T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 21-03-2011, n. 2409

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

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Svolgimento del processo

Espone in fatto l’odierna ricorrente, società di mediazione iscritta all’Albo dei Mediatori Creditizi, operante nella città di Firenze, che con nota del 20 agosto 2009 è stato comunicato l’avvio del procedimento volto ad accertare l’eventuale scorrettezza, sotto il profilo dell’omissione di informazioni rilevanti per i consumatori per poter assumere una scelta consapevole, di un messaggio pubblicitario diffuso tramite volantino con il quale è stata pubblicizzata l’attività di erogazione di finanziamenti e mutui svolti dalla ricorrente.

In esito al procedimento svolto, è stato adottato il gravato provvedimento con il quale è stata riscontrata la scorrettezza della pratica commerciale integrata da detto messaggio pubblicitario in ragione della mancata indicazione, nello stesso, degli elementi essenziali da cui ricavare gli esatti costi del finanziamento, ne è stata vietata l’ulteriore diffusione ed è stata irrogata alla società ricorrente la sanzione pecuniaria amministrativa di euro 41.000.

Avverso tale provvedimento deduce parte ricorrente i seguenti motivi di censura:

1 – Violazione di legge e assenza del presupposto di fatto.

Ricorda parte ricorrente che ai fini di una corretta informativa e della trasparenza delle condizioni contrattuali, il T.U bancario, all’art. 116, prevede che debba essere pubblicizzato il TAEG, che, in quanto indicativo del costo totale del credito, è ritenuto sufficiente per una corretta informativa, mentre l’art. 123 del citato T.U. prevede che la pubblicità deve contenere l’indicazione del TAEG e il relativo periodo di validità, precisando di essersi attenuta a tali prescrizioni, con la conseguenza che non potrebbe esserle imputata alcuna assenza di diligenza professionale, a meno di non richiedere adempimenti ed oneri non richiesti dalla legge.

2 – Eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto di motivazione.

Nel richiamare parte ricorrente l’applicabilità in materia della legge n. 241 del 1990, denuncia la genericità della contestazione contenuta nell’avviso di avvio del procedimento, con conseguente limitazione del proprio diritto di difesa, nonché la mancata corrispondenza tra le ipotesi contestate e gli articoli addebitati nel gravato provvedimento.

Difetterebbe, inoltre, una adeguata istruttoria, non essendo stato accertato almeno un caso di soggetto indotto in errore, non essendo stata svolta alcuna valutazione complessiva del volantino, avuto particolare riguardo all’avvertenza ivi contenuta circa la disponibilità di ogni informazione presso la sede della società, e non essendo stato valutato l’elemento psicologico nella realizzazione della fattispecie, rispetto al quale mancherebbe qualsivoglia motivazione.

3 – Carenza di potere e violazione di legge ( D.Lgs. n. 385 del 1993 – TUB, D.P.R. n. 180 del 1950, legge n. 108 del 1996, Provvedimento UIC del 29 aprile 2005).

Nell’affermare parte ricorrente che la materia delle pratiche commerciali scorrette è disciplinata da una normativa speciale, prevalente rispetto a quella dettata dal Codice del Consumo, deduce l’incompetenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in ordine alla pratica sanzionata, essendo preposta al rispetto della disciplina di settore la Banca d’Italia cui sono attribuiti specifici poteri istruttori e sanzionatori, richiamando, a sostegno della propria tesi, il parere espresso dal Consiglio di Stato in data 3 dicembre 2009.

4 – Violazione dell’art. 27, comma 9, del Codice del Consumo. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione. Eccesso di potere per violazione di norme regolamentari. Contraddittorietà del provvedimento che rapporta la misura della sanzione alla gravità della violazione, all’opera svolta per eliminare o attenuare l’infrazione, alle dimensioni del soggetto, alla durata degli eventi.

Denuncia parte ricorrente, con riferimento al formulato giudizio di gravità della violazione, l’assenza di una motivazione che consenta di ricostruire l’iter logico seguito dall’Autorità nella graduazione della sanzione, di cui deduce il carattere sproporzionato rispetto agli elementi da prendere in considerazione, ed in particolare rispetto all’infrazione ed alle condizioni economiche del professionista, perseguendo finalità diverse da quelle per le quali è prevista anche in considerazione del fatto che l’Autorità trattiene sul proprio conto di tesoreria fino a 50.000 euro di ogni sanzione irrogata per pratiche commerciali scorrette.

La quantificazione della sanzione sarebbe, altresì, abnorme per non essersi tenuto adeguato conto della durata di solo un mese della pubblicità, diffusa nel solo ambito territoriale di Firenze, della buona fede della ricorrente che si è attenuta alla disciplina di settore e della mancanza di consumatori offesi dalla condotta.

Per effetto della mancanza di adeguata istruttoria e di idonea motivazione il gravato provvedimento integrerebbe inoltre una situazione di ingiustizia manifesta stante l’irrazionalità della sanzione irrogata, graduata in modo arbitrario avuto riguardo a sanzioni comminate ad altri soggetti per violazioni di maggiore durata e di più ampia diffusione, con conseguente non proporzionalità e contraddittorietà dell’azione amministrativa.

Si è costituita in resistenza l’intimata Amministrazione con memoria depositata per la fase cautelare, sostenendo l’insussistenza dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora.

Con ordinanza n. 1381/2010 è stata rigettata la domanda incidentale di sospensione degli effetti del gravato provvedimento.

Alla Pubblica Udienza del 23 febbraio 2011, la causa è stata chiamata e, sentiti i difensori delle parti, trattenuta per la decisione, come da verbale.
Motivi della decisione

Con il ricorso in esame è proposta azione impugnatoria avverso il provvedimento – meglio descritto in epigrafe nei suoi estremi – con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in esito alla compiuta istruttoria, ha riscontrato la scorrettezza, ai sensi degli artt. 20 e 22 del Codice del Consumo, della pratica commerciale consistente nella diffusione, tramite volantino, di un messaggio pubblicitario volto a promuovere l’attività della società ricorrente concernente l’erogazione di prestiti e mutui, vietandone l’ulteriore diffusione ed irrogando la sanzione pecuniaria amministrativa di euro 41.000.

Avverso tale provvedimento deduce parte ricorrente – società di mediazione iscritta all’Albo dei Mediatori Creditizi, operante nella città di Firenze – una serie di censure volte, da un lato a contestare le valutazioni espresse dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (hic hinde Autorità) e, dall’altro, a denunciare il carattere sproporzionato ed irragionevole della sanzione irrogata, deducendo altresì l’incompetenza dell’Autorità in ordine alla fattispecie, essendo la materia inerente le pratiche commerciali scorrette nel settore finanziario disciplinato da una normativa di carattere speciale che coinvolgerebbe unicamente la competenza della Banca d’Italia.

Così sinteticamente richiamato l’oggetto della controversia in esame, ritiene il Collegio di dover procedere, nella gradata elaborazione logica delle questioni sollevate, alla preliminare delibazione in ordine alla eccepita incompetenza dell’Autorità, trattandosi di questione la cui eventuale fondatezza travolgerebbe in radice il gravato provvedimento in quanto adottato al di fuori dei poteri e delle prerogative attribuite all’Autorità.

A sostegno della censura in esame, afferma parte ricorrente che la materia delle pratiche commerciali scorrette nel settore dei servizi finanziari è disciplinata da una normativa speciale, segnatamente dal Testo Unico Bancario di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, asseritamente prevalente rispetto a quella dettata dal Codice del Consumo, al cui rispetto è preposta la Banca d’Italia cui sono attribuiti specifici poteri istruttori e sanzionatori, richiamando, a sostegno della propria tesi, il parere espresso dal Consiglio di Stato in data 3 dicembre 2009.

Il Collegio, in adesione all’orientamento già espresso dalla Sezione (ex plurimis: TAR Lazio – Roma – Sez. I – 19 maggio 2010) con riferimento a pratiche commerciali analoghe, la cui scorrettezza era anch’essa ancorata alle modalità di indicazione del TAEG, ritiene di dover delibare l’infondatezza della censura in esame.

La competenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato coesiste con la competenza dell’Autorità di vigilanza preposta allo specifico settore dei servizi bancari e finanziari, vale a dire la Banca d’Italia, in ragione della differente finalità delle funzioni svolte dai due Istituti.

In particolare, l’attività dell’Autorità antitrust è indirizzata alla protezione dei consumatori e degli interessi concorrenziali tra le imprese, mentre l’attività di vigilanza svolta dalla Banca d’Italia sul sistema bancario è finalizzata ad assicurare la sana e prudente gestione del sistema creditizio e finanziario, con l’obiettivo di rendere noti ai clienti gli elementi essenziali del rapporto contrattuale e le loro variazioni, favorendo in tal modo anche la concorrenza nei mercati bancario e finanziario, affiancandosi le relative disposizioni a quelle previste da altri comparti dell’ordinamento in materia di trasparenza e correttezza dei comportamenti nei confronti della clientela, con la conseguenza che, nello svolgimento delle proprie attività, i professionisti devono adeguare i propri comportamenti all’insieme di queste discipline come un complesso regolamentare integrato e curare il rispetto delle diverse regolamentazioni, adottando le misure necessarie, in ragione della coesistenza di diverse discipline e competenze, aventi finalità complementari.

Sotto un profilo più generale, di tipo sistematico, va rilevato che, non essendovi coincidenza tra l’ambito e le finalità di tutela apprestati dalla disciplina speciale di settore e quelli sotteso al Codice del Consumo, la disciplina dettata da quest’ultimo, che introduce un nuovo quadro di tutela, si aggiunge alle tutele derivanti dall’esistenza di specifiche discipline in settori oggetto di regolazione ed ai normali strumenti di tutela contrattuale.

La questione trova il proprio referente normativo nell’art. 19, comma 3, del Codice il quale prevede che "In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici.".

Con tale previsione, non viene affermata la recessività della tutela apprestata dal Codice rispetto alle discipline di settore, le quali, se prevalgono per gli aspetti specifici ivi disciplinati, vanno coordinate e completate con le norme dettate a tutela dei consumatori, posto che, a fronte delle diverse finalità perseguite, sia le discipline di settore che il Codice del Consumo concorrono a delineare il quadro normativo di riferimento in relazione agli obblighi dei professionisti ed agli strumenti di tutela in materia di pratiche commerciali, non essendo configurabile una completa sovrapponibilità di ambiti in conseguente rapporto di esclusione – per prevalenza – l’uno con l’altro in virtù del criterio di specialità.

Come affermato dalla giurisprudenza della Sezione (ex plurimis: T.A.R. Lazio Roma, Sez. I, 25 marzo 2009 n. 4490; 3 giugno 2010, n. 14856) le discipline speciali di settore si pongono in rapporto di complementarietà e non di alternatività rispetto al Codice del consumo, in ragione della diversità degli interessi pubblici sottostanti istituzionalmente tutelati dalle Amministrazioni rispettivamente competenti, non potendosi quindi configurare un’ipotesi di conflitto tra distinti apparati normativi, perseguendo le relative norme diverse e complementari finalità.

In tale prospettiva, essendo l’attività dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato volta alla protezione del consumatore e degli interessi concorrenziali delle imprese, la normativa di carattere generale in materia di tutela dei consumatori non pregiudica l’applicazione della disciplina, comunitaria e nazionale, dettata con specifico riferimento a determinati settori, ma coesiste con essa.

Ne consegue che la presenza di un compiuto e completo apparato normativo regolante un determinato settore non esclude la contemporanea applicazione del Codice del Consumo, il quale non riveste natura residuale se non nei casi in cui – come desumibile dalla normativa comunitaria – sussista una disciplina speciale di settore che non si limiti a regolare puntualmente e compiutamente il contenuto degli obblighi di correttezza, ma definisca anche i poteri ispettivi, inibitori e sanzionatori dell’autorità settoriale, nel qual caso la disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette non trova applicazione anche al fine di evitare il pericolo che, in violazione del canone del ne bis in idem, la stessa condotta possa essere sanzionata due volte.

Viene in rilievo, in particolare, quale canone ermeneutico fondamentale al fine di delineare i rapporti tra discipline speciali di settore e la disciplina generale dettata dal Codice del Consumo, l’art. 3 della direttiva 29/2005/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno, che, dopo aver esposto, al paragrafo 1, il proprio campo generale di applicazione (pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori, come stabilite all’articolo 5, poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto), chiarisce, al paragrafo 4, che le altre norme comunitarie che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali prevalgono e si applicano a tali aspetti specifici solo a condizione di un contrasto con le disposizioni della direttiva stessa, in tal modo escludendo una congenita e generale natura residuale delle disciplina comunitaria di tutela del consumatore.

Il che trova conferma alla luce della portata del decimo considerando della direttiva 29/2005/CE, la cui enunciazione secondo cui "…la presente direttiva si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, come gli obblighi di informazione e le regole sulle modalità di presentazione delle informazioni al consumatore…" va interpretata tenendo conto dell’incipit del considerando stesso, che lungi dal conferire alla disciplina a tutela del consumatore una operatività condizionata alla presenza di spazi liberi nelle regolamentazioni di settore, è chiaro nel precisare che "È necessario garantire un rapporto coerente tra la presente direttiva e il diritto comunitario esistente, soprattutto per quanto concerne le disposizioni dettagliate in materia di pratiche commerciali sleali applicabili a settori specifici", obiettivo che l’art. 1, paragrafo 4, della direttiva realizza nel senso sopra chiarito.

Il legislatore comunitario, quindi, con riguardo alle ipotesi di contrasto, ha fatto riferimento – per escludere l’applicazione delle norme generali relative alle pratiche commerciali scorrette – a tutte le ipotesi in cui, per aspetti specifici, esiste una norma settoriale, sufficientemente puntuale ed assistita da concreti poteri di enforcement e sanzionatori, che non si risolva in una mera affermazione di principio o nella mera individuazione del contenuto degli obblighi informativi e comportamentali per la tutela del consumatore.

Sul piano della disciplina nazionale, il citato art. 3, paragrafo 4, della Direttiva è stato trasposto nell’articolo 19, comma 3, del codice del consumo, precedentemente illustrato, da interpretarsi nel senso che la disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette non possa trovare applicazione quando sussista una disciplina speciale di settore che non si limiti a regolare puntualmente e compiutamente il contenuto degli obblighi di correttezza, sotto il profilo informativo e di condotta, in una specifica materia, ma definisca anche i relativi poteri ispettivi, inibitori e sanzionatori, attribuendoli ad una Autorità settoriale.

Tale interpretazione è stata già espressa dal Consiglio di Stato, Sezione I, con parere del 3 dicembre 2008, n. 3999 richiamato da parte ricorrente, ove è stata affrontata con grande ampiezza la questione dei rapporti tra la disciplina generale del Codice del Consumo e le altre discipline che possono incidere su aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette, con specifico riferimento al settore dei servizi finanziari, dando conto delle norme comunitarie e nazionali appena citate, nonché del principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689 del 1981, in base al quale "quando uno stesso fatto è punito da.. una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale".

Difatti, in tema di concorso di norme contemplanti sanzioni amministrative, il concorso cd. apparente – che si realizza quando una medesima condotta solo apparentemente è riconducibile a diverse fattispecie amministrative, mentre in realtà integra un unico illecito – è risolto dal principio di specialità, che costituisce principio generale dell’ordinamento immanente all’obiettivo di razionalità dello stesso, prioritario per risolvere in sede applicativa i casi contraddittori e di duplicazione di fattispecie, sia sostanziali che procedurali, volto alla individuazione della normativa applicabile e della prevalenza della inerente strumentazione di intervento, che conduce all’applicazione della disposizione di natura speciale sul presupposto che le norme medesime prendano in considerazione lo stesso fatto.

Sulla base di tali principi, l’applicazione del principio di specialità impedisce l’irrogazione, per la medesima condotta valutata sotto il medesimo profilo (la scorrettezza, informativa e/o di condotta), due sanzioni aventi medesima natura (pecuniaria), l’una comminata dall’organo con competenza speciale di settore e l’altra dall’organo con competenza generale (l’Autorità garante della concorrenza e del mercato) a fronte di un duplice apparato normativo per la cure del medesimo interesse.

In sostanza, la questione inerente la competenza circa la regolazione tra autorità amministrative indipendenti e la individuazione di quale delle due sia titolare di attribuzioni in una materia che appare di spettanza di entrambe, posto che le leggi vigenti non contemplano strumenti generali di risoluzione anticipata dei conflitti, positivi o negativi, di competenza, anche in ragione dell’istituzione progressiva delle varie autorità, va risolta in via interpretativa al fine di evitare duplicazioni di interventi, in violazione del ne bis in idem, ed in relazione al principio di legalità dell’azione pubblica, quand’anche sui generis, che va messa in relazione al principio generale di libertà, non essendo tollerabile la reiterazione del medesimo intervento autoritativo di attuazione del diritto oggettivo da parte di figure pubbliche diverse.

Il che risulta coerente con l’origine delle autorità amministrative indipendenti, incentrata sull’intrinseca autonomia del settore di riferimento e la limitazione dell’intervento pubblico alle sole attività, imparziali, di garanzia e regolazione del mercato, laddove la duplicazione dell’intervento – oltre a contraddire i presupposti della funzione di vigilanza e di regolazione – sarebbe causa di incoerenze, quando non di turbative, rispetto alla naturale autodeterminazione dei soggetti del mercato.

Allo stato della legislazione, il solo dispositivo generale di verifica delle competenze delle autorità amministrative indipendenti è quello, postumo, del giudizio amministrativo, che assume la funzione sostanziale di intervento regolatore, stante la sporadicità delle previsioni che impongono un coordinamento procedimentale tra più autorità quando sia immaginabile un loro concorso di competenze (ad esempio l’art. 27, comma 6, del Codice del Consumo laddove prescrive l’acquisizione del parere dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni).

Pur in difetto, allo stato della legislazione, di un dispositivo superiore di risoluzione dell’eventuale conflitto tra autorità di regolazione, sono comunque individuabili strumenti di garanzia che l’ordinamento nazionale offre contro il pericolo di una duplicazione di sanzioni.

Viene in rilievo, in tale direzione, l’art. 27, comma 14, del Codice del Consumo, riproduttivo di quanto già previsto dall’art. 7, comma 12, del D.Lgs. n. 74 del 1992 in materia di pubblicità ingannevole, il quale, nel prevedere che "Ove la pratica commerciale sia stata assentita con provvedimento amministrativo, preordinato anche alla verifica del carattere non scorretto della stessa, la tutela dei soggetti e delle organizzazioni che vi abbiano interesse, è esperibile in via giurisdizionale con ricorso al giudice amministrativo avverso il predetto provvedimento", che va letto, al di là del richiamo alla tutela giudiziale, ex post, nel senso di ritenere, in via preventiva, che la competenza generale dell’Autorità Garante della Concorrenza e de Mercato nell’applicazione del Codice del Consumo è comunque derogata laddove sia intervenuto un provvedimento amministrativo di altra amministrazione, preordinato anche alla verifica del carattere non scorretto della pratica commerciale assentita.

Ancora, vanno ricordate le previsioni normative che impongono un previo coordinamento procedimentale delle autorità di regolazione, quando sia immaginabile un loro concorso (in stretta materia antitrust, l’art. 20 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, per il quale se l’intesa, l’abuso di posizione dominante o la concentrazione riguardano imprese operanti in settori sottoposti alla vigilanza di più autorità, ciascuna può adottare i provvedimenti di propria competenza; nel caso di operazioni che coinvolgano imprese assicurative, i provvedimenti dell’AGCM sono adottati sentito il parere dell’ISVAP; il richiamato art. 27, comma 6, del Codice del Consumo, che stabilisce che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nell’inibire una pratica commerciale che è oggetto di diffusione con la stampa periodica o quotidiana o per via radiofonica o televisiva o altro mezzo di telecomunicazione, prima di provvedere, deve richiedere il parere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni).

Può, inoltre, intervenire il coordinamento spontaneo delle Autorità, sulla base delle leggi che definiscono i rispettivi settori.

Alla luce del descritto quadro di riferimento, se deve ritenersi che il principio di specialità è canone generale immanente all’obiettivo della razionalità dell’ordinamento, da sempre prioritario per risolvere in sede applicativa i casi contraddittori e di duplicazione di fattispecie, sia sostanziali che procedurali, tra cui quelle riguardanti l’intervento pubblico (in toto iure genus per speciem derogatur), deve altresì ritenersi che nel complesso vigente quadro ordinamentale delle regolazioni di settore, al fine di evitare, nell’applicazione di tale principio, frammentarietà operative e realizzare una migliore sua migliore messa a punto, sussista la necessità di confrontare non le strumentazioni operative, bensì i due ordinamenti di settore (Cons. Stato, Sez. VI, 16 ottobre 2002, n. 5640).

Conseguentemente, il riferimento al principio di specialità va disancorato dal riferimento prevalentemente soggettivo (tipo di operatore interessato o di soggetto tutelato) e orientato verso la valutazione dell’oggetto dell’intervento, ovvero verso l’interesse generale perseguito mediante l’intervento stesso ("competenza per effetti" o "per mercati").

In questa prospettiva, ai fini dell’applicazione del principio di specialità, diviene dominante il tipo di comportamento, la situazione contestuale verso cui l’intervento correttivo o sanzionatorio è diretto e la materia su cui i due possibili interventi vanno ad incidere, vale a dire il settore su cui l’intervento si dispiega.

Traendo spunto dalle suesposte coordinate interpretative, rilevato come il parere del Consiglio di Stato n. 3999 del 2008, nell’affrontare la problematica inerente l’ambito di applicabilità della disciplina generale dettata dal Codice del Consumo e la conseguente competenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ad intervenire su pratiche commerciali scorrette poste in essere nell’ambito dei servizi finanziari si sia occupato della specifica disciplina dettata dal Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria, di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, rispetto al quale è prevista la competenza della CONSOB, laddove nella fattispecie in esame viene in rilievo la disciplina dettata dal Testo Unico Bancario, ritiene il Collegio che l’avvenuta regolazione del settore non assorba le finalità sottese alla tutela apprestata dal Codice del Consumo, diverso essendo il bene giuridico che le distinte discipline intendono salvaguardare e le finalità che mirano a perseguire.

Va, in tale direzione, rilevato che la Direttiva CE 2005/29 si pone come normativa d’insieme, dal carattere generale per tutti i settori del mercato, di cui ne detta i principi inderogabili e costituisce testo più recente rispetto ad altri interventi comunitari e nazionali specifici per il settore finanziario, intervenendo anche su elementi che non sono perfettamente sovrapponibili a quelli affrontati in precedenza in tale settore. Basti pensare, a riguardo, alla mancata previsione, per il settore bancario e finanziario, delle tipizzazioni legali delle "pratiche commerciali aggressive" di cui agli artt. 25 e 26 Codice del Consumo, ovvero, con le dovute specificità, delle "pratiche commerciali ingannevoli" assolutamente non previste in tale settore.

Non può, dunque, rinvenirsi una perfetta e completa specialità della disciplina di settore, con la conseguenza che deve ritenersi la sussistenza, all’interno dell’ordinamento italiano, di alcuni aspetti del settore finanziario che godono di una disciplina specifica, mentre altri suoi aspetti devono essere ancora sottoposti alla disciplina generale posta a tutela della Concorrenza e del Mercato.

Discende da ciò che deve affermarsi la competenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per quegli aspetti che rientrano nelle previsioni comuni poste a tutela di qualsiasi settore economico, ivi compreso quello finanziario, in ragione della specificità degli interessi tutelati, alla quale va altresì riconosciuta la competenza a valutare le questioni inerenti la compatibilità (e la tutela minima prevista dalla Direttiva 2005/29/CE) tra le previsioni generali del Codice del Consumo e quanto previsto dalla disciplina di settore, ferma restando la competenza della diversa Autorità di settore per quegli aspetti normativi espressamente previsti per lo stesso, coerenti con le finalità di tutela sottesi alla relativa disciplina e non coincidenti con quelle di cui al Codice del Consumo, non potendo la disciplina dettata da quest’ultimo ritenersi assorbita o superata da una disciplina di settore più specifica e più analitica ma rivolta alla tutela di un diverso bene giuridico, solo in parte coincidente con quello di protezione del consumatore da illecite interferenze che ne pregiudichino la libertà di autodeterminazione al di fuori da indebiti condizionamenti, alla cui stregua la condotta lesiva di tale bene assume carattere di illiceità, e diviene quindi suscettibile di essere sanzionata da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

La previsione, nella regolazione di settore, di specifici obblighi informativi, non persegue difatti esclusivamente le finalità di tutela sottese al Codice del Consumo, diverso essendo il bene giuridico disciplinato e le finalità sottese alle funzioni di vigilanza, il che non consente di identificare una completa sovrapponibilità delle due diverse discipline che escludano la competenza generale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in base al criterio della competenza per effetti in relazione all’interesse generale perseguito mediante l’intervento.

Ricostruzione, questa, che peraltro trova conferma alla luce della disamina dell’art. 123 del T.U.B. – su cui ci si soffermerà più avanti – che nel disciplinare gli obblighi ricadenti sul professionista in materia di pubblicità dei servizi finanziari, fa comunque salva l’applicazione del Codice del Consumo.

La disciplina di settore si pone, quindi, in rapporto di complementarietà e non di alternatività rispetto al Codice del Consumo, in ragione della diversità degli interessi pubblici sottostanti, con la conseguenza che le relative previsioni hanno lo scopo di individuare, sulla base di elementi oggettivi, lo standard di diligenza richiesto alla società nelle condotte ivi oggetto di regolazione.

Tale standard, tuttavia, non costituisce l’unico parametro cui riferire la diligenza richiesta dal professionista ai sensi del Codice del Consumo, non mirando le previsioni di settore alla tutela specifica del consumatore ed al perseguimento delle finalità sottese al Codice del Consumo.

Difetta, quindi, in concreto una ipotesi di potenziale conflitto tra distinti apparati normativi, da risolversi sulla base del criterio di specialità della disciplina di settore, inidonee essendo le richiamate norme settoriali a determinare un limite di applicazione della disciplina relativa alle pratiche commerciali scorrette dettate dal Codice del Consumo, ed a sottrarre all’Autorità procedente le potestà sue proprie.

In proposito, va inoltre ricordato, nel senso di escludere che sulla base della direttiva 2005/29/CE possa desumersi una diminuzione del grado di tutela legislativa riconosciuta al consumatore, sbilanciandone il baricentro e la visuale prospettica verso le normative settoriali, che la Sezione è granitica nel riconoscere che la normativa nazionale, di derivazione europea, posta a tutela del consumatore e della concorrenza, ha trovato un decisivo arricchimento a seguito dei decreti legislativi n. 145 e n. 146 del 2007, rispettivamente destinati ai rapporti tra professionisti ed alle pratiche intraprese da questi ultimi con i consumatori, che hanno recepito proprio la direttiva n. 2005/29/CE.

In particolare, il D.Lgs. n. 146 del 2007, intervenuto direttamente sul Codice del Consumo, con la sostituzione degli artt. 1827 del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 e l’introduzione di una normativa generale sulle pratiche commerciali scorrette, ha abbandonato il precedente, specifico riferimento alla sola pubblicità ingannevole e comparativa, per giungere ad abbracciare una disciplina di portata più ampia, riferibile, sotto il profilo oggettivo, ad ogni azione, omissione, condotta, dichiarazione e comunicazione commerciale, ivi compresa la pubblicità, posta in essere da un professionista prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto (artt. 18 e 19 del codice), così notevolmente allargando il campo delle condotte sanzionabili.

Quanto, invece, all’ambito di applicazione soggettivo, le pratiche commerciali rilevanti ai fini della normativa in esame sono solo quelle poste in essere tra professionisti e consumatori, rimanendo, pertanto, escluse quelle condotte connesse ad un rapporto tra soli professionisti, cui, viceversa, fa precipuo riferimento il parallelo D.Lgs. n. 145 del 2007 sulla pubblicità ingannevole e comparativa.

Secondo la giurisprudenza della Sezione il recepimento nell’ordinamento interno della direttiva comunitaria 2005/29/CE ha rafforzato il ruolo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato nella tutela amministrativa del consumatore, rendendola più incisiva e ampia di quella prevista in precedenza, limitata alla repressione della pubblicità ingannevole e comparativa.

Per tale ragione il D.Lgs. n. 146 del 2007 ha, correlativamente e contestualmente, ampliato i poteri dell’Autorità, allineandoli a quelli tipici dell’azione amministrativa a tutela della concorrenza e rendendo altresì più severe le misure sanzionatorie.

Ne discende che il quadro di tutela offerta dal novellato Codice del Consumo si aggiunge non solo ai normali strumenti di tutela contrattuale, ma anche a quelli derivanti dall’esistenza di specifiche discipline in settori oggetto di regolazione (TAR Lazio – Sez. I – 8 settembre 2009, n. 8400; 3 luglio 2009, n. 6446; 15 giugno 2009, nn. 5625, 5627, 5628, 5629).

Ancora, non può il Collegio esimersi dall’osservare che – ferme le suesposte considerazioni – in caso di potenziale conflitto tra gli interventi di due diverse Autorità, al professionista sono comunque offerti strumenti di garanzia al fine di evitare, in concreto, duplicazioni di interventi, potendo lo stesso lamentare in sede giurisdizionale il contestuale esercizio da parte di distinte Autorità del medesimo potere sanzionatorio, che, nella fattispecie in esame, non è stato dedotto.

Deve, conseguentemente, delibarsi l’infondatezza del denunciato profilo di incompetenza dell’Autorità procedente con riferimento alla pratica sanzionata.

Le considerazioni sopra illustrate assumono rilievo anche ai fini della delibazione in ordine all’ulteriore profilo di censura con cui parte ricorrente, nel richiamare il contenuto delle disposizioni dettate dagli artt. 116 e 123 del T.U.B., afferma che, essendosi alle stesse conformata, non potrebbe esserle addebitata alcuna violazione dell’onere di diligenza professionale sulla stessa incombente.

L’art. 116 del D.Lgs. n. 385 del 1993, prevede che "Le banche e gli intermediari finanziari rendono noti in modo chiaro ai clienti i tassi di interesse, i prezzi e le altre condizioni economiche relative alle operazioni e ai servizi offerti, ivi compresi gli interessi di mora e le valute applicate per l’imputazione degli interessi. Per le operazioni di finanziamento, comunque denominate, è pubblicizzato il tasso effettivo globale medio…".

L’art. 123 del T.U.B. stabilisce che "Fermo restando quanto previsto dalla parte II, titolo III, del Codice del consumo, gli annunci pubblicitari che riportano il tasso d’interesse o altre cifre concernenti il costo del credito indicano le seguenti informazioni di base, in forma chiara, concisa e graficamente evidenziata con l’impiego di un esempio rappresentativo: a) il tasso d’interesse, specificando se fisso o variabile, e le spese comprese nel costo totale del credito; b) l’importo totale del credito; c) il TAEG…".

Lo stesso art. 123 citato, che parte ricorrente invoca al fine di comprovare l’assolvimento degli oneri di diligenza sulla stessa gravanti, fa dunque espresso rinvio alle norme del Codice del Consumo dettate dalla parte II, TITOLO III, dedicato alle pratiche commerciali, pubblicità e altre comunicazioni commerciali, costituito dagli articolo da 18 a 27 quater, disciplinanti le pratiche commerciali scorrette, le pratiche commerciali ingannevoli e le pratiche commerciali aggressive, con la conseguenza che le disposizioni recate dal T.U.B. non possono ritenersi esaustive ai fini di individuare lo standard di diligenza richiesto al professionista, il cui contenuto va pertanto individuato sia con riferimento agli obblighi previsti dalla disciplina di settore sia con riferimento a quelli imposti dal Codice del Consumo.

Il che, peraltro, avvalora quanto dianzi illustrato circa la complementarietà tra le discipline di settore e quella dettata dal Codice del Consumo, con la conseguenza che la conformità di una pratica commerciale alle prescrizioni dettate dalla disciplina di settore e l’assolvimento degli oneri di informazione e di trasparenza che ne informano la speciale disciplina, non escludono la possibilità di configurare una pratica come scorretta, non essendovi coincidenza tra l’ambito e le finalità di tutela apprestati dalla disciplina speciale di settore e quello sotteso al Codice del Consumo, il quale introduce un nuovo quadro di tutela che si aggiunge agli strumenti di tutela derivanti dall’esistenza di specifiche discipline in settori oggetto di regolazione e a quelli contrattuali.

Alla stregua degli indicati parametri normativi ed interpretativi di riferimento, va pertanto rilevato, con riferimento al caso di specie, che la condotta sanzionata è stata parametrata, quanto ai profili di rilevata scorrettezza, agli artt. 20 e 22 del Codice del Consumo, ritenendo ravvisabile la fattispecie tipica dell’omissione informativa relativamente ad indicazioni rilevanti circa le condizioni economiche dei finanziamenti reclamizzati, non indicando il messaggio pubblicitario sanzionato gli elementi essenziali da cui ricavare gli esatti costi del finanziamento, essendo il TAEG – che consente di valutare e calcolare l’esatto importo dell’intera operazione finanziaria, indicato attraverso la dizione "TAEG MIN. 7,04MAX come da normative vigenti", così non consentendo al consumatore medio di assumere una decisione consapevole di natura commerciale.

Richiamato quanto sopra illustrato circa il rapporto di complementarietà e non di alternatività rispetto al Codice del Consumo della disciplina di settore, in ragione della diversità degli interessi pubblici sottostanti, avendo le previsioni di settore lo scopo di individuare, sulla base di elementi oggettivi, lo standard di diligenza richiesto ai professionisti nelle condotte oggetto di regolazione, non può condividersi quanto affermato dalla società ricorrente circa la non imputabilità alla stessa della violazione dell’onere di diligenza professionale per essersi conformata alle disposizioni dettate dalla disciplina di settore, e ciò in quanto lo standard di diligenza delineato dalla disciplina di settore non costituisce l’unico parametro cui riferire la diligenza richiesta dal professionista ai sensi del Codice del Consumo, non mirando le previsioni di settore alla tutela specifica del consumatore ed al perseguimento delle finalità sottese al Codice del Consumo.

Deve, pertanto, ravvisarsi l’immunità dalla esaminata censura, nonché la rispondenza al quadro normativo di riferimento, dianzi illustrato, della valutazione espressa dall’Autorità in ordine alla scorrettezza della pratica commerciale sanzionata, in quanto contraria alla diligenza professionale – non essendo stato riscontrato, da parte del professionista, il rispetto del normale grado di competenza e attenzione che ragionevolmente ci si può attendere da un operatore dello specifico settore di attività con riferimento alle condizioni economiche dei finanziamenti prospettati ai consumatori – ed idonea a falsare il comportamento del consumatore medio cui è destinata in ragione della omissioni informative che la caratterizzano, non essendo forniti elementi rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno per prendere una decisione consapevole di natura commerciale.

Analoga delibazione di infondatezza va adottata con riferimento all’ulteriore censura con cui viene denunciata la genericità della contestazione contenuta nell’avviso di avvio del procedimento, con conseguente asserita limitazione alle possibilità di difesa della parte per essere state le contestazioni formulate in via ipotetica e senza riferimento ad elementi di fatto, lamentando altresì in proposito parte ricorrente la non corrispondenza tra le ipotesi contestate e gli articoli addebitati nel provvedimento sanzionatorio.

Al riguardo, osserva il Collegio che nella fase di avvio del procedimento le contestazioni non possono che rivestire natura ipotetica, in quanto riferite a condotte che debbono ancora formare oggetto di accertamento, volto proprio a verificare la sussistenza di violazioni al Codice del Consumo.

Peraltro, la comunicazione dell’avvio del procedimento interviene in una fase in cui si dà inizio all’istruttoria proprio al fine di verificare, come riferito dall’art. 6 del Regolamento sulle procedure istruttorie adottato con delibera dell’Autorità del 15 novembre 2007 n. 17589, l’eventuale esistenza di pratiche commerciali scorrette, con la conseguenza che tale comunicazione non può che riguardare gli elementi che sono in possesso, a tale fase iniziale del procedimento, della stessa Autorità, e segnatamente i contorni della condotta oggetto di indagine ed i soggetti coinvolti, potendo gli elementi costitutivi dell’illecito e le relative responsabilità essere più compiutamente definiti solo a conclusione dell’istruttoria sulla base della valutazione di tutti gli elementi di rilievo.

Ai fini della legittimità della comunicazione di avvio del procedimento e del pieno rispetto del principio del contraddittorio – che si declina nella necessità per le parti del procedimento di poter proficuamente partecipare all’istruttoria ed esercitare le proprie prerogative difensive – nella fase di avvio devono essere con precisione indicati i soli profili in cui si sostanzia la pratica commerciale oggetto di accertamento, dovendo la comunicazione di avvio contenere gli elementi essenziali utili a consentire al professionista l’individuazione della condotta oggetto di indagine con riguardo ai profili fattuali, nonchè il richiamo ai parametri normativi alla cui violazione essi siano astrattamente ascrivibili.

Non è, in sostanza, richiesto un elevato grado di dettaglio della comunicazione di avvio del procedimento, potendo, con ogni evidenza, l’analiticità delle argomentazioni riguardare solo la fase conclusiva del procedimento in quanto correlate alle risultanze della svolta istruttoria, non essendo invece concretamente pretendibile la specificazione di elementi dell’illecito che possono emergere solo in esito allo svolgimento dell’istruttoria ed alla valutazione della valenza dei relativi riscontri.

Dovendo in proposito rilevarsi che in materia di pratiche scorrette l’Autorità è chiamata, in ragione proprio della struttura dell’illecito e diversamente da quanto accade nei procedimenti intesi a reprimere la pubblicità ingannevole e comparativa, al compimento di una – spesso – complessa attività istruttoria volta alla individuazione con precisione – salvi i casi di condotte "tipizzate" elencate agli artt. 23 e 26 del Codice del Consumo- delle azioni, omissioni o dichiarazioni ritenute ingannevoli o aggressive.

Alla luce degli indicati parametri interpretativi deve dunque ritenersi che l’onere previsto dall’art. 6 del Regolamento sulle procedure istruttorie, di comunicare l’avvio dell’istruttoria indicando "l’oggetto del procedimento’, va inteso nel senso che, se non può esaurirsi nel mero richiamo delle norme di cui si ipotizza la violazione, lascia comunque impregiudicata la possibilità per l’Autorità di prospettare un ampio spettro d’indagine, atteso che, come più volte affermato dalla Sezione, solo nella fase conclusiva del procedimento ed all’esito della fase istruttoria è esigibile un elevato grado di specificazione degli elementi dell’illecito ed una maggiore analiticità delle argomentazioni, che non possono invece caratterizzare la fase di avvio, nella quale devono essere con precisione identificati i profili della condotta oggetto di indagine al fine di mettere in grado il soggetto di potere proficuamente partecipare all’istruttoria" (TAR Lazio – Roma – Sez. I – 15 giugno 2009 n. 5625; 8 settembre 2009; 4 maggio 2009 n. 4490; 12 maggio 2008, n. 3880; 13 aprile 2006, n. 2737).

Impostazione, questa, che risulta pienamente coerente con il principio di corrispondenza tra i fatti contestati e quelli sanzionati – che assume rilievo primario nei procedimenti sanzionatori – il quale si riferisce al solo quadro fattuale, e non anche alla qualificazione giuridica ed al rilievo dei fatti.

Peraltro, la comunicazione dell’avvio del procedimento interviene in una fase in cui si dà inizio all’istruttoria proprio al fine di verificare, come riferito dal citato art. 6, l’eventuale esistenza di pratiche commerciali scorrette, con la conseguenza che tale comunicazione non può che riguardare gli elementi che sono in possesso, a tale fase iniziale del procedimento, della stessa Autorità, e segnatamente i contorni della condotta oggetto di indagine ed i soggetti coinvolti, potendo gli elementi costitutivi dell’illecito e le relative responsabilità essere più compiutamente definiti solo a conclusione dell’istruttoria sulla base della valutazione di tutti gli elementi di rilievo.

Aggiungasi che il procedimento in materia di pratiche commerciali scorrette è caratterizzato da un compiuto sistema partecipativo, nel cui ambito il diritto di difesa dei soggetti coinvolti viene garantito e concretamente esercitato attraverso una pluralità di strumenti, tra cui la possibilità di presentare memorie e fornire informazioni, pienamente idonei ad assicurare la tutela dei diritti difensivi delle parti.

Avuto riguardo al concreto atteggiarsi del procedimento in esame, al fine di verificare il rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa nella portata che, alla luce delle superiori considerazioni, deve agli stessi attribuirsi, rileva il Collegio come nella comunicazione di avvio del procedimento risultino puntualmente descritti i contorni della pratica commerciale oggetto di indagine – integrata dalla diffusione di un messaggio pubblicitario, tramite volantino, allegato alla stessa comunicazione di avvio, volto a pubblicizzare l’attività della ricorrente inerente l’erogazione di finanziamenti e mutui – con indicazione dei profili di eventuale scorrettezza come parametrati alle norme di cui agli artt. 20, 21 e 22 del Codice del Consumo.

Se, dunque, la comunicazione di avvio del procedimento istruttorio appare in concreto rispondere ai requisiti di sufficienza e completezza necessari al fine di garantire l’esercizio, da parte della ricorrente, delle proprie prerogative difensive, deve ulteriormente osservarsi che nessuna valenza inficiante può attribuirsi alla circostanza che talune delle ipotesi di violazione contestate non siano successivamente confluite nel provvedimento sanzionatorio, significando tale circostanza unicamente che in ordine a tali contestazioni la svolta istruttoria non ha condotto al riscontro di profili di illiceità.

Con riferimento alla doglianza con cui parte ricorrente lamenta la mancata identificazione di almeno un soggetto indotto in errore dalla pratica commerciale, è sufficiente riportarsi al consolidato orientamento della Sezione secondo cui l’illiceità della condotta, al fine di assumere rilevanza ai sensi delle disposizioni del Codice del Consumo, non deve dimostrare una concreta attuazione pregiudizievole per le ragioni dei consumatori, quanto, piuttosto, una potenzialità lesiva per le scelte che questi ultimi devono poter porre in essere fuori da condizionamenti o orientamenti decettivi.

Il che consente di ascrivere la condotta nel quadro dell’illecito non già di danno, ma di mero pericolo in quanto riferito a condotte intrinsecamente idonee a condurre alle conseguenze che la disciplina di legge ha inteso, invece, scongiurare (ex plurimis: TAR Lazio – Roma – Sez. – I – 8 aprile 2009 n. 3722; 8 settembre 2009 n. 8399 e n. 8394).

Gli effetti della condotta, si pongono, in definitiva, al di fuori della struttura dell’illecito, atteso che la normativa in materia non ha la mera funzione di assicurare una reazione alle lesioni arrecate dalle pratiche scorrette agli interessi patrimoniali del consumatore, ma si colloca su un più avanzato fronte di prevenzione, essendo tesa ad evitare effetti dannosi anche soltanto ipotetici.

Con la conseguenza che gli effetti della condotta possono, semmai, assumere significatività quale elemento aggravante, laddove il comportamento ascrivibile all’operatore abbia avuto diffuse ricadute pregiudizievoli nell’ambito dei consumatori, essendo da tale circostanza desumibile con ogni evidenza la grave inadeguatezza del comportamento posto in essere da quest’ultimo a fronte del paradigma di diligenza cha la normativa di riferimento ha posto quale essenziale parametro di valutabilità della condotta.

Per la configurazione dell’illecito non è pertanto necessaria – contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente – l’identificazione dei soggetti indotti in errore, non dovendo l’Autorità analizzare e basare il proprio giudizio sugli effetti prodotti dalla pratica commerciale, essendo invece sufficiente che, sulla base di un giudizio prognostico, la stessa sia ritenuta idonea ad incidere potenzialmente sulle scelte dei consumatori (ex plurimis: TAR Lazio – Roma – Sez. I – 21 settembre 2009 n. 9083).

Alla luce degli illustrati paradigmi interpretativi, come parametrati alla disciplina di riferimento ed alle finalità alla stessa sottese, le valutazioni espresse dall’Autorità con riferimento alla condotta sanzionata appaiono, quindi, immuni dai denunciati vizi, essendo stata correttamente ravvisata la scorrettezza della pratica commerciale in ragione delle omissioni informative circa elementi essenziali da cui ricavare gli esatti costi del finanziamento.

Quanto alla dedotta mancata valutazione complessiva del messaggio pubblicitario, avendo l’Autorità omesso di considerare che lo stesso conteneva un’avvertenza circa la possibilità di ottenere tutte le necessarie informazioni presso la sede della società, deve il Collegio riportarsi al consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale nessuna portata sanante può annettersi alle informazioni rese al di fuori del contesto pubblicitario contestato, essendo irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie illecita, la possibilità che informazioni più dettagliate siano fornite o rese comunque disponibili in un contesto diverso o in una fase successiva a quella in cui la condotta si realizza, dovendo la correttezza della stessa essere verificata nell’ambito dello stesso contesto di comunicazione in cui la pratica commerciale oggetto di indagine viene integrata, e non già sulla base di ulteriori informazioni caratterizzanti diverse condotte o sulla base di informazioni che il professionista renda disponibili a contatto già avvenuto (ex plurimis: TAR Lazio – Roma – Sez. I – 20 settembre 2010 n. 32371; 24 giugno 2010 n. 20910; 21 luglio 2010 n. 27458; 3 marzo 2010, n. 3287; 8 settembre 2009 n. 8395, n. 9743 del 2009; 14 settembre 2009, n. 8670; n. 276 del 2008).

Se, difatti, il messaggio promozionale risulta idoneo, nella sua decettività, ad agganciare il consumatore, tale risultato costituisce, in definitiva, lo scopo del messaggio stesso, cui il Codice del Consumo appresta forme di reazione, ininfluente essendo la possibilità per i consumatori di ottenere ulteriori dettagli informativi non contestuali al messaggio promozionale, che non valgono a sanare profili di omissione informativa circa la reale consistenza dell’offerta.

Scopo della disciplina dettata a tutela del consumatore è, difatti, quello di salvaguardare la libertà di autodeterminazione del consumatore sin dal primo contatto pubblicitario, imponendo al professionista un particolare onere di chiarezza nella propria strategia comunicativa.

L’ingannevolezza del messaggio non è, quindi, esclusa dalla possibilità che il consumatore sia posto in condizione, prima della stipula del contratto – come affermato da parte ricorrente – di conoscere tutti i dettagli dell’offerta reclamizzata, in quanto la verifica dell’Autorità riguarda il messaggio pubblicitario in sé, e pertanto la sua intrinseca idoneità a condizionare le scelte dei consumatori, indipendentemente dalle informazioni che il professionista renda disponibili a "contatto" già avvenuto, e quindi ad effetto promozionale ormai prodotto.

Coerentemente, quindi, con la struttura dell’illecito e con le finalità degli strumenti di tutela apprestati dall’ordinamento, la verifica di ingannevolezza di un messaggio va condotta con riferimento al messaggio pubblicitario in sé e per sé considerato, sulla base di una valutazione da effettuarsi ex ante con esclusivo riferimento alla portata dello stesso, e quindi alla sua idoneità a condizionare le scelte dei destinatari, indipendentemente dalle informazioni che il professionista renda disponibili successivamente alla produzione dell’effetto promozionale, dovendo l’informazione pubblicitaria essere completa e non ingannevole ex se considerata, sulla base del principio della c.d. autosufficienza informativa.

Costituendo il contatto del destinatario del messaggio con il professionista il raggiungimento del risultato che il messaggio carente di informazioni essenziali si prefigge, così consumandosi la scorrettezza dello stesso, il pregiudizio del comportamento economico del consumatore derivante da una condotta scorretta non viene, dunque, escluso dalla possibilità per questi di ottenere esaustive informazioni in un momento successivo a quello in cui si è perfezionato il contatto ai fini della conclusione dell’operazione commerciale, essendo la ratio della specifica normativa la protezione dei destinatari dei messaggi al fine di evitare che siano indotti al contatto con l’operatore commerciale sulla base di una pubblicità che non li informa, in termini di chiarezza, completezza e correttezza, compatibilmente con la natura del messaggio, della reale portata di quello reclamizzato.

L’irrilevanza della circostanza che i caratteri di completezza e chiarezza dell’informazione siano integrati in una fase successiva a quella della diffusione del messaggio rende, dunque, conto delle ragioni dell’infondatezza della esaminata censura.

Quanto all’ulteriore profilo di censura con cui parte ricorrente lamenta la mancata valutazione dell’incidenza dell’elemento psicologico nella realizzazione della fattispecie, essendosi asseritamente attenuta alle disposizioni settoriali vigenti, osserva il Collegio che l’avvenuto riscontro, da parte dell’Autorità, della violazione dello specifico onere di diligenza incombente sulla ricorrente consente l’imputazione alla stessa della responsabilità a titolo di colpa, non essendo necessaria alcuna ulteriore indagine o motivazione quanto all’elemento psicologico dell’illecito.

Delibate, alla luce delle considerazioni sin qui illustrate, l’infondatezza delle censure articolate da parte ricorrente, rivolte avverso profili procedimentali ed avverso le valutazioni espresse dall’Autorità in ordine alla scorrettezza della condotta sanzionata, residuano all’esame del Collegio le doglianze volte a censurare la quantificazione della sanzione irrogata alla ricorrente.

Giova in proposito ricordare, prima di procedere alla disamina di tali censure, che il gravato provvedimento ha irrogato alla società ricorrente la sanzione pecuniaria amministrativa di euro 41.000 alla luce, innanzitutto, del giudizio di gravità della condotta, formulato sulla base della tipologia delle omissioni informative riscontrate e al settore al quale l’offerta si riferisce, rispetto al quale l’obbligo di completezza e chiarezza delle informazioni veicolate è stato ritenuto particolarmente stringente anche in ragione dell’asimmetria informativa in cui versano i consumatori rispetto agli operatori e della debolezza dei destinatari, che presumibilmente versano in una situazione di particolare debolezza psicologica dovuta alle proprie condizioni economiche.

La gravità della condotta è stata altresì parametrata all’entità del pregiudizio potenziale per i consumatori.

Trattasi di valutazioni che pienamente danno conto dell’iter logico seguito dall’Autorità, che invero non risulta affetto da profili di erroneità o irragionevolezza, venendo in rilievo una tipologia di omissione informativa in un settore, quello dell’erogazione di finanziamenti e mutui, in cui deve essere assicurata la completezza informativa proprio in ragione dei profili evidenziati dall’Autorità.

Ritiene invece il Collegio che debba delibarsi la fondatezza delle censure con cui parte ricorrente lamenta l’illegittimità della quantificazione della sanzione in ragione della mancata valutazione delle condizioni economiche del soggetto sanzionato e della limitata diffusione territoriale del messaggio.

Ed infatti l’Autorità ha commisurato la sanzione irrogata al giudizio di gravità della condotta – come sopra riferito – ed alla durata di circa un mese della violazione, risultando il messaggio pubblicitario essere stato diffuso nel mese di marzo 2009.

Nessuna valutazione è stata, invece, condotta dall’Autorità con riferimento alla dimensione economica del professionista ed alla diffusione del messaggio.

Ciò in contrasto con i criteri di quantificazione della sanzione, come stabiliti dal quadro normativo di riferimento.

Ed infatti, l’art. 27, comma 9, del D.Lgs. n. 206 del 2005 prevede che, con il provvedimento che vieta la pratica commerciale scorretta, l’Autorità dispone l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 500.000 euro, tenuto conto, in quanto applicabili, dei criteri individuati dall’articolo 11 della legge n. 689 del 1981, richiamato dal comma 13 del citato articolo, ed in particolare, della gravità della violazione, dell’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione, della personalità dell’agente, nonché delle condizioni economiche dell’impresa stessa.

Orbene, la valutazione in ordine alla gravità della condotta transita anche attraverso la considerazione della sua offensività, intesa quale potenzialità lesiva degli interessi dei consumatori cui la normativa accorda protezione, con la conseguenza che non può omettersi, nella determinazione della sanzione, l’adeguata considerazione della diffusione del messaggio sanzionato che, nella fattispecie in esame, è stato veicolato attraverso un volantino distribuito nel territorio del Comune di Firenze, ove la società ricorrente ha la propria sede.

Ne consegue che la limitata diffusione territoriale del messaggio avrebbe dovuto costituire uno dei parametri cui commisurare la sanzione da irrogare per l’accertata violazione al Codice del Consumo integrata dal messaggio sanzionato, la cui valutazione risulta invece essere stata omessa.

Ancora, nessuna considerazione, ai fini della quantificazione della sanzione, è stata dall’Autorità tributata alle condizioni economiche della ricorrente.

Al riguardo, occorre ricordare che ai sensi del richiamato articolo 11 della legge n. 689 del 1981, deve aversi riguardo, per la determinazione della sanzione, anche alle condizioni economiche del professionista, la cui valutazione risponde a due diverse finalità in quanto volta, da un lato, a garantire l’effettiva efficacia deterrente della sanzione pecuniaria secondo criteri di proporzionalità ed adeguatezza e, dall’altro, concorre a delineare la gravità della condotta nella considerazione che la dimensione economica del professionista e la sua posizione nel mercato possono rendere più efficace la comunicazione pubblicitaria aggravandone la valenza lesiva.

Ciò coerentemente con il rilievo da attribuire alla dimensione economica del professionista al fine del rispetto del principio di proporzionalità della sanzione, che costituisce peraltro corollario di quello di ragionevolezza e di parità di trattamento, aventi rango costituzionale fondamentale.

Il principio di proporzionalità, che investe lo stesso fondamento dei provvedimenti limitativi delle sfere giuridiche del cittadino (in specie quelle di ordine fondamentale) e non solo la graduazione della sanzione, assume nell’ordinamento interno lo stesso significato che ha nell’ordinamento comunitario, come confermato dalla clausola di formale recezione ex art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990 come novellato dalla legge n. 15 del 2005.

Tale principio, si articola nei distinti profili inerenti l’idoneità, ovvero il rapporto tra il mezzo adoperato e l’obiettivo perseguito, risultando in virtù di tale parametro legittimo l’esercizio del potere se la soluzione adottata consenta di raggiungere l’obiettivo; la necessarietà, ovvero l’assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo ma tale da incidere in misura minore sulla sfera del singolo, dovendo in virtù di tale parametro la scelta tra tutti i mezzi astrattamente idonei cadere su quella che comporti il minor sacrificio; l’adeguatezza, ovvero la tollerabilità della restrizione per il privato, risultando, in virtù di tale parametro, legittimo l’esercizio del potere, pur idoneo e necessario, solo se rispecchia una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi.

La coerente e corretta applicazione di tali parametri non può, quindi, prescindere dalla valutazione della dimensione economica del professionista al fine di garantire l’adeguatezza e proporzionalità della sanzione che, nella fattispecie in esame non è stata affatto valutata pur essendo stati richiesti alla ricorrente, in fase di avvio del procedimento, copia dell’ultimo bilancio approvato o idonea documentazione fiscale da cui risultino i risultati economici relativi all’esercizio 2009.

Peraltro da tale omessa valutazione, non avendo parte ricorrente allegato alcun elemento inerente la propria condizione economica, non può derivare alcuna incidenza in senso riduttivo della sanzione comminata, stante la mancanza di idonee e comprovate deduzioni al riguardo.

Non meritano, invece, condivisione, le argomentazioni di parte ricorrente poste a sostegno della denunciata irragionevolezza della sanzione irrogata come parametrata al raffronto con le sanzioni applicate in altri procedimenti a soggetti diversi, dovendo ribadirsi, in proposito, il costante orientamento della Sezione, reso nel senso della autonomia che connota ogni accertamento circa l’esistenza di profili di scorrettezza di pratiche commerciali ascritte a diversi soggetti e della preclusione alla verifica di ipotesi di disparità di trattamento in materia di sanzioni amministrative, il quale postula l’identità o quantomeno la totale assimilabilità delle situazioni che, oltre a non essere stata provata in concreto, appare in linea generale difficilmente configurabile.

Consegue, quindi, alla luce di tutto quanto sopra illustrato, l’accoglimento del ricorso limitatamente agli indicati profili inerenti la mancata considerazione, da parte dell’Autorità, in sede di quantificazione della sanzione, della diffusione territorialmente limitata della condotta sanzionata e delle condizioni economiche del professionista, che, viziando la gravata delibera, ne determina l’annullamento in parte qua, per l’effetto procedendo il Collegio alla rideterminazione della sanzione applicata alla società ricorrente, ai sensi dell’art. 134, comma 1, lettera c), del codice del processo amministrativo – che attribuisce al giudice la giurisdizione estesa al merito – mediante sua riduzione del 20% e rideterminata nella misura corrispondente, ritenuta equa e proporzionata rispetto alla evidenziata ridotta diffusione territoriale della condotta, di cui l’Autorità non ha tenuto conto, esclusa essendo ogni possibilità di ulteriore riduzione della stessa in ragione delle condizioni economiche della ricorrente in quanto non documentate.

Sussistono giusti motivi, in ragione del parziale accoglimento del ricorso, per disporre la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso N. 1897/2010 R.G., come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, rideterminando la sanzione nella misura ivi prevista.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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