Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 02-12-2010) 22-03-2011, n. 11329

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Avverso l’ordinanza indicata in epigrafe, con la quale il Tribunale del Riesame di Napoli ha confermato l’ordinanza del GIP cittadino di rigetto dell’istanza di concessione della misura degli arresti domiciliari a S.O., collaboratore di giustizia, propongono ricorso, a firma congiunta, lo S. ed il suo difensore, deducendo la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1 lett. b) c) ed e) in relazione ai presupposti di legge per il mantenimento della custodia cautelare al collaboratore di giustizia, quale è lo S..

1.1 In particolare i ricorrenti deducono che il Tribunale, pur dando atto del parere favorevole della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli e del riconoscimento dell’attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8 in altro giudizio, ha poi reso un giudizio contrastante con tali premesse nel punto in cui afferma che il passato criminale dello S. deve avere un rilievo determinante nella valutazione dei presupposti per la concessione della sostituzione della misura, senza invece indicare, ai sensi della L. n. 82 del 1991, art. 16 octies, i concreti elementi da cui desumere la permanenza di collegamenti mafiosi in capo al ricorrente.

1.2 Tale decisione sarebbe, perciò, in contrasto con le sentenze della Suprema Corte che indicano la avvenuta dissociazione come elemento di valutazione per la concessione del beneficio richiesto.

Tanto più che tale beneficio,proprio in considerazione del reale percorso di collaborazione intrapreso, è stato riconosciuto anche da altra sezione dello stesso Tribunale e che non sussistono esigenze processuali specifiche per negare l’attenuazione della misura, posto che il collaboratore ha già deposto nei processi in corso.
Motivi della decisione

2. Il ricorso è manifestamente infondato.

2.1 Questa Corte di legittimità, in tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato del delitto d’associazione di tipo mafioso, ha già puntualizzato che l’art. 275 c.p.p., comma 3, pone una presunzione di pericolosità sociale che può essere superata solo quando sia dimostrato che l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa, con la conseguenza che al giudice di merito incombe l’esclusivo onere di dare atto dell’inesistenza d’elementi idonei a vincere tale presunzione. Ne deriva che la prova contraria, costituita dall’acquisizione di elementi dai quali risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari, si risolve nella ricerca di quei fatti che rendono impossibile (e perciò stesso in assoluto e in astratto oggettivamente dimostrabile) che il soggetto possa continuare a fornire il suo contributo all’organizzazione per conto della quale ha operato, con la conseguenza che, ove non sia dimostrato che detti eventi risolutivi si sono verificati, persiste la presunzione di pericolosità. Rv. 242041. 2.2 Nei confronti degli indagati o imputati che rivestono la qualità di cosiddetti collaboratori di giustizia e sono ammessi allo speciale programma di protezione, come nel caso di S.O., il giudizio cautelare sulla pericolosità, ai fini della sostituzione o della revoca della misura della custodia cautelare, va condotto verificando in concreto se il comportamento collaborativo che ha portato al riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 8 del D.L. n. 152 del 1991, convertito nella L. n. 203 del 1991, sia garanzia, nella prospettiva della diversa condizione di vita intrapresa, di una scelta radicale di rimozione di qualsivoglia legame con la criminalità organizzata e, in particolare, con la precedente attività delinquenziale, in modo da comportare il superamento della presunzione di pericolosità posta dall’art. 275 c.p.p., comma 3.

Rv. 245659 Rv. 235377. 2.3 Nella specie, – (quando cioè l’indagato sia stato ammesso allo speciale programma di protezione previsto per i c.d. collaboratori di giustizia) – compito del giudice del cautelare è quello di verificare in concreto se il comportamento collaborativo dell’imputato rappresenti da un lato un elemento di distacco da un costume criminale più o meno radicato nel soggetto, e, dall’altro lato, la garanzia di non progressione criminale del collaboratore, oramai estraniatosi da quello stesso universo dal quale pure proviene. Ed è proprio per questo che la norma impone l’acquisizione del parere del Procuratore Nazionale Antimafia il quale deve fornire ogni utile informazione sulle caratteristiche della collaborazione, esprimendo le sue valutazioni sulla condotta sociale del soggetto, precisando se si sia mai rifiutato di sottoporsi ad atti di indagine, ed indicando, infine, gli elementi costituenti il ravvedimento con riferimento anche all’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

2.4 E proprio con riguardo a tale indispensabile elemento di valutazione, il Tribunale del riesame da atto; "che il GIP, pur ritenendo non sussistere un divieto normativo alla concessione degli aa.dd., tuttavia escludeva in fatto, anche sulla scorta del parere contrario espresso dal Procuratore Nazionale Antimafia, la sussistenza dei presupposti per la sostituzione della misura in atto, ritenendo il permanere di "margini di apprezzamento circa la solidità della sua scelta collaborativa". 2.5 La motivazione del Tribunale del riesame, inoltre, è in linea con i principi giurisprudenziali su richiamati quando afferma che la valutazione di effettiva rescissione dei legami associativi attinge ad elementi di giudizio certamente più complessi della semplice presa d’atto del percorso collaborativo del soggetto e che tale valutazione non può assolutamente prescindere dal passato criminale del collaborante, che nel caso di specie è tra i più allarmanti che si possano ipotizzare evidenziando, inoltre, uno specifico episodio, verificatosi nel dibattimento avanti alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere per l’omicidio O.,in cui lo S. è chiamato come testimone in procedimento connesso, all’udienza del 14.06.2010, lo S. pur confermando la volontà di deporre al processo, ha manifestato disagio per l’incombente processuale con ciò determinando il rinvio dello stesso.

2.6 Il ricorso, deve pertanto, essere dichiarato inammissibile.

3. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, il ricorrente che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. Inoltre, poichè dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal citato art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p..

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