Cons. Stato Sez. V, Sent., 21-03-2011, n. 1737 Giustizia amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La società C. S.p.A., nella dichiarata qualità di conduttrice dell’immobile sito in Pordenone, via Mestre, n. 2 (ubicato in zona B, c.d. di completamento, in C.E.U., fol. 27, mapp. 454, part. 1002681, asseritamente utilizzato fino al 1993 dalla ditta C. per fabbricare mobili e per uso commerciale al dettaglio finalizzato alla vendita dei prodotti e poi destinato ad uso commerciale), con ricorso giurisdizionale notificato il 13 maggio 1997 chiedeva al Tribunale amministrativo regionale per il Friuli – Venezia Giulia l’annullamento del provvedimento del Comune di Pordenone prot. 18952 del 9 aprile 1997, recante il divieto di non iniziare l’attività commerciale al dettaglio, di cui alla denuncia di inizio di attività del 9 marzo 1997, e se iniziata a cessarla, per la non conformità del locale alla destinazione d’uso risultante agli atti.

L’impugnativa era affidata a due motivi di censura, imperniati sull’eccesso di potere per sviamento e sulla violazione dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché sull’eccesso di potere per insufficienza della motivazione.

Resisteva il Comune di Pordenone; interveniva ad adiuvandum il sig. B.C., in qualità di comproprietario del predetto immobile.

Il ricorso veniva iscritto al NRG. 310 dell’anno 1997.

2. Con altro ricorso giurisdizionale notificato il 13 ottobre 1997 la predetta società C. S.p.A. chiedeva l’annullamento dell’ordinanza del sindaco del Comune di Pordenone in data 16 giugno 1997 (notificato il successivo 7 luglio 1997) di demolizione e ripristino dei luoghi, con riferimento all’immobile sito in Pordenone, via Mestre, n. 2.

L’impugnativa era affidata a due motivi di censura, imperniati sull’eccesso di potere per violazione di legge e/o sviamento di potere, per contraddittorietà e carenza di motivazione.

Resisteva il Comune di Pordenone.

Il ricorso veniva iscritto al NRG. 610 dell’anno 1997.

3. Il sig. B.C., nella qualità di comproprietario dell’immobile condotto dalla società C. S.p.A., chiedeva a sua volta al Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia l’annullamento: a) del provvedimento sindacale n. 118 dell’8 ottobre 1997, recante la revoca del precedente certificato di destinazione d’uso del 23 febbraio 1962 (che autorizzava l’utilizzo produttivo – fabbrica liquori – dell’unità produttiva) e l’ordine alla C. S.p.A. di cessazione dell’attività commerciale al minuto esercitata nell’immobile; b) della delibera consiliare n. 67 del 18 luglio 1996 avente ad oggetto "Perimetrazione: zona di recupero n. 59 e P.R. n. 32 di via Caboto; zona di recupero n. 60 e P.R. n. 13 di via Mazzini; zona di recupero n. 61 e P.R. n. 33 di via Mestre – Ampliamento zona di recupero n. 53 di via Stradelle – Riperimetrazione del P.R. n. 27 di via Stradelle".

A sostegno dell’impugnativa venivano sollevati i seguenti motivi di censura: "A.1. I motivo – violazione di legge per violazione dell’art. 18 della legge 1150/1942"; "A.2. II motivo – eccesso di potere per travisamento dei fatti, carenza istruttoria e di motivazione, sviamento della causa e violazione di legge per violazione del giusto procedimento ex art. 6 l. 142/90"; "A.3. III motivo – violazione di legge per violazione degli artt. 17 l. 457/1978 e 36 L.R. 52/91"; "B.I.1 I motivo: incompetenza e violazione di legge per violazione dell’art. 6 della legge 15.05.1997 n. 127 e dell’art. 3 del D. L.vo 29/93"; "B.II – sulla contestata assenza di agibilità e di requisiti igienico – sanitari – B.II.1. violazione di legge per violazione dell’art. 220 T.U. delle leggi san. E dell’art. 3 e 25 Costituzione"; "B.II.2. II motivo: eccesso di potere per travisamento dei fatti ed inadeguatezza istruttoria"; "B.III – Sul contestato cambiamento di destinazione d’uso – B.III.1. I motivo: violazione di legge per violazione degli artt. 68, 75, 78 della L.R. 19.11.1991, n. 52 ed eccesso di poter per travisamento dei fatti"; "B.III.2 – II motivo: violazione di legge per violazione del principio del giusto procedimento ed eccesso di potere per sviamento"; "B.III.3. – III motivo: violazione di legge per violazione degli artt. 9 del D.L. 22.07.1996, n. 388 e 19 della l. 241/90 ed eccesso di potere per carente motivazione"; "B.IV – Sulla violazione del principio di affidamento – B.IV.1 eccesso di potere per carente motivazione ed ingiustizia manifesta".

Anche in tale giudizio, iscritto al NRG. 640 dell’anno 1997, si costituiva il Comune di Pordenone, chiedendone il rigetto.

4. Anche la società C. S.p.A. impugnava l’ordinanza sindacale n. 118 dell’8 ottobre 1997, recante l’ordine di cessazione dell’attività commerciale al minuto esercitata nell’immobile sito in Pordenone, via Mestre, n. 2, lamentandone l’illegittimità sotto svariati profili sia perché la destinazione d’uso commerciale dell’immobile risultava dal suo stesso accatastamento, sia perché le opere edilizie eseguite erano di mera manutenzione, sia perché l’atto impugnato avrebbe dovuto essere adottato dal dirigente del settore e non già dal sindaco.

Resisteva il Comune di Pordenone e si costituiva anche il signor B.C., aderendo alle richieste della società ricorrente.

Il ricorso veniva iscritto al NRG. 679 dell’anno 1997.

5. L’adito tribunale, con la sentenza n. 560 del 9 aprile 1998, riuniti i ricorsi, li respingeva, ritenendo infondati tutti i motivi di censura sollevati e condannando di conseguenza le parti ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio.

6. Il sig. B.C. con atto di appello notificato il 24 maggio 1999 ha chiesto la riforma di tale sentenza, lamentandone l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di quattro motivi di gravame.

Con il primo, rubricato "Sulla ritenuta inapplicabilità della l. n. 241 del 1990 della Regione Friuli Venezia Giulia", l’appellante ha decisamente contestato l’assunto dei primi giudici circa l’inapplicabilità nel caso di specie, in mancanza di una specifica normativa regionale di attuazione, della legge 7 agosto 1990, n. 241, sostenendo che quest’ultima aveva carattere di legge di grande riforma, in grado di determinare ex se l’adeguamento delle leggi anche di quelle regioni ad autonomia differenziata, tanto più che nel caso di specie la questione controversa non concerneva la materia urbanistica e l’uso del territorio, ma solo la disciplina del procedimento amministrativo.

Con il secondo, intitolato "Sull’incompetenza dell’atto impugnato in primo grado", è stata ribadita la censura sollevata nel giudizio di primo grado circa il vizio di incompetenza che inficiava l’ordine di demolizione che, diversamente da quanto erroneamente sostenuto dai primi giudici, avrebbe dovuto essere adottato dal dirigente del settore e non già dal sindaco, trattandosi indiscutibilmente di un atto di gestione.

Con il terzo, imperniato "Sulla ritenuta indimostrata destinazione commerciale dell’immobile", l’appellante ha sostenuto che i primi giudici avevano inopinatamente ritenuto che la società C. S.p.A. non aveva provato la destinazione urbanistica della zona interessata, non essendo sufficiente a tanto l’accatastamento in quanto effettuato in base ad una dichiarazione di parte, efficace ai soli fini fiscali, senza tener conto degli elementi di prova forniti che, quanto meno, avrebbero imposto al tribunale l’acquisizione d’ufficio di ogni altro elemento conoscitivo per chiarire la situazione di fatto.

Infine, con il quarto motivo "Sull’efficacia della denunzia dei lavori", l’appellante ha dedotto l’erroneità della tesi dei primi giudici circa la asserita irrilevanza della denunzia di inizio lavori presentata dalla C. S.p.A. per operare una progressiva trasformazione dell’immobile dall’iniziale destinazione produttiva a quella commerciale, in quanto, anche a voler prescindere dal fatto che, come documentalmente provato gli stessi proprietari dell’immobile, signori C., avevano esercitato nell’immobile attività commerciale (circostanza di cui lo stesso Comune di Pordenone non poteva non essere a conoscenza), all’epoca della predetta denuncia di inizio lavori (1985) non era in vigore un piano regolatore generale ricomprendente l’area su cui insiste l’immobile, con la conseguenza che il cambio di destinazione, senza opere e senza autorizzazione, era da ritenersi possibile.

7. Ha resistito all’appello il Comune di Pordenone, deducendone l’inammissibilità e comunque l’infondatezza ed insistendo per il suo rigetto.

8. All’udienza del 3 dicembre 2001, dopo la rituale discussione, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

9. Preliminarmente occorre rilevare che, come ha dedotto l’appellata amministrazione comunale di Pordenone, il sig. B.C. ha impugnato in primo grado come ricorrente principale il provvedimento sindacale n. 118 dell’8 ottobre 1997 (recante la revoca del precedente certificato in data 23 febbraio 1962 di destinazione d’uso dell’immobile, nonché l’ordine alla società C. S.p.A. di cessare l’attività commerciale al minuto esercitata nell’immobile stesso (ricorso NRG. 640/1997).

Egli è invece intervenuto ad adiuvandum nel ricorso NRG. 310/97 proposto dalla società C. S.p.A. per l’annullamento del provvedimento prot. 18952 del 9 aprile 1997 recante il divieto di iniziare l’attività di commercio al dettaglio nell’immobile sito in Pordenone, via Mestre, n. 2, e si è costituito, sostanzialmente aderendo alle tesi della predetta società ricorrente, nel ricorso (NRG. 679/1997), anche da questa promossa per l’annullamento dell’ordinanza n. 118 dell’8 ottobre 1997.

Il predetto non ha impugnato l’ordinanza del Comune di Pordenone di demolizione e ripristino dei luoghi del 16 giugno 1997 e nel relativo proposto dalla società CE.DI.VE S.p.A. non risulta neppure essersi costituito.

9.1. Ciò posto, in ragione del condivisibile indirizzo giurisprudenziale, secondo cui il soggetto interveniente ad adiuvandum che ha partecipato al giudizio di primo grado per sostenere le ragioni del ricorrente principale non è legittimato a proporre appello in via principale ed autonoma, salvo l’esistenza di un proprio interesse connesso all’intervento o alle spese giudiziali, che tuttavia non ricorrono nel caso di specie, come si ricava dalla lettura dei motivi di gravame (C.d.S., sez. IV, 12 luglio 2010, n. 4495; 12 marzo 2007, n. 1191; sez. VI, 08 marzo 2006, n. 1264; sez. V, 5 settembre 2002, n. 4461), l’appello in esame è pertanto inammissibile nella parte in cui è volto a contestare la sentenza di primo grado che ha deciso sui ricorsi proposti in primo grado dalla società CE.DI.VE S.p.A. (NRG. 310/97; 610/97; 679/87), potendo per contro essere esaminato nella sola parte in cui ha respinto il ricorso NRG. 640/97.

Nel giudizio amministrativo, infatti, la posizione dell’interventore "ad adiuvandum " è strettamente dipendente dall’azione esercitata dal ricorrente principale con salvezza, evidentemente, della facoltà di impugnare le statuizioni direttamente interferenti con la sua posizione di interventore (quanto alla sua estromissione ed alla statuizione sulle spese del giudizio), sicché non può sostituire la sua iniziativa processuale a quella mancante del ricorrente principale alla cui posizione egli ha, con l’ intervento, aderito (C.d.S., sez. V, 29 novembre 2004, n. 7748).

9.2. Proprio sulla scorta delle considerazioni fin qui svolte, occorre ancora evidenziare che in relazione al ricorso proposto in primo grado dal sig. B.C. (NRG. 640/1997) ed ai motivi di censura ivi spiegati, unico profilo in relazione al quale, come si è chiarito in precedenza l’appello in esame può considerarsi astrattamente ammissibile, devono tuttavia ritenersi inammissibili il primo, il secondo ed il quarto motivo di gravame, in quanto non pertinenti al predetto ricorso di primo grado.

Invero, il primo motivo di gravame attiene all’applicabilità dell’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 alla richiesta di denuncia di inizio di attività presentata dalla società C. S.p.A.: sennonché il sig. B.C. aveva impugnato l’ordinanza sindacale n. 118 dell’ottobre 1997, ma solo nella parte in cui conteneva la revoca del precedente certificato di destinazione d’uso dell’immobile, non potendo invece vantare alcun interesse al profilo relativo all’ordine di cessazione dell’attività commerciale al minuto esercitata nell’immobile esclusivamente dalla predetta C. S.p.A. (cui pure l’ordinanza era diretta, tant’è che la impugnata, ma solo in primo grado col ricorso NRG. 679/1997).

Il secondo motivo di gravame concerne l’asserito vizio di incompetenza che inficerebbe l’ordine di demolizione in data 16 giugno 1997: tuttavia tale provvedimento non è stato giammai impugnato in primo grado dal sig. B.C., ma solo dalla C. S.p.A., col ricorso NRG. 610/97, respinto in primo grado, senza che la società abbia poi provveduto alla successiva impugnazione.

Quanto al quarto motivo di gravame esso attiene alla asserita efficacia della dichiarazione di inizio dei lavori edilizi: ma anche in questo caso si tratta di atti non impugnati in primo grado dall’appellante, ma solo dalla C. S.p.A., cui solo spettava l’eventuale proposizione dell’appello.

10. L’unico motivo di gravame esaminabile è dunque il terzo, con il quale il sig. B.C. ha lamentato che i primi giudici hanno erroneamente ritenuto indimostrata la destinazione commerciale dell’immobile, ritenendo a tal fine insufficienti le risultanze dell’accatastamento, in quanto frutto di una mera dichiarazione di parte, valida ai soli fini fiscali, senza neppure esercitare, come sarebbe stato necessario, il proprio potere officioso per verificare l’effettiva destinazione dell’immobile in presenza peraltro di chiari elementi probatori forniti dalle parti a supporto della destinazione commerciale.

L’assunto è privo di fondamento giuridico.

E’ da osservare innanzitutto che l’appellante non ha in realtà contestato l’effettivo contrasto tra la originaria destinazione ad attività produttiva dell’immobile e la successiva destinazione commerciale impressa a quest’ultimo, così ammettendo che doveva esservi un provvedimento, ancorché eventualmente nella forma della denuncia di inizio di attività, di mutamento di destinazione d’uso; d’altra parte non può ammettersi che tale mutamento sia effettivamente e legittimamente intervenuto per effetto delle dichiarazioni di inizio di attività presentate dalla C. S.p.A., atteso che proprio l’effetto di queste ultime, disconosciuto dall’amministrazione comunale, costituisce il substrato fattuale e giuridico dei ricorsi proposti dalla C. S.p.A., respinti dai primi giudici con la sentenza in epigrafe, non appellata sul punto dalla predetta società.

D’altra parte l’appellante non ha sostanzialmente contestato neppure la tesi sostenuta dai primi giudici circa l’irrilevanza, ai fini della prova della destinazione commerciale dell’immobile, dell’accatastamento, quale mera dichiarazione di parte ai soli fini fiscali (ed in contrasto con la destinazione industriale risultante dagli atti del comune), avendo al contrario rilevato che in presenza di detto atto di accatastamento e delle altre dichiarazioni di parte prodotte in giudizio il tribunale avrebbe dovuto esercitare i propri poteri istruttori onde accertare l’effettiva destinazione dell’immobile.

Sennonchè sul punto è sufficiente rilevare che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi, il principio dispositivo con metodo acquisitivo, che nel processo amministrativo mira a neutralizzare la disuguaglianza di posizioni fra Amministrazione e privato, non consente al giudice di sostituirsi alla parte onerata disponendo d’ufficio le acquisizioni istruttorie a cui era tenuta quest’ultima, quando essa non si trovava nell’impossibilità di provare il fatto posto a base della sua azione, essendo gli atti e documenti idonei a supportare le sue allegazioni nella sua esclusiva disponibilità (C.d.S., sez. IV, 18 giugno 2009, n. 4004; sez. V, 7 ottobre 2009, n. 6118).

Applicando tali principi al caso in esame, non può condividersi l’assunto dell’appellante, atteso che non è stato in alcun modo provato che l’amministrazione avesse mutato la originaria destinazione d’uso industriale dell’immobile, a nulla rilevando eventuali situazioni di mero fatto contrastanti con tale legittima destinazione (non potendo evidentemente ammettersi che le determinazioni dell’amministrazioni frutto di legittimi procedimenti e consacrate in puntuali documenti amministrativi possano essere disattese sulla scorta di meri fatti).

11. In conclusione, alla stregua delle osservazioni svolte, l’appello deve essere dichiarato in parte inammissibile ed in parte deve essere respinto, in quanto infondato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal sig. B.C. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia n. 560 del 9 aprile 1998, lo dichiara in parte inammissibile ed in parte lo rigetta.

Condanna l’appellante al pagamento in favore del Comune di Pordenone delle spese del presente grado di giudizio che liquida complessivamente in Euro. 2.500,00 (duemilacinquecento).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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