Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 09-12-2010) 22-03-2011, n. 11457 Detenzione abusiva e omessa denuncia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 14 gennaio 2010 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del 20 febbraio 2009, con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Avellino, all’esito del giudizio abbreviato, aveva affermato la responsabilità di L. M. in ordine ai delitti aggravati di tentato omicidio in danno di M.N. e di illegale detenzione e porto in luogo pubblico di arma da fuoco con proiettili calibro 6,35, e alle contravvenzioni di detenzione abusiva di quattordici cartucce cal. 6,35 e sette cal.

7,65 e di porto abusivo in luogo pubblico di coltello a serramanico a scatto della lunghezza di circa cm. diciassette, commessi in (OMISSIS), e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva specifica, reiterata e infraquinquennale, ritenuta la continuazione tra i reati e applicata la diminuente per il rito, l’aveva condannato alla pena di anni sei di reclusione, con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e la confisca delle armi e munizioni in sequestro.

2. Da entrambe le sentenze emergeva che:

– il (OMISSIS) alle ore 4,30 circa M.N., mentre si trovava dinanzi al bar "(OMISSIS)", da lui gestito in (OMISSIS), era stato attinto da vari colpi d’arma da fuoco alla gamba sinistra e al gluteo destro, esplosi da un giovane che lo stesso M. aveva riconosciuto essere L.M., già da lui conosciuto quale avventore del bar e coniuge di una parente, e già da lui visto la sera precedente mentre, alla guida di un’autovettura con il cugino L.F. e altra persona a bordo, era transitato ad andatura lenta dinanzi allo stesso bar;

– M.N. aveva riportato in particolare una ferita penetrante nel bacino, una di striscio sulla parte posteriore della coscia sinistra e altra ferita trapassante la gamba sinistra. La ferita più grave alla regione glutea aveva reso necessaria la sottoposizione a delicato intervento chirurgico non definitivo;

– la figlia della persona offesa, Ma.Na., che aveva assistito agli spari in aria e contro il padre provenire da una persona armata di pistola, sopraggiunta con due giovani, aveva confermato l’identità di L.M. come uno degli attentatori e aveva individuato il presumibile movente in una discussione che il padre aveva avuto il mese prima con lo stesso L.M. e L.F.;

– al rinvenimento sul posto di due bossoli calibro 6,35 e di un’ogiva aveva fatto seguito il rinvenimento, in sede di perquisizione, di cartucce di diverso calibro e degli indumenti indossati nell’occasione da L.M., ancora bagnati dopo il lavaggio, presso l’abitazione di questi e di un coltello a serramanico nel veicolo in uso allo stesso;

– le dichiarazioni rese da L.M. all’udienza di convalida del fermo erano state contraddette da L.F., che aveva negato di essere stato in sua compagnia;

– dalle analisi di laboratorio condotte dal R.I.S. di Roma sulla mano e sull’avambraccio destro del L. era risultata la presenza di cinque particelle residue che, in quanto composte anche da piombo- bario-antinomio, trovavano univoca fonte nella detonazione di colpi d’arma da fuoco;

– anche lo stub cotton fioc aveva evidenziato la presenza di due particelle, una delle quali univoca dello sparo.

I Giudici di merito ritenevano integrate le condotte contestate, e in particolare ritenevano correttamente contestato a L.M. il tentato omicidio aggravato, avuto riguardo alla idoneità e univocità degli atti e all’intento omicidario, reso evidente dal fatto che lo stesso era armato, aveva esploso più colpi a distanza ravvicinata e aveva proseguito l’azione violenta nonostante che i primi colpi non avessero raggiunto la persona offesa.

Tutte le prospettazioni formulate dalla difesa in ordine all’identificazione dell’imputato, alla messa in pericolo della vita della persona offesa, all’assenza dell’animus necandi e alla omessa derubricazione del reato di tentato omicidio in quello di lesioni aggravate venivano ritenute non fondate. Tali prospettazioni erano rigettate anche dal Giudice di appello, che riqualificava l’elemento soggettivo del reato in termini di dolo alternativo e disattendeva, ritenuto il giudizio maturo per la decisione, anche le censure relative alla mancata audizione del figlio della persona offesa, alla mancata estensione degli accertamenti tecnici ad altri oggetti appartenenti all’imputato, al mancato accoglimento di richieste probatorie (esame del medico, esame del consulente tecnico del Pubblico Ministero, acquisizione degli esiti dello stub, perizia balistica, esame di M.M.), nonchè quelle relative alle contestate contravvenzioni in materia di armi e alla dosimetria della pena.

3. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, L.M., che ne chiede l’annullamento articolando cinque motivi.

3.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 43, 56, 575 e 582 c.p., e art. 583 c.p., comma 1, e vizio della motivazione, che si assume essere mancante, illogica e contraddittoria, in ordine alla ricostruzione dei fatti, agli elementi probatori processuali e alla produzione documentale acquisita all’udienza camerale del 14 gennaio 2010.

Secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare le "precise, dettagliate e circostanziate" censure mosse con l’atto di appello, che ha trascritto, e la prova documentale acquisita costituita dalle sommarie informazioni testimoniali di M. M., che ha trascritto, scoperte dopo il deposito della sentenza pure acquisita, e richiamata in ricorso, resa dal Tribunale di Avellino il 24 giugno 2009 nei confronti dei coimputati separatamente giudicati, L.F.C., condannato per lesioni gravi, e L.A., assolto.

Il ragionamento della Corte sarebbe illogico e contraddittorio, in rapporto alle risultanze di fatto censurate con l’atto di appello e acquisite nel giudizio, in ordine alla mancata riqualificazione del fatto contestato nel reato di lesioni aggravate, avendo riguardo alle modalità esecutive della condotta, tali da escludere l’idoneità a produrre l’evento morte e l’animus necandi; in ordine alla riqualificazione dell’elemento soggettivo del reato come dolo alternativo, pur confermandosi la ricostruzione del fatto operata dal Giudice di primo grado, e in ordine alla direzione dei primi colpi sparati in aria e poi verso organi non vitali della vittima, mai messa in pericolo di vita.

3.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 441 c.p.p., comma 5, e art. 603 c.p.p. e vizio di motivazione, atteso che la Corte non avrebbe esercitato i poteri di iniziativa probatoria, sollecitati dalla difesa già in primo grado e con l’appello, assumendo l’esame del consulente tecnico prof. P., di M.M. e del medico di turno dell’Ospedale (OMISSIS), e disponendo perizia balistica, e non avrebbe dato conto delle ragioni per le quali non ha ritenuto necessarie tali attività. 3.3. Con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 697 e 699 c.p. e vizio di motivazione, sul rilievo che il Giudice d’appello come il Giudice di primo grado hanno ritenuto che fosse provata la responsabilità dell’imputato alla luce delle risultanze dei verbali di perquisizione e sequestro, non eseguiti presso l’abitazione dell’imputato, ma presso quella di suo padre.

3.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 81 e 133 c.p. e vizio di motivazione, non essendo indicati i alteri seguiti nella determinazione della pena e dell’aumento per la continuazione.

3.5. Con il quinto motivo è dedotta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 62 bis c.p., art. 69 c.p. e art. 99 c.p., comma 5, rilevandosi che i Giudici di merito non avrebbero verificato, ai fini della contestazione della recidiva di cui all’art. 99 c.p., comma 5, in relazione all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), se anche il delitto per il quale vi era stata precedente condanna rientrasse nella categoria dei reati indicati nel l’indicato art. 407 c.p.p..

4. In data 2 novembre 2010 L.M., per mezzo del suo difensore, ha depositato motivi aggiunti.

4.1. Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione del giudicato penale ai sensi degli artt. 648 e 649 c.p.p., avendo il Giudice di appello rivalutato l’elemento soggettivo del reato già coperto dal giudicato parziale, non avendo alcuna delle parti impugnato la sentenza nel punto in cui l’elemento soggettivo è stato qualificato in termini di dolo eventuale.

4.2. Con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza per mancanza di motivazione circa il nuovo elemento soggettivo del reato, non essendosi indicati gli elementi in base ai quali si è ritenuto sussistente il "solo dichiarato" dolo alternativo.

4.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 575, 56 e 43 c.p. e vizio della motivazione, rilevando la mancata individuazione e motivazione degli elementi in base ai quali il fatto sia stato qualificato come tentato omicidio, atteso che lo sparatore non solo ha sparato prima in alto e poi contro parti non vitali della parte offesa ma ha anche interrotto volontariamente la sua azione.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato in ogni sua deduzione, avendo la sentenza impugnata, che si salda coerentemente con quella di primo grado, esattamente interpretato le norme applicate, alla luce dei principi di diritto fissati da questa Corte, e illustrato in modo logico e coerente, con riguardo alla posizione del ricorrente, gli elementi su cui è fondata l’affermazione di penale responsabilità dello stesso in ordine ai reati ascritti.

2. Quanto al primo motivo, non meritano accoglimento i rilievi, formulati dal ricorrente, che li ha richiamati con il secondo e il terzo motivo aggiunto, circa la qualificazione giuridica del fatto per avere la Corte di merito ritenuto la sussistenza degli estremi del tentativo di omicidio, invece di quelli del meno grave delitto di lesioni aggravate.

2.1. Questa Corte ha ripetutamente affermato che, al fine della qualificazione del fatto quale reato di lesione personale o quale reato di tentato omicidio, si deve aver riguardo al diverso atteggiamento psicologico dell’agente e alla diversa potenzialità dell’azione lesiva. Se nel primo reato la carica offensiva dell’azione si esaurisce nell’evento prodotto, nel secondo vi è un quid pluris che tende ed è idoneo a causare un evento più grave di quello realizzato in danno dello stesso bene giuridico o di uno superiore, riguardante lo stesso soggetto passivo, che non si realizza per ragioni estranee alla volontà dell’agente (tra le altre, Sez. 1, n. 37516 del 22/09/2010, dep. 20/10/2010, Bisotti Rv.

248550; Sez. 1, n. 35174 del 23/06/2009, dep. 11/09/2009, M., Rv.

245204; Sez. 1, n. 1950 del 20/05/1987, dep. 15/02/1988, Incamicia, Rv. 177610).

2.2. La Corte d’appello, conformemente a questi principi, ha dato esaustivo conto della qualificazione del fatto quale tentato omicidio, con le considerazioni esposte in relazione al tipo di arma usata (pistola), alla reiterazione dei colpi, alla distanza ravvicinata, all’inseguimento della vittima dopo il primo colpo e alle parti vitali del corpo attinte, e, con ragionamento probatorio logico e corretto, ha ritenuto tali elementi idonei a esprimere la sussistenza dell’animus necandi.

Essa è pervenuta a tali rilievi dopo aver richiamato le censure svolte con i motivi d’appello e condiviso le valutazioni fatte dal primo Giudice. Questi aveva già posto in debito risalto gli elementi fattuali e i dati probatori acquisiti e aveva ritenuto l’infondatezza – alla stregua delle risultanze della consulenza medicolegale, dell’analisi delle modalità della condotta e del tipo di arma utilizzata, e delle possibili alternative motivazioni della non persistenza nell’attività lesiva – degli assunti difensivi volti a escludere l’intento omicidario per non essere stata posta in pericolo la vita della persona offesa, per non essere stata la stessa sparata in zona corporea vitale e per non avere l’imputato continuato l’azione.

La riproposizione da parte della difesa in questa sede di analoghe censure è inficiata dall’equivoco di fondo di ritenere che, con il giudizio di cassazione, si possa accedere a un terzo grado di merito e che la verifica di questa Corte sulla correttezza della motivazione si identifichi con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite e un’alternativa lettura degli elementi di fatto alla luce di diversi parametri valutativi, ritenuti dotati di migliore capacità esplicativa. La completa lettura degli elementi di fatto e la logica valutazione delle risultanze processuali, condotte in sede di merito, evidenziano invece l’insussistenza dei prospettati vizi.

Nè sulla logicità della ricostruzione della vicenda incide il fatto che alcuni colpi di pistola siano stati sparati in aria dall’imputato prima di attingere la vittima, come dedotto dalla difesa, che ha richiamato le dichiarazioni rese da M.M. e M. N., e censurato la logicità del ragionamento probatorio per aver pretermesso tale prova rappresentativa della direzione dei primi colpi. Si tratta di fatto non rilevante, in quanto al fine della configurazione della condotta di tentato omicidio rilevano dati fattuali indicati dai Giudici di merito: i colpi che hanno attinto la vittima, inseguita dopo il primo colpo, in parti, vitali e reiteratamente a distanza ravvicinata.

3. Destituita di fondamento è anche la censura, sviluppata con il medesimo motivo, che attiene alla qualificazione dell’elemento soggettivo in termini di dolo alternativo, che, secondo il ricorrente, sarebbe stata effettuata dalla Corte di merito con motivazione incompleta, illogica e contraddittoria sulla base della stessa ricostruzione del fatto operata dal primo Giudice, che aveva, invece, qualificato l’elemento soggettivo in termini di dolo eventuale.

Con il primo motivo aggiunto e nella discussione orale la difesa ha dedotto violazione di legge per l’intervenuto giudicato parziale sull’elemento soggettivo del reato come configurato con la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare, non impugnata sul "punto" nè dal Pubblico Ministero, nè dalla difesa, e non modificabile in peius dal Giudice d’appello, e ha eccepito sotto tale aspetto la nullità della sentenza.

3.1. Esaminando tale ultima questione, si rileva preliminarmente la sua inammissibilità, sussistendo la preclusione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 3, dato che si tratta di censura non dedotta in precedenza, quale motivo di specifica doglianza, con i motivi d’appello (Sez. U, n. 4683 del 25/02/1998, dep. 20/04/1998, Bono e altri, re. 210259).

3.2. La questione è, in ogni caso, del tutto infondata.

Questa Corte, con orientamento costante, ha precisato che la cosa giudicata si forma sui capi della sentenza (nel senso che la decisione acquista il carattere dell’irrevocabilità soltanto quando sono divenute irretrattabili tutte le questioni necessarie per il proscioglimento o per la condanna dell’imputato rispetto a uno dei reati attribuitigli), e non sui punti di essa, che possono essere unicamente oggetto della preclusione correlata all’effetto devolutivo del gravame e al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, dep. 28/06/2000, Tuzzolino A., Rv. 216239).

Il concetto di "punto della decisione" ha, rispetto al concetto di "capo della sentenza", infatti, una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un "capo", concretato da ogni singolo reato oggetto di imputazione, e coincidenti con le parti della sentenza relative alle statuizioni indispensabili per il giudizio su ciascun reato (accertamento della responsabilità e determinazione della pena). A ogni capo, pertanto, corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali si pone come passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti, che costituiscono i presupposti della pronuncia finale su ogni reato, quali l’accertamento del fatto, la sua attribuzione all’imputato, la qualificazione giuridica, l’inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, e – nel caso di condanna- l’accertamento delle circostanze aggravanti e attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio (Sez. U, n. 1 del 2000, Rv. 216239, citata).

Alla stregua di tali rilievi, il fondamento della preclusione operante rispetto al punto della sentenza non può essere spiegato con l’utilizzazione del concetto di giudicato, riferendosi questo, per sua natura, esclusivamente all’intera regiudicanda, coincidente con lo specifico capo di imputazione e non con le componenti di essa, alle quali corrispondono le singole statuizioni, che, pur essendo caratterizzate dalla possibilità di autonoma valutazione, hanno la peculiare funzione di convergere e di essere finalizzate alla pronuncia finale su quella imputazione.

Nè il concetto di giudicato è invocabile ai sensi dell’art. 624 c.p.p., comma 1, che riconosce l’autorità del giudicato sia ai capi sia ai punti della sentenza, ma con riguardo limitato alla specifica situazione dell’annullamento parziale disposto da questa Corte, alla intrinseca irrevocabilità connaturata alle sue statuizioni e ai limiti obiettivi del giudizio di rinvio (Sez. U, n. 1 del 2000, Rv.

216239, citata).

3.3. Alla luce di tali condivisibili principi, deve ritenersi infondato l’indebito richiamo, fatto dal ricorrente, alla preclusione del giudicato e alle regole sul giudicato conseguente all’annullamento parziale ex art. 624 c.p.p., comma 1, (che, peraltro, nel rendere definitivo il giudizio sull’elemento soggettivo, come assunto, osterebbero alla ulteriore discussione sulla qualificazione del reato), e insussistente la preclusione derivante dall’effetto devolutivo dell’impugnazione, promiscuamente pure invocata dal ricorrente.

E’, infatti, indubbio che la regola fissata dall’art. 597 c.p.p. riguarda i profili decisori della sentenza e non quelli motivazionali che, attenendo agli elementi logico-argomentativi fondati sulla valutazione o interpretazione delle circostanze di fatto acquisite al processo, possono essere diversi da quelli utilizzati nel precedente grado del giudizio ai fini del sostegno razionale della decisione (Sez. 3, n. 9841 del 10/12/2008, dep. 04/03/2009, Pizzi, Rv. 242995;

Sez. 4, n. 1147 del 15/12/1999, dep. 01/02/2000, Cordone, Rv.

215678).

La Corte d’appello, funzionalmente preposta quale giudice d’appello a rivedere e riconsiderare la decisione di primo grado nei limiti dei punti e dei capi attinti dall’impugnazione di parte, che ha riguardato nella specie anche la qualificazione del reato nelle sue componenti oggettive e soggettive, ha correttamente ridefinito la forma del dolo alla luce di dati di fatto risultanti dagli atti, senza violare il principio dell’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione e il divieto della reformatio in peius, non avendo inciso la precisazione della forma del dolo sul fatto e sulla entità della pena.

3.4. Con riferimento all’elemento psicologico del dolo riguardo al reato di tentato omicidio, la cui sussistenza è stata contestata, con il primo motivo d’appello, con argomentazioni riprese con il secondo e terzo motivo aggiunto, si osserva che, con orientamento costante, questa Corte ha affermato che la figura di reato prevista dall’art. 56 c.p., che ha come suo presupposto il compimento di atti finalizzati alla commissione di un delitto, non ricomprende quelle condotte rispetto alle quali un evento delittuoso si prospetta come accadimento possibile o probabile non preso in diretta considerazione dall’agente, che accetta il rischio del suo verificarsi (c.d. dolo eventuale), ricomprendendo invece gli atti rispetto ai quali l’evento specificamente richiesto per la realizzazione della fattispecie delittuosa di riferimento si pone come inequivoco epilogo della direzione della condotta, accettato dall’agente che prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (c.d. dolo diretto alternativo), o specificamente voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale o perseguito come scopo finale (c.d. dolo diretto intenzionale) (Sez. 1, n. 12954 del 29/01/2008, dep. 27/03/2008, Li e altri, Rv. 240275; Sez. 6, n. 8745 del 01/06/2000, dep. 02/08/2000, P.G. in proc. Spitella e altro, Rv.

217559; Sez. 1, n. 10431 del 30/10/1997, dep. 17/11/1997, Angelini, Rv. 208932; Sez. 1, n. 3277 del 29/01/1996, dep. 29/03/1996 Giannette e altro Rv. 204188; Sez. U, n. 748 del 12/10/1993, dep. 25/01/1994, Cassata, Rv. 195804).

Il problema dei tentativo è, pertanto, soprattutto un problema di prova e di inequivocità del fatto.

Nell’ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo – ove, come nel caso in esame, manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato – ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da peculiarità estrinseche dell’azione criminosa, che, per la loro non equivoca potenzialità semantica, siano le più idonee a esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 1, n. 5029 del 16/12/2008, dep. 05/02/2009, De Montis, Rv. 243370; Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, dep. 21/10/2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1, n. 20220 del 04/04/2001, dep. 18/05/2001, Cuomo, Rv. 218890; Sez. 1, n. 3185 del 10/02/2000, dep. 15/03/2000, Stabile, Rv. 215511).

Assumono, in particolare, valore determinante per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi, che rifiuta ogni presunzione che, oltre a contrastare con la personalità della responsabilità penale, non si concilierebbe con l’essenza del dolo, tutti i dati probatori acquisiti al processo che appaiano rilevanti per tale profilo per il loro valore sintomatico secondo l’id quod plerumque accidit (la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi).

La valutazione circa l’esistenza o meno dell’animus necandi costituisce, pertanto, il risultato di un’indagine di fatto, rimessa all’apprezzamento del giudice di merito.

3.5. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, avendo logicamente ritenuto che gli accadimenti e la loro sequenza consentivano di affermare che l’imputato, avendo continuato a esplodere colpi d’arma da fuoco contro la parte offesa, inseguendola, aveva accettato l’evento morte come epilogo della direzione della condotta, prevedendolo e volendolo "con scelta sostanzialmente equipollente", in alternativa al grave ferimento della vittima.

L’accettazione dell’evento morte nella sua concreta accadibilità, alla stregua degli stessi dati di fatto indicati dal primo giudice (modalità della condotta, tipo di arma utilizzata e pervicacia dell’agire), logicamente è stato ritenuto integrare la figura del dolo alternativo.

4. La completezza e logicità del ragionamento probatorio seguito dai Giudici di merito giustificano la decisione contraria alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, che costituisce nel giudizio di appello un istituto eccezionale subordinato alla condizione che il giudice ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti contro la presunzione di completezza dell’indagine istruttoria con le acquisizioni processuali (tra le altre, Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, dep. 25/06/2010, D. S. B., Rv. 247872; Sez. 5, n. 15320 del 10/12/2009, dep. 21/04/2010, Pacini, Rv. 246859; Sez. 6, n. 40496 del 21/05/2009, dep. 19/10/2009, Messina e altro, Rv. 245009; Sez. 1, n. 19022 del 10/10/2002, dep. 22/04/2003, Di Gioia, Rv. 223985).

Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha ritenuto in modo inequivoco con giudizio coerente e logico, incensurabile in questa sede, che le prove acquisite erano tali da rendere il giudizio maturo per la decisione, e tale giudizio di completezza e concludenza degli elementi probatori disponibili è confortato da quanto già congruamente e compitamente rappresentato in sede di merito e prima evidenziato.

Consegue l’infondatezza del secondo motivo.

5. E’ destituito di fondamento anche il terzo motivo con il quale si contesta l’affermata responsabilità per le contravvenzioni in materia di armi, sul rilievo del loro rinvenimento presso l’abitazione del padre dell’imputato.

La censura, che formalmente attiene anche a profili di diritto, è fondata su valutazioni di merito diverse da quelle del Giudice di merito, che ha richiamato le emergenze processuali relative al rinvenimento delle cartucce presso l’abitazione dell’imputato e del coltello nella sua autovettura.

Essa, pertanto, non può formare oggetto di esame in questa sede.

6. Ugualmente infondato è il quarto motivo relativo alla determinazione della pena, atteso che la Corte d’appello ha reso sintetica ma adeguata motivazione richiamando l’entità dei fatti- reato, così da ritenere che abbia tenuto presente, sia pure globalmente, i criteri dettati dall’art. 133 c.p. per il corretto esercizio del potere discrezionale conferitogli dalla detta norma in ordine all’adeguatezza e congruità della pena comminata dal primo giudice (tra le altre, Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, dep. 18/09/2009, Denaro, Rv. 245596).

Anche la censura riguardante la determinazione dell’aumento di pena, a seguito della ritenuta continuazione, è infondata.

Deve, infatti, osservarsi che l’applicazione della disciplina della continuazione ha, sotto il profilo sostanziale, l’unico limite stabilito dall’art. 81 c.p., e cioè quello che la pena prevista per il reato più grave può essere aumentata sino al triplo. La determinazione della misura dell’aumento della pena per la continuazione, con tale limite, rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito, anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 c.p. (tra le altre, Sez. 4, n. 41702 del 20/09/2004, dep. 26/10/2004, Nuciforo, Rv. 230278).

7. Destituita di fondamento è, infine, la censura sviluppata con il quinto motivo attinente alla dedotta omessa verifica da parte dei giudici di merito, ai fini della contestazione della recidiva di cui all’art. 99 c.p., comma 5, se anche il delitto per il quale vi era stata precedente condanna rientrasse nella categoria dei reati indicati nell’indicato art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a).

L’art. 99 c.p., comma 5, che prevede che "se si tratta di uno dei delitti indicati all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto", si applica a tutte le ipotesi di recidiva disciplinate nello stesso articolo e prevede l’obbligatorietà dell’aumento della pena in relazione a reati individuati in relazione alla loro gravità e all’allarme sociale che suscitano. Tale previsione, trovando lo status di recidivo (semplice, aggravato, pluriaggravato o reiterato) fondamento nel nuovo delitto, limita allo stesso l’inserimento nel catalogo dei gravi reati indicati nella predetta norma.

Nè l’identità di indole richiesta per la contestazione della recidiva specifica suppone, avuto riguardo alla previsione dell’art. 100 c.p., che i delitti della precedente condanna debbano rientrare, contrariamente alla lettera e alla ratio normativa di maggior rigore nei confronti del recidivo che commetta uno dei reati di cui all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), nell’elenco di detti reati.

La sentenza di questa Corte (Sez. 4, n. 29228 del 02/07/2007, dep. 20/07/2007, P.G. in proc. Farris, Rv. 236910), indicata in ricorso come precedente di supporto alla tesi difensiva, ha solo prospettato in motivazione dubbi interpretativi sulla lettura dell’art. 99 c.p.p., comma 5, che non hanno portato in quell’occasione a decisioni sul punto, estranee al thema decidendum.

8. Il ricorso deve essere, pertanto rigettato.

Al rigetto del ricorso segue per legge, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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