 c.p.p. e la mancanza e illogicità della motivazione per non essere state valutate, ai fini del decidere, le dichiarazioni rese dalla teste F.A..

Il motivo attiene ai maltrattamenti contestati all’imputato ai sensi dell’art. 572 c.p., riqualificati in percosse, ingiurie e lesioni con la sentenza di primo grado, che li ha dichiarati estinti per prescrizione.

Le deduzioni svolte suggeriscono una rilettura in diversa prospettiva logica delle testimonianze poste dai Giudici di merito, con coerente impianto argomentativo, a fondamento della ritenuta insussistenza degli estremi per un’assoluzione nel merito. Esse non possono, pertanto, trovare ingresso in questa sede.

8. E’ infondato il terzo motivo del ricorso (presentato per mezzo dell’avv. Carnelluti), con il quale il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 61 c.p., n. 1 e l’illogicità manifesta della motivazione in relazione all’applicazione della circostanza aggravante del motivo futile.

A proposito della natura e dei caratteri distintivi dell’aggravante in esame, la giurisprudenza consolidata di questa Corte ha chiarito che per motivo deve intendersi l’antecedente psichico della condotta, ossia l’impulso che ha indotto il soggetto a delinquere, e che il motivo deve qualificarsi futile quando la determinazione delittuosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire, per la generalità delle persone, assolutamente insufficiente a provocare l’azione delittuosa, tanto da poter considerarsi, più che una causa determinante dell’evento, un pretesto o una scusa per l’agente di dare sfogo al suo impulso criminale. La circostanza aggravante ha, quindi, natura prettamente soggettiva, dovendosi individuare la sua ragione giustificativa nel fatto che la futilità del motivo a delinquere è indice univoco di un istinto criminale più spiccato e della più grave pericolosità del soggetto che legittima l’applicazione di un più severo trattamento punitivo (Sez. 1, n. 39261 del 13/10/2010, dep. 05/11/2010, Mele, Rv. 248832; Sez. 1, n. 29377 del 08/05/2009, dep. 16/07/2009, Albanese e altri, Rv. 244645;

Sez. 1, n. 24683 del 22/05/2008, dep. 18/06/2008, Iaria, Rv. 240905;

Sez. 1, n. 17309 del 19/03/2008, dep. 24/04/2008, Calisti e altri, Rv. 240001; Sez. 1, n. 35369 del 04/07/2007, dep. 21/09/2007, Zheng, Rv. 237686).

La sentenza impugnata (che forma un solo complessivo iter argomentativo con quella di primo grado, con la quale concorda nell’analisi e nella valutazione degli elementi probatori: Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, dep. 04/06/1992, P.M., p.c, Musumeci e altri, Rv. 191229) appare conforme a tali principi, avendo, con motivazione logica e puntuale, riferita al caso concreto, evidenziato l’evidente sproporzione, non accettabile sul piano logico, tra l’offesa pesante della vittima, cagionata a sua volta da un comportamento riprovevole dello stesso autore del fatto, e il ripetuto accoltellamento, non preceduto da alcun preavvertimento, posto in essere dall’imputato, e ritenendo che "il rapporto offesa verbale – aggressione al bene della vita" costituisce il paradigma del motivo futile. Nè su tale valutazione possono ritenersi incidenti i riferimenti in ricorso al contesto sociale, ai fattori ambientali e alle connotazioni culturali dell’imputato, che non valgono ad attenuare il disvalore morale della condotta dallo stesso tenuta e la rilevata sua sproporzione rispetto all’indicata motivazione.

9. Infondato è anche l’ottavo motivo del ricorso (presentato per mezzo dell’avv. Salvatore Coluccia), con il quale si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla condanna dell’imputato al risarcimento del danno, deducendosi che la liquidazione equitativa sarebbe immotivata e illogica e comunque esorbitante in rapporto alla durata della malattia e all’assenza di un’invalidità permanente residuata.

La liquidazione del danno, limitato dalla Corte d’appello a quello non patrimoniale, che per sua natura sfugge a una piena valutazione analitica ed è affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito (Sez. 3, n. 3912 del 11/02/1991, dep. 09/04/1991, Martinelli, Rv. 186780), è stata condotta in sede di merito, avendo riguardo alle sofferenze fisiche e sul piano morale patite dall’offeso, con valutazione in fatto e del tutto logica, sottratta a censure in questa sede.

10. Per tutte queste ragioni s’impone il rigetto dei motivi di ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *