T.A.R. Lazio Roma Sez. I ter, Sent., 21-03-2011, n. 2441

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I)- Il ricorrente, già agente scelto della P.S., è stato penalmente perseguito:

A) in esito a denuncia sporta dal sig. P.P.: per il reato di cui all’art.640 del c.p., perché procurava a sè ingiusto profitto con corrispondente danno per P.P. presso il quale acquistava un’autovettura pagando con una cambiale (rimasta poi insoluta), traendo in errore la persona offesa circa la bontà del mezzo di pagamento (approfittando della pregressa amicizia esistente tra i due nonché del fatto che la persona offesa ne conosceva la qualifica di agente della P.S.), sia, infine, ripetutamente assicurando che la cambiale sarebbe stata onorata;

B) in esito a denuncia sporta da funzionario di una compagnia assicurativa: 1) per il reato di cui agli artt. 81, 110, 56640, 61 nr. 8 del c.p., per aver tentato di truffare quattro compagnie assicurative stipulando con le stesse separati contratti di assicurazione contro il rischio di furto della propria autovettura ed omettendo di riferire, a ciascuna compagnia, l’avvenuta conclusione di identico contratto con le altre; e per aver chiesto a ciascuna compagnia assicurativa il rimborso del danno patito dal furto della propria autovettura, presentando separate denunce di furto in ognuna delle quali aveva variato l’indicazione della società assicuratrice così falsificandola. Tentativo aggravato mediante spedizione – a mezzo di avvocato di sua conoscenza – di una lettera, separatamente indirizzata a ciascuna compagnia, con cui veniva minacciata azione giudiziaria in caso di mancato amichevole composizione della controversia; 2) per il reato di cui agli artt.110, 478 commi 1 e 2 e 482, 61 c.p., perché – dopo aver presentato denuncia di furto dell’autovettura, indicando nel relativo verbale come compagnia assicuratrice la V.A. – formava copie dello stesso in cui, rispettivamente, indicava una delle altre compagnie assicurative con cui aveva stipulato il contratto di furto e, quindi, ne rilasciava copie presso le stesse compagnie.

In esito alle predette denunce, l’ E. è stato condannato alla pena di mesi sei di reclusione per il reato descritto alla lettera B, punto 1), con sentenza del Tribunale penale di Firenze del 14/10/2002 (confermata in appello e, passata in giudicato, una volta dichiarato inammissibile il ricorso in Cassazione proposto dall’interessato avverso la decisione d’appello); mentre è stato assolto per i reati di cui alla lett. A (per remissione della querela) e alla lett. B) p.to 2 perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Nelle more, per i fatti relativi all’assoluzione in sede penale, l’amministrazione procedeva alla loro valutazione in sede disciplinare sanzionando le relative condotte con decreto di destituzione, datato 12/6/2003, a decorrere dal 12/5/2000: provvedimento questo che, su ricorso dell’interessato, veniva annullato da questa Sezione con sentenza nr.1003/2009 per violazione dell’art.11 del d.P.R. n.737 del 1981, con salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione.

Quest’ultima, pertanto, provvedeva:

a) a rinnovare, ai sensi dell’art.119 del d.P.R. nr. 3 del 1957, il procedimento disciplinare annullato pervenendo, in data 9/11/2009, all’adozione di un nuovo provvedimento di destituzione relativo ai fatti di cui al giudicato di assoluzione in sede penale;

b) ad avviare un nuovo procedimento disciplinare in relazione ai fatti di cui alla sentenza penale di condanna che si concludeva con ulteriore provvedimento di destituzione datato 22.3.2010.

Tali decreti del Capo della Polizia (del 9.11.2009 e del 22.3.2010) sono stati, separatamente, impugnati con i ricorsi in epigrafe. Nel secondo degli stessi, in particolare, l’E., tra i vari mezzi di gravame, ha dedotto il mancato rispetto del termine entro cui il procedimento disciplinare deve concludersi: censura, questa, condivisa dall’amministrazione che con atto del 13.9.2010, ha annullato, nell’esercizio del proprio potere di autotutela, il decreto del 22.3.2010 dichiarando estinto per perenzione il relativo procedimento disciplinare.

L’amministrazione dell’Interno si è costituita in giudizio, tramite il Pubblico Patrocinio, in relazione ad entrambi i ricorsi.

All’udienza del 13.1.2011 la causa è stata trattenuta per la relativa decisione.

II)- Sussistono evidenti ragioni di connessione che consentono la riunione dei gravami in epigrafe al fine della loro unitaria trattazione e definizione.

II.1)- Alla luce degli accadimenti descritti in narrativa, va, poi, dichiarata, ai sensi dell’art.34 c.5 del C.p.a., la cessazione della materia del contendere in ordine al ricorso avente ad oggetto l’impugnativa del decreto del 22.3.2010: decreto che nel corso del giudizio e prima del passaggio della causa in decisione è stato auto annullato dalla p.a. con – in parte qua – pieno soddisfacimento della pretesa del ricorrente.

III)- Residua, dunque, da trattare e definire il primo dei ricorsi in epigrafe; e cioè quello mirato ad aggredire il provvedimento in forza del quale il dipendente è stato destituito dal servizio con decorrenza 12.5.2000.

III.1)- Con la prima censura, parte ricorrente deduce la violazione, ex art.119 d.P.R. nr.3/1957, del termine perentorio di giorni trenta per la rinnovazione del procedimento disciplinare:termine decorrente dalla data in cui è pervenuta al Ministero soccombente la comunicazione della decisione n.1003/2009 di questa Sezione annullatoria del primo provvedimento destitutorio del 12.6.2003.

La censura è formulata sulla base di una ricostruzione ipotetica. Assume, difatti, il ricorrente che, poiché copia conforme della decisione di cui trattasi è stata trasmessa all’Amministrazione il 3.2.2009, anche a voler ipotizzare che la stessa ne abbia avuta conoscenza dopo sette giorni (e cioè il 10.2.2009), comunque il procedimento disciplinare (rinnovatosi con la notifica della contestazione degli addebiti il 21.3.2009) sarebbe stato avviato fuori termine.

Per eliminare ogni dubbio la Sezione, aderendo ad apposita richiesta dell’interessato, ha onerato l’amministrazione di fornire un "documentato chiarimento su quale sia stata la data in cui….ha ricevuto la decisione Tar Lazio nr.1003/2009" (così ord. cautelare nr.535/2010 del 27.5.2010).

La p.a. ha trasmesso, in ottemperanza a detto incombente, copia della sentenza munita, nella prima pagina, del timbro di arrivo (20.2.2009) presso la Segreteria del Dipartimento della P.S., con ciò documentando il rispetto del termine di giorni 30 che parte attrice assume violato.

Il ricorrente ha quindi replicato (con memoria di recente depositata) che tale data non coincide con quella in cui la decisione è giunta all’ufficio Posta del Ministero, dove "sicuramente vi è pervenuta dopo pochissimi giorni dall’invio della stessa, così che in ogni caso il termine per la rinnovazione del procedimento disciplinare risulta violato".

La censura rivela, in tal modo, la ricostruzione ipotetica su cui si fonda e non può essere condivisa.

L’art. 119 del t.u. n. 3/1957, nei casi di annullamento della sanzione disciplinare in accoglimento di ricorso in sede giurisdizionale, assume a riferimento quale momento iniziale per il decorso del termine di trenta giorni per la rinnovazione del procedimento disciplinare la "data in cui sia pervenuta al Ministero la comunicazione della decisione giurisdizionale ai sensi…… ". Il procedimento di comunicazione della decisione assunta in sede giurisdizionale si perfeziona, quindi, con il ricevimento dell’atto da parte del "Ministero", che per specifico dettato della norma è individuato quale organo esterno cui va partecipata la sentenza di annullamento. Assume, quindi, rilievo ai fini di cui trattasi il momento in cui la sentenza perviene all’ ufficio del Ministero deputato a ricevere la corrispondenza esterna, indipendentemente da ogni ulteriore assetto organizzativo interno rilevante ai fini dell’individuazione dell’Ufficio competente a trattare la questione.

Ma se tanto è vero – (e dunque se le successive attività di smistamento dell’atto all’ufficio competente alla trattazione e di assunzione a protocollo configurano fasi organizzative interne che nulla hanno a che vedere con gli adempimenti necessari a stabilire il momento giuridicamente rilevante ai fini del perfezionamento della comunicazione dell’atto) – è altresì vero che il ricorrente, che ha eccepito la tardività della rinnovazione, si è sottratto all’onere di darne riscontro probatorio. Se esiste, come appare logico ritenere, un Ufficio ministeriale abilitato a ricevere la posta ordinaria torna ovvio che il personale a tale Ufficio addetto sia abilitato a ricevere le notificazioni (apponendovi, ai fini della relata, la connessa sottoscrizione), ovvero, nei casi di plico raccomandato, a sottoscrivere la cartolina di ricevimento, ovvero, ancora, in caso di comunicazione senza racc. A/R, a prendere formale nota della ricezione dell’atto. E rebus sic stantibus tale conoscenza (utile ai fin del decorso del termine perentorio di cui trattasi) deve essere provata in modo certo ed inequivocabile da parte di chi eccepisce la tardività del procedimento rinnovatorio ed il relativo onere non può ritenersi adempiuto sulla base della prospettazione di mere presunzioni che non assurgono a dignità di prova.

III.2)- Può scrutinarsi ora il terzo mezzo di gravame; e tanto solo per ragioni di comodità espositiva atteso che anche tale censura attiene a violazione di un termine di natura perentoria; e cioè quello riguardante la conclusione, ex art.9 della legge n.19 del 1990, del procedimento disciplinare: termine che si prospetta violato in quanto tra la data di notificazione della contestazione degli addebiti e la data di notificazione del provvedimento destitutorio (01.12.2009) sono trascorsi più di 270 giorni.

La censura è infondata in quanto contraddetta da pacifica e condivisibile giurisprudenza (cfr., ex plurimis, Cons. St., nr.6110 del 2010) che ritiene rispettato il termine de quo con la mera adozione del provvedimento sanzionatorio finale, non dovendosi ritenere necessaria la comunicazione o notificazione dello stesso, che attiene semplicemente al piano dell’efficacia, e non a quello del perfezionamento. Ora poiché il decreto impugnato è del 09.11.2009 e parte ricorrente non ha provato che l’amministrazione abbia avuta conoscenza della sentenza di questa Sezione prima del 20.2.2009, ne segue il rispetto del termine complessivo di giorni 270 che parte ricorrente, infondatamente, assume violato.

III.3) – La seconda, la quarta e la quinta delle censure declinate in gravame presentano un comune denominatore che ne consente la congiunta trattazione.

Il ricorrente assume che gli sono stati contestati due comportamenti: l’uno relativo alla condotta assunta nei confronti del sig. P.P. (comportamento penalmente non sanzionato per mancanza di una condizione di procedibilità: intervenuta remissione della querela); l’altro riguardante la falsificazione della denuncia di furto della propria autovettura (condotta anche questa non sanzionata penalmente). Ciò significa che una fattispecie penalmente unitaria (la tentata truffa) è stata scissa generando due procedimenti disciplinari: l’uno che ha preso in considerazione la predisposizione materiale delle denunce false al fine di un loro illecito utilizzo; e l’altro procedimento (che, al tempo di produzione del gravame, era ancora pendente e, in seguito, è culminato nel decreto destitutorio del 22.3.2010 poi autoannullato dalla p.a. ed impugnato col secondo dei ricorsi in epigrafe) concernente la tentata truffa rispetto alla quale, però, la falsificazione della denuncia viene a tradursi in quegli artifizi e raggiri costituenti elemento integrativo di tale fattispecie criminosa.

Tale condotta, ad avviso del ricorrente:

– viola l’art.653 c. 1 bis del c.p.p. a mente del quale "La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso";

– viola il giudicato formatosi sulla sent. n.1003/2009 di questo Tribunale che ha annullato il primo provvedimento destitutorio (del 2003) a causa della contemporanea pendenza di procedimento penale, così ritenendo, sostiene il ricorrente, che la condotta addebitabile all’incolpato dovesse essere valutata unitariamente senza la possibilità di frazionare (disciplinarmente) le condotte ritenute penalmente irrilevanti da quelle poste a base della condanna penale.

Assume, inoltre, la violazione del principio di proporzionalità e gradualità della sanzione, atteso che non si è tenuto conto della concreta gravità dell’infrazione e dei giudizi positivi maturati negli anni di servizio.

Tale quadro censorio, per quanto abilmente delineato, non persuade il Collegio.

Per quanto attiene all’assunta violazione dell’art.653 c.1 bis del c.p.p., la circostanza che il dipendente sia stato assolto dall’imputazione per il reato di cui agli artt.110, 478 commi 1 e 2 e 482, 61 c.p., non incide sull’infondatezza della stessa doglianza in quanto il citato art. 653, conferendo alla sentenza penale efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, preclude l’esercizio dell’azione disciplinare solo qualora l’assoluzione sia stata pronunciata perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso.

Diversamente, ove l’assoluzione discenda – come nel caso all’esame – dalla statuizione che il fatto non costituisce reato l’Amministrazione conserva il suo potere disciplinare (come peraltro si argomenta dall’art. 97 T.U. n. 3 del 1957), in quanto un determinato comportamento del dipendente, infatti, può ben rilevare sotto il profilo disciplinare anche se lo stesso non sia punito dalla legge penale.

Quanto sopra chiarito, e con riferimento alle censure che lamentano un’indebita segmentazione disciplinare di una fattispecie penalmente rilevante, il documento che elimina ogni dubbio è dato dalla lettera di contestazioni notificata al dipendente: lettera in cui, oltre a far riferimento alla condotta tenuta nei confronti del sig. P.P., si delinea chiaramente la condotta incolpata, dando atto:

– della denuncia di furto presentata e della dichiarazione, in tale occasione resa, che la vettura era assicurata con la compagnia V.A.;

– che l’avv. C.D.M., su mandato del dipendente, inoltrava richiesta di risarcimento danni alla predetta Compagnia utilizzando tale denuncia;

– che, di seguito, lo stesso legale, sempre su mandato del dipendente, inoltrava analoga richiesta (peraltro per importo in due casi maggiorato ed in altro marginalmente ridotto) ad altre tre compagnie assicurative, utilizzando la denuncia di furto di cui sopra alla quale, falsificandola, veniva modificato il nome della Compagnia assicurativa;

– che una delle Compagnie risarciva l’intero valore dell’auto;

– che un funzionario della Vittoria assicurazioni si accorgeva della violazione dell’art.1910 del cod.civ. posto in atto dal dipendente nell’intento di riscuotere da tutte le Compagnie il valore integrale del veicolo rubato: circostanza ben nota allo stesso che aveva falsificato l’atto di denuncia.

Dunque, e indipendentemente da qualunque fosse l’intento che ha mosso disciplinarmente l’amministrazione (pur arbitra, in linea di principio, di apprezzare, parallelamente a quanto avvenuto in sede penale, il comportamento che ha dato luogo all’imputazione per il reato di cui agli artt.110, 478 commi 1 e 2 e 482, 61 c.p., separatamente da quello relativo al reato di cui agli artt. 81, 110, 56640, 61 nr. 8 del c.p.), la condotta sopra descritta e relativamente alla quale l’interessato ha prodotto le proprie giustificazioni, non appare scissa, frammentata o segmentata così come ipotizzato nell’atto di gravame. In particolare nella contestazione di addebiti si fa manifesto richiamo non solo alla falsificazione della denuncia ma anche all’uso della stessa a fini illeciti chiarendosi, fra l’altro, l’importo del risarcimento richiesto separatamente alle tre compagnie ed il fatto che la quarta Compagnia assicurativa ha anche provveduto a liquidare il dovuto.

Nè dubbio alcuno (in ordine all’ambito della condotta incolpata) l’interessato tradisce nella propria nota di giustificazioni. In tale nota – che peraltro è sostanzialmente identica a quella prodotta in relazione al III° procedimento disciplinare (e cioè a quello impugnato col secondo dei ricorsi in epigrafe) – l’interessato si preoccupa di motivare (offrendo peraltro una lettura tronca dell’art.1910 del cod. civ.) le ragioni per cui ha utilizzato le predette denunce.

E d’altronde va ricordato che il contenuto dell’atto di contestazione di addebito è stabilito dall’art. 14, d.P.R. n. 737 del 1981 e che in tale atto vanno indicati con chiarezza, sulla base di detta disposizione, i fatti e la specifica trasgressione di cui l’incolpato è chiamato a rispondere. Ancora, deve ritenersi peculiare al concetto di trasgressione non soltanto l’identificazione sul piano concreto della condotta dell’interessato da sottoporre a sanzione, ma anche la relativa qualificazione giuridica alla stregua del regolamento di disciplina, il quale riconnette specifiche conseguenze afflittive a determinati comportamenti. Nella specie si è di fronte ad un elemento che in definitiva si risolve in garanzia dell’inquisito, il quale viene così posto nelle condizioni di interloquire ed eventualmente contestare non solo con riferimento all’addebito mosso per i fatti suscettibili di sanzione, ma anche in merito alla loro qualificazione giuridica prefigurata in base al regolamento di disciplina ed alla graduazione della sanzione secondo criteri di adeguatezza e proporzionalità.

Certamente non è possibile escludere che, a fronte di una contestazione così ampia ed articolata, il successivo procedimento disciplinare (quello, per intendersi, culminato nella destituzione del 22.3.2010) sia incorso nella violazione del principio del "ne bis in idem". Ma questo, per quanto sopra detto, è elemento la cui valutazione non si rende più necessaria una volta autoannullato tale atto e dichiarato estinto, per perenzione, il sotteso procedimento disciplinare.

Né, d’altro canto, alla luce di tali circostanze, è fondato argomentare alcuna violazione del giudicato formatosi sulla sent. nr. 1003/2009 di questa Sezione. Se, come lo stesso ricorrente riconosce (cfr. pag. 8 del ric. nr. 4206/2010), il procedimento disciplinare impugnato col ricorso in trattazione muove da un atto di contestazione degli addebiti "praticamente identico al precedente" (culminato con il decreto di destituzione annullato dalla Sezione per contemporanea pendenza dei due procedimenti, penale e disciplinare), correttamente tale pronuncia ha statuito in tal senso e, altrettanto pacificamente, nessuna violazione alla stessa è movibile una volta rinnovato il giudizio disciplinare.

Anche la censura di violazione del principio di proporzionalità e gradualità della sanzione, per mancata considerazione della concreta gravità dell’infrazione e dei giudizi positivi maturati negli anni di servizio, non persuade.

E’ certamente vero che in sede di irrogazione di sanzioni disciplinari, deve sempre sussistere una proporzione tra il fatto contestato e la misura della sanzione (cfr., ex multis, C.C.le n.16 del 1991; Cons.St., n. 5821 del 2005 e n. 3541 del 2000). Ciò posto, giova, peraltro, ribadire che la determinazione relativa all’entità della sanzione disciplinare è espressione di una tipica valutazione discrezionale della Pubblica amministrazione, di per sé insindacabile dal giudice amministrativo, tranne nei casi in cui appaia manifestamente anomala o sproporzionata (e tale non si presenta, alla luce dei fatti contestati e riconosciuti dall’incolpato, quella inflitta nel caso di specie) o particolarmente severa in quanto determinata nel massimo consentito, e che il Giudice non può sostituire la propria valutazione a quella dell’Amministrazione, ma può soltanto verificare (come dianzi fatto) che sia sorretta da adeguata motivazione e basata su fatti tali da legittimarla (cfr., di recente Cons. St. n.6490 del 2005). Non va poi trascurato:

– che l’amministrazione (cfr. delibera del Consiglio di disciplina del 28.9.2009) ha preso in considerazione i precedenti di carriera del dipendente (fra i quali si ascrivono sia benemerenze (un encomio, una lode, un premio in denaro) che sanzioni disciplinari (che rivelano la tendenza del dipendente a non onorare i debiti contratti, oltre a una modesta sanzione per un fatto grave quale quello di essersi fatto rilasciare da un cittadino un premio in denaro per agevolare il rilascio di una patente nautica));

– che il ricorrente ha sì denunciato la violazione dei principi di cui si discute ma, per altro verso, non ha indicato la sanzione che riteneva, in luogo di quella inflittagli, corretta. E ciò costituisce un limite allo svolgimento della censura in trattazione, posto che, nella selezione delle condotte suscettibili di sanzione il d.P.R. n.737 del 1981 recepisce un criterio teso a tipizzare le diverse figure di infrazione cui segue una determinata misura afflittiva, in ciò discostandosi dal principio di c.d. "atipicità" dell’illecito disciplinare – cui sono invece ispirati gli artt. 78 e segg. t.u. 10.01.1957, n. 3 – che implica un maggior grado di astrazione nell’identificazione dei comportamenti contrari ai doveri del pubblico dipendente e dà luogo ad una più ampia sfera di discrezionalità all’Amministrazione nella qualificazione del fatto contestato agli effetti della determinazione sanzionatoria.

III.4)- Rimane da trattare dell’ultima censura con cui si contesta la violazione dell’art.149 del d.P.R. n.3 del 1957 per avere uno dei membri del Consiglio di disciplina fatto parte anche del medesimo Organo in occasione del procedimento culminato col primo ed annullato provvedimento destitutorio. Assume il ricorrente che tale membro si sarebbe dovuto astenere, poiché detta norma tale dovere sancisce nei confronti di chi abbia "dato consigli o manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio delle sue funzioni".

Si tratta di una tesi infondata in quanto una siffatta evenienza non è presa in considerazione dall’art.149 T.U. n.3/1957 che fissa le cause tipiche di ricusazione del giudice disciplinare; né può essere assimilata a quella prevista alla lettera b) del cit. art.149, relativa all’ipotesi del componente che "ha dato consiglio o manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio delle sue funzioni" (in tal senso si è già espressa, condivisibilmente, la Sez. VI^ del Cons.St. con decisione 14 maggio 1997, n.718 e, più di recente, con decisione nr. 487/2002 in cui ha chiarito che "Non rientra tra le cause tipiche di ricusazione del giudice disciplinare, stabilite dall’art. 149 t.u. imp. civ. St. ( d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3), e come tale non rileva, la situazione di incompatibilità della commissione disciplinare derivante dall’essersi la stessa, con identica composizione, già espressa su un precedente provvedimento di destituzione a carico del medesimo dipendente").

IV)- Conclusivamente, il ricorso in trattazione è infondato e deve essere respinto.

Le spese, attesa la peculiarità della controversia, possono essere compensate fra le parti in causa.
P.Q.M.

previa riunione dei ricorsi in epigrafe, così dispone:

– dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ric. nr. 4206/2010;

– respinge il ric. nr. 1536/2010.

Compensa fra le parti in causa le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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