Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 01-02-2011) 23-03-2011, n. 11526

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 28.4.04 il Tribunale di Torre Annunziata condannava C.N. alla complessiva pena di anni 9 di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa per concorso in plurime tentate estorsioni e in un’estorsione consumata, molte delle quali contestate con l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

Con sentenza 5.2.10 la Corte d’Appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia di prime cure, assolveva il C. dalla tentata estorsione di cui al capo C) del decreto che dispone il giudizio relativo al proc. n. 602/94 R.G. G.I.P., per l’effetto rideterminando la pena in complessivi anni 7 di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa, con conferma nel resto.

Tramite i propri difensori il C. ricorreva contro la sentenza, di cui chiedeva l’annullamento per i motivi qui di seguito concentrati e riassunti nei limiti prescritti dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a) vizio di motivazione perchè i giudici del gravame, nel motivare per relationem mediante rinvio alla pronuncia di primo grado, si erano sottratti all’obbligo di rispondere alle doglianze mosse nell’atto d’appello e avevano ribadito il concorso del ricorrente negli episodi estorsivi de quibus sol perchè i relativi autori materiali ne avevano speso il nome a scopo intimidatorio; a riguardo si lamentava nell’atto di impugnazione che la Corte territoriale, pur in difetto di indizi provvisti dei requisiti dell’art. 192 c.p.p., comma 2, aveva statuito che il ricorrente non poteva non sapere quel che si andava facendo a suo nome, desumendo tale consapevolezza e la sua cointeressenza nelle attività illecite dal rilievo che i presunti correi frequentavano l’abitazione del C. – all’epoca dei fatti latitante – e che tale spendita della sua autorità non poteva essere frutto di millanteria, pena grave vulnus al prestigio della consorteria criminale; obiettava, invece, il ricorrente che il suo nome era stato arbitrariamente utilizzato dagli autori materiali delle condotte estorsive approfittando del rapporto di parentela che lo legava ad alcuni di essi, contando costoro sul fatto che la latitanza gli avrebbe impedito di controllare le attività delinquenziali svolte sul territorio;

b) violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 4 perchè, malgrado l’assoluzione del C. da uno dei reati per cui aveva riportato condanna in primo grado, la Corte partenopea aveva ridotto solo la pena detentiva e non anche quella pecuniaria, confermata in Euro 1.200,00 di multa.

1- Il ricorso è inammissibile perchè manifestamente infondato.

In ordine al motivo che precede sub a), si premetta che la motivazione per relationem è perfettamente consentita allorquando – come avvenuto nel caso di specie – svolga una funzione integrativa di un provvedimento già conosciuto o conoscibile dalla parte (nella specie, la sentenza di primo grado: cfr. Cass. Sez. 5^ n. 11191 del 12.2.2002, dep. 19.3.2002), inserendosi in un contesto che disattende i motivi di gravame con un richiamo ad accertamenti e ad argomenti contenuti nella statuizione di prime cure; si aggiunga che nella fattispecie si è in presenza di una doppia pronuncia di merito conforme (riguardo ai reati per cui è stata ribadita la penale responsabilità dell’imputato), sicchè le motivazioni delle due pronunce vanno ad integrarsi reciprocamente, saldandosi in un unico complesso argomentativo (cfr. Cass. Sez. 2^ n. 5606 del 10.1.2007, dep. 8.2.2007; Cass. Sez. 1^ n. 8868 del 26.6.2000, dep. 8.8.2000, e numerosissime altre).

Nè è necessario che il giudice d’appello adotti argomenti nuovi nel condividere le statuizioni di primo grado.

E’ pur vero che la motivazione per relationem non è consentita ove finalizzata ad eludere l’obbligo di rispondere alle doglianze sollevate nell’atto d’appello, ma nel caso di specie deve darsi atto che – contrariamente a quanto sostenuto dall’odierno ricorrente – la Corte territoriale ha analiticamente argomentato il rigetto delle doglianze del C..

Per il resto, le censure si collocano al di fuori del novero di quelle spendibili ex art. 606 c.p.p., in quanto inerenti alla valutazione operata in punto di fatto dai giudici del merito con motivazione esauriente, logica e scevra da contraddizioni.

Essi hanno dedotto il concorso morale del C. da un quadro indiziario costituito da un argomento logico e da due circostanze fattuali: l’uno risiede nell’oggettiva non plausibilità del millantare il mandato di un capo-clan mafioso, all’epoca latitante, perchè ciò avrebbe pregiudicato la credibilità stessa dell’associazione e gli equilibri criminali della zona, irragionevole essendo un abuso della sua "autorevolezza" proprio nel territorio di riferimento; le altre consistono nel perdurare della frequentazione della casa del C. da parte dei correi e nella parentela di due di essi con il ricorrente (sulla potenziale rilevanza indiziaria dei rapporti di parentela all’interno di associazioni per delinquere di tipo mafioso v., ad es., Cass. Sez. 6^ n. 3089 del 21.5.98, dep. 8.3.99).

In breve, i giudici d’appello hanno correttamente applicato indizi gravi, precisi e concordanti, conformemente alla regola valutativa dell’art. 192 c.p.p., comma 2. 2- Il motivo che precede sub b) è infondato perchè, come questa S.C. ha già avuto modo di statuire, non viola il divieto di reformatio in peius la sentenza d’appello che, escluso uno dei reati, per quelli residui riduca la pena detentiva inflitta in primo grado ed aumenti quella pecuniaria, sempre che, operato il ragguaglio di quest’ultima ai sensi dell’art. 135 c.p., l’entità finale della pena non risulti superiore a quella complessivamente irrogata in prime cure (v. Cass. Sez. 6^ n. 2936 del 16.12.09, dep. 22.1.2010): a maggior ragione valga tale principio ove, come accaduto nel caso di specie, la pena pecuniaria resti invariata.

3- All’inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente alle spese processuali e al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma che stimasi equo quantificare in Euro 1.000,00 alla luce dei profili di colpa ravvisati nell’impugnazione, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000.
P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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