Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-02-2011) 23-03-2011, n. 11568 Motivi di ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 12.4.2010 la Corte d’Appello di Venezia in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Verona in data 11.3.2009 assolveva A.A.C. dal reato di cui al capo G) per non aver commesso il fatto e dichiarava non doversi procedere nei confronti del medesimo in ordine ai rimanenti reati ascrittigli nonchè nei confronti di G.V. in ordine ai reati alla stessa ascritti ai capi B) e D) limitatamente ai fatti commessi fino al 12.10.2002 perchè estinti per prescrizione.

Conseguentemente riduceva e determinava la pena inflitta alla G. in anni 2 di recl. e quella inflitta all’ A. in anni 1 mesi 4 di recl. ed Euro 600,00 di multa ritenuta la continuazione tra il più grave reato di truffa e quello di cui al capo H).

Confermava nel resto la sentenza.

La Corte territoriale con riguardo alla G. affermava che gli elementi offerti dalle indagini svolte erano sufficienti per affermare la sua responsabilità in ordine a tutti i reati a lei ascritti.

Pacifica era l’esistenza dell’associazione criminosa che faceva capo a C.A., la sua partecipazione era provata dalle dichiarazioni del CA. nella fase delle indagini che hanno trovato conferma nei testi e nei documenti sequestrati.

Evidenziava che i documenti falsi a firma G. che erano stati rinvenuti, in parte completi e in parte in bianco, erano numerosi e solo pochi diretti a favorire parenti.

Nella sua disponibilità erano stati sequestrati anche kits di regolarizzazione, fotocopie di passaporti di cittadini moldavi, un passaporto in originale, elementi tutti che dimostravano la sua partecipazione consapevole all’organizzazione diretta a favorire la presenza illegale nello stato di cittadini extracomunitari.

Pacifica era anche la sussistenza del tentativo di favorire la permanenza di cittadini extracomunitari nel territorio dello Stato (capo B) e della truffa contestata al capo D).

Con riguardo all’ A. la Corte ha ritenuto sussistenti i reati di cui ai capi H) I) J) sulla scorta delle dichiarazioni di M. L. e B.F..

La Corte respingeva l’asserita nullità per mancata traduzione degli atti processuali non risultando che la G. ignorasse la lingua italiana e riteneva altresì sussistente il diritto al risarcimento del danno delle parti civili costituite R.M.K. e V.S..

Riteneva gli imputati non meritevoli delle circostanze attenuanti generiche in considerazione dello situazione di particolare debolezza delle parti offese.

Ricorrono per Cassazione personalmente gli imputati G.V. deduce che la sentenza impugnata è incorsa:

1. in erronea applicazione di legge o comunque presenta una motivazione insufficiente e contraddittoria relativamente ad un punto decisivo della controversia. Contesta la ricorrente le argomentazioni poste a fondamento della sentenza impugnata.

In particolare sostiene:

che le pratiche rinvenute nella sua disponibilità riguardavano soggetti presenti regolarmente sul territorio nazionale;

che il suo rapporto con il CA. era solo quello di collaboratrice domestica e che quest’ultimo aveva dichiarato che lei era estranea ai fatti;

che la Corte non aveva tenuto in considerazione le dichiarazioni del teste Gu..

2. Inosservanza dell’art. 185 c.p. essendo stata erroneamente condannata al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile R.M.K..

Lamenta che i giudici di merito hanno fondato la loro decisione sulle dichiarazioni rese dalla parte civile in fase delle indagini in assenza di contraddittorio.

3. Mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena.

4. Mancata traduzione degli atti.

A.A.C. deduce che la sentenza impugnata è incorsa:

1. in violazione di legge con riguardo alla violazione dell’art. 640 c.p.. Contesta il ricorrente la sussistenza del reato in argomento in quanto le parti offese erano consapevoli di non essere nelle condizioni previste dalla L. n. 222 del 2002 che aveva stabilito che poteva essere sanato con il rilascio di un permesso di soggiorno solo il lavoratore straniero che nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore della legge aveva già in Corso in Italia un rapporto di lavoro;

2. in violazione dell’art. 512 c.p.p. omessa applicazione dell’art. 392 c.p.. Contesta il ricorrente l’irreperibilità dei testi che ha consentito l’acquisizione delle dichiarazioni dagli stessi rese in fase di indagine, sottolineando come lo status di clandestino non sia equiparabile a quello di irreperibile.

Tale status avrebbe dovuto indurre gli organi inquirenti a richiedere l’incidente probatorio.

Nell’esaminare le doglianze formulate dai ricorrenti, attinenti alla tenuta argomentativa della sentenza, appare utile ricordare, in via preliminare, i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di merito.

Invero, ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile:

l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.

Deve aggiungersi che l’illogicità della motivazione deve risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., Sez. 4^, 4 dicembre 2003, Cozzolino ed altri).

Inoltre, va precisato, che il vizio della "manifesta illogicità" della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica "rispetto a sè stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati.

I limiti del sindacato della Corte non paiono mutati neppure a seguito della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), intervenuta a seguito della L. 20 febbraio 2006, n. 46.

La Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della motivazione.

Nel caso di specie con il primo motivo la G. non solo ha reiterato una doglianza già esposta con i motivi d’appello e debitamente disattesa dalla Corte di merito, ma non ha nemmeno sostenuto il suo assunto con richiamo ad atti specifici e ben individuati del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare.

In proposito il Collegio osserva che è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio della c.d.

"autosufficienza" del ricorso in base al quale quando la doglianza fa riferimento ad atti processuali, la cui valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificatamente indicati o la loro allegazione (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), essendo precluso alla Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (cfr.

Cass. n. 20344/06; Cass. n. 20370/06; Cass. n. 47499/07; Cass. n. 16706/08).

Nel caso in esame la ricorrente non ha messo a disposizione di questa Corte di legittimità gli elementi obiettivi necessari per apprezzare, sulla base di atti specificatamente trascritti o allegati, la sussistenza o l’insussistenza di un fumus delle doglianze e quindi l’utilità o la superfluità di un esame diretto dei relativi atti.

In applicazione a tali principi il Collegio ritiene che le risultanze processuali inadeguatamente esposte e le argomentazioni esposte nel motivo in esame si risolvono in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una sentenza impugnata che, come già detto, appare congruamente e coerentemente motivata.

Deve aggiungersi che non merita accoglimento neppure la generica doglianza secondo cui vi sarebbe un difetto di motivazione su alcuni punti decisivi della causa, non avendo il giudice dato alcun peso ad alcune delle prove raccolte.

Occorre infatti a tale proposito rammentare che il giudice di merito non ha l’obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento indiziario o probatorio acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre convenientemente in luce quelli che in base al giudizio effettuato risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere purchè tale valutazione risulti, come nel caso in esame, logicamente coerente (Cass. Pen. Sez. 5^, 2459/2000, ricorrente Garas).

Il motivo è pertanto infondato.

Inammissibili sono i motivi relativi alla mancata traduzione degli atti, alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e sulla attendibilità delle parti civili.

I motivi riproducono pedissequamente i motivi d’appello.

E’ giurisprudenza pacifica di questa Corte che se i motivi del ricorso per Cassazione riproducono integralmente ed esattamente i motivi d’appello senza alcun riferimento alla motivazione della sentenza di secondo grado, le relative deduzioni non rispondono al concetto stesso di "motivo", perchè non si raccordano a un determinato punto della sentenza impugnata ed appaiono, quindi, come prive del requisito della specificità richiesto, a pena di inammissibilità, dall’art. 581 c.p.p., lett. c).

E’ evidente infatti che, a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame la pedissequa ripresentazione degli stessi come motivi di ricorso in Cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’Appello.

Infondata è la censura riguardo la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.

Sul punto si osserva che, in mancanza di espressa richiesta, formulata nell’atto di appello o anche oralmente in udienza dal difensore, nessun obbligo di motivazione incombeva in capo al giudice di appello in merito alla mancata applicazione di detto beneficio.

Ed invero, l’art. 597, comma 5, del codice di rito, pur prevedendo espressamente la possibilità dell’applicazione di ufficio della sospensione condizionale della pena, non pone alcun onere di motivazione al riguardo.

Il mancato esercizio di un potere discrezionale, come è quello attribuito dalla norma ora menzionata, non si traduce in vizio di violazione di legge o di motivazione, ove non sia sollecitato dalla parte nelle forme anzidette (cfr., tra le altre, Cass. sez. 1^, n. 11642 del 4.12.1992 N. 9455 del 1984 Rv. 166423, N. 11941 del 1991 Rv. 188763, N. 6908 del 1992 Rv. 190548, N. 4977 del 1993 Rv. 194563, N. 7911 del 1993 Rv. 194662 Cass. 41126/01 Rv 220254).

L’accertato giudizio di responsabilità ha correttamente determinato il giudice dell’appello a confermare le statuizioni nei confronti delle costituite parti civili ai sensi dell’art. 185 c.p..

Il primo motivo presentato da A.A.C. è inammissibile.

Il ricorrente reitera una doglianza già avanzata in sede d’appello senza considerare la logica e coerente motivazione della Corte Territoriale che ha sottolineato come gli imputati hanno ottenuto dalle vittime somme di denaro non indifferenti, tenuto conto della loro particolare situazione, facendo loro credere che da tale esborso sarebbe derivata la regolarizzazione della loro posizione nel territorio dello Stato ben sapendo che ciò non era possibile.

Anche il secondo motivo è infondato.

Contesta il ricorrente l’irreperibilità dei testi che ha consentito l’acquisizione delle dichiarazioni dagli stessi rese in fase di indagine, sottolineando come lo status di clandestino non sia equiparabile a quello di irreperibile.

Con riguardo alla doglianza in argomento deve ricordarsi che, ai sensi dell’art. 512 c.p.p., l’imprevedibile sopravvenuta impossibilità della ripetizione della prova orale rende le precedenti dichiarazioni del testimone leggibili in dibattimento e quindi acquisibili nel fascicolo dibattimentale a mente dell’art. 515 c.p.p..

La irripetibilità, che costituisce il cardine del meccanismo di recupero al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni rese in sede d’indagini disciplinato da detta disposizione attiene al procedimento di assunzione della prova, ovverosia alla "ripetizione dell’assunzione dell’atto dichiarativo" (C. cost. n. 375 del 2001), che deve risultare dal punto di vista fenomenico – e perciò oggettivamente, dal punto di vista processuale – irrealizzabile e non quindi al contenuto della prova e cioè al risultato del procedimento acquisitivo (alle dichiarazioni, rese o non rese).

L’oggettiva, nel senso indicato di fenomenica, e imprevedibile sopravvenuta impossibilità di dar corso al procedimento probatorio (all’assunzione) comporta ex se l’acquisizione mediante lettura dell’atto al fascicolo del dibattimento in base al combinato disposto degli artt. 515 e 512 c.p.p..

Tanto non basta tuttavia a rendere senz’altro e senza limiti utilizzabili per la decisione le dichiarazioni acquisite unilateralmente dall’accusa (che non esauriscono, è bene sottolinearlo fin d’ora, il catalogo delle dichiarazioni acquisibili ex art. 512 c.p.p.), giacchè la norma che disciplina l’utilizzabilità ai fini della decisione delle prove è in realtà l’art. 526 c.p.p., comma 1 bis che infatti dispone che "la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base delle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato e del suo difensore".

E’ dunque la regola dell’art. 526 c.p.p., comma 1 bis, che impedisce al giudice di fondare la decisione su una prova dichiarativa acquisita mediante il meccanismo di recupero dell’art. 512 c.p.p., ma a tre condizioni.

La prima, del tutto esplicita, concerne l’ambito e il verso della decisione in relazione alla quale opera la regola di inutilizzabilità: solo ai fini dell’affermazione di colpevolezza dell’imputato.

La seconda, pure esplicita, riguarda l’atteggiamento soggettivo del dichiarante: la ragione che ha reso impossibile la ripetizione dell’esame, che deve risiedere in una scelta libera di sottrarsi al contraddittorio.

La terza discende inequivocabilmente dall’origine storica e dalla ragione sistematica della previsione ed è implicita nell’enunciato linguistico, che parla di "colpevolezza" "provata" "sulla base" e che ben si presta ad essere interpretato nel senso che il divieto opera solo nelle situazioni in cui la prova costituisce il fondamento esclusivo o determinante dell’affermazione di colpevolezza.

Basterà ricordare sul punto che la disposizione è stata introdotta dalla L. n. 63 del 2001 quale traduzione codicistica (con aggiustamenti esclusivamente formali) del precetto recato dalla seconda parte dell’art. 111 Cost., comma 4, come novellato a seguito della Legge Costituzionale n. 2 del 1999, la quale a sua volta si proponeva di rendere espliciti a livello costituzionale i principi del giusto processo enunciati dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

E per giurisprudenza costante della Corte Edu l’assenza di contraddittorio è incompatibile con la Convenzione solo nell’ipotesi in cui le dichiarazioni della persona alla quale l’imputato o il difensore non hanno potuto porre domande costituiscano la base esclusiva della condanna o contribuiscono in maniera determinante ad essa (tra molte: sent. 13.10.2005, Bracci v. Italia; sent. 20 aprile 2006, Carta v. Italia; sent. 19 ottobre 2006 Majdallah v. Italia;

sent. 8 febbraio 2007 Kollcaku v. Italia).

Ciò detto deve rilevarsi che i giudici del merito hanno fondato la responsabilità del ricorrente sulle dichiarazioni dei testi M. L. e B.F., indicati come irreperibili, ma che tali dichiarazioni sono state acquisite all’udienza dibattimentale dell’8.6.2007 con il consenso del difensore dell’ A. e quindi sono pienamente utilizzabili.

I ricorsi in esame devono pertanto essere respinti.

I reati in argomento sono però estinti per sopravvenuta prescrizione.

I reati contestati all’ A. risultano commessi sino al novembre 2002 e quelli contestati alla G. fra il novembre 2002 e il gennaio 2003 con la conseguenza che alla data odierna sono decorsi i termini di prescrizione (anni 7 e mesi 6) e gli stessi sono estinti per sopravvenuta prescrizione.

Devono essere confermate le statuizioni civili.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i reati sono estinti per sopravvenuta prescrizione. Ferme le statuizioni civili.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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