Cass. civ. Sez. I, Sent., 09-06-2011, n. 12625 Contratti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Cavecon Cave e Conglomerati s.r.l. ottenne nei confronti del Comune di Ginosa decreto ingiuntivo per il pagamento di L. 463.439.550 in corrispettivo di un appalto pubblico.

Il Comune propose opposizione con citazione del 27 gennaio 1994, osservando che la società aveva presentato uno stato di avanzamento lavori per L. 481.857.653, a fronte del quale era stato emesso mandato di pagamento per L. 389.445.200, tempestivamente corretto, però, dal dirigente dell’ufficio tecnico comunale, il quale certificò che, per i lavori eseguiti come da contratto, il credito ammontava invece a sole L. 68.517.708, importo poi riconosciuto con delibera di Giunta e confermato con l’atto di opposizione.

La società resistette e il Tribunale di Taranto respinse l’opposizione.

La sentenza di primo grado fu appellata dal Comune sul rilievo che lo stato di avanzamento in base al quale era stato emesso il decreto ingiuntivo non era vincolante per il Comune, trattandosi di atto sottoscritto dal solo direttore dei lavori, privo di poteri di rappresentanza negoziale dell’ente.

La società resistette al gravame e la Corte d’appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto, lo respinse, osservando che invece il direttore dei lavori svolge una pubblica funzione certificatoria dei lavori stessi in nome e per conto dell’ente appaltante. Peraltro – aggiunse – il dirigente dell’ufficio tecnico aveva autorizzato il pagamento di sole L. 68.517.708 non perchè avesse contestato o denunciato vizi dei lavori, tali da ridurne il costo, ma solo perchè quella somma rappresentava – testualmente – la "1^ rata di acconto dei lavori stessi, liquidabili in base alle previsioni del progetto originario", e tale era sostanzialmente il senso anche della successiva delibera di Giunta; onde era ingiustificata la riduzione della somma riconosciuta dal direttore dei lavori nello stato di avanzamento, liquidata a seguito della verifica della corretta esecuzione delle opere previste nel contratto, non contestata con l’atto di opposizione al decreto ingiuntivo.

Il Comune di Ginosa ha quindi proposto ricorso per cassazione, cui la società intimata ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione

1. – Il ricorso è articolato in quattro motivi.

1.1. – Con il primo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, si ribadisce che nell’appalto pubblico il direttore dei lavori è privo di poteri di rappresentanza negoziale della stazione appaltante e le sue competenze incontrano il limite invalicabile del rispetto del progetto e del contratto.

1.2. – Con il secondo motivo, denunciando vizio di motivazione e violazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 342, si lamenta che i giudici di appello abbiano ignorato il fatto che la delibera di Giunta aveva ridotto il credito a L. 68.517.708 in quanto la somma restante si riferiva a lavori non previsti nel contratto ed eseguiti senza l’approvazione dell’organo competente prescritta dall’art. 342 cit..

1.3. – Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione, si osserva che, anche ad ammettere che le opere in variante fossero state debitamente autorizzate, comunque non erano dovuti gli interessi ai sensi degli artt. 35 e 36 del capitolato generale delle opere pubbliche approvato con D.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, i quali si riferiscono al solo pagamento del prezzo contrattuale.

1.4. – Con il quarto motivo, denunciando difetto di motivazione, si lamenta che i giudici di merito non abbiano considerato che, essendo la somma ingiunta comprensiva di IVA, gli interessi sul relativo importo avrebbero potuto essere conteggiati soltanto previa dimostrazione dell’avvenuto pagamento dell’imposta.

2.1. – Va osservato che l’accertamento del credito della Cavecon è basato, nella sentenza impugnata, su due autonome rationes decidendi, ossia che (a) lo stato di avanzamento sottoscritto dal direttore dei lavori era vincolante per il Comune e, comunque, che (b) sia il direttore dell’ufficio tecnico sia la Giunta comunale, nel ridurre a L. 68.517.708 la somma dovuta, non avevano contestato i lavori, ma avevano solo affermato che quello era l’importo liquidabile della prima rata in acconto in base alle previsioni del progetto originario.

La seconda ratio viene censurata, con il secondo motivo, mediante la inammissibile deduzione di un fatto nuovo, ossia che l’importo eccedente L. 68.517.708 era relativo a lavori non compresi nel contratto e non approvati: di tale circostanza, infatti, la sentenza non parla, nè il ricorrente indica – come invece era suo onere in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – in quale atto del giudizio di merito l’avesse dedotta.

Ciò comporta l’inammissibilità non solo del secondo, ma anche del primo motivo di ricorso, con cui viene censurata la prima delle due rationes decidendi sopra indicate, dato che quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome rationes decidendi, ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perchè possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite rationes, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate; ne consegue che, rigettato o dichiarato inammissibile il motivo che investe una delle riferite argomentazioni a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta (giurisp. consolidata: cfr., da ult., Cass. 23931/2007, 12372/2006, 5493/2001).

2.2. – Anche il terzo e il quarto motivo di ricorso sono inammissibili perchè nuovi. Le questioni da essi poste, infatti, avrebbero dovuto essere sollevate con l’atto di appello, ma, ancora una volta, ciò non risulta nè dal ricorso nè dalla sentenza impugnata.

2.3. – Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese processuali, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali, liquidate in Euro 3.200,00, di cui 3.000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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