Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-06-2011, n. 12565 Categoria, qualifica, mansioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 21 dicembre 2006, G.D. chiede, con quattro motivi, la cassazione della sentenza depositata il 24 gennaio 2006 (per cui il ricorso, contrariamente a quanto dedotto dal controricorrente non è soggetto, ratione temporis, alla disciplina di cui all’art. 366-bis c.p.c.), con la quale il Tribunale di Napoli, quale giudice di appello, ha respinto l’appello da lui proposto nei confronti della propria ex datrice di lavoro S.E.P.S.A. s.p.a. avverso la sentenza del Pretore che aveva dichiarato la cessazione della materia del contendere in ordine all’azione da lui promossa per ottenere, a seguito del demansionamento subito, la reintegrazione nelle proprie precedenti mansioni e il risarcimento dei danni conseguenti.

L’appello del G. era stato motivato con la considerazione che la sopraggiunta sua collocazione in quiescenza non avrebbe giustificato la pronuncia di cessazione della materia del contendere con riguardo alla domanda risarcitoria, sulla quale l’appellante pertanto aveva insistito.

Il Tribunale, ammessa, su richiesta dell’appellante, la prova testimoniale dedotta dalle parti, aveva successivamente rinviato l’udienza del 30 giugno 2005 fissata per l’espletamento della prova, su richiesta di rinvio del difensore dell’appellante motivato con l’intento di dimostrare l’avvenuta citazione dei testimoni assenti.

All’udienza successiva del 7 luglio 2005 nessuna delle parti era comparsa, con conseguente rinvio, ex art. 309 c.p.c. all’udienza del 19 dicembre 2005, nel corso della quale il Tribunale aveva, in presenza della difesa dell’appellante, rilevato la decadenza di questi dal diritto di far escutere i testi indicati e aveva deciso la causa col rigetto dell’appello, per difetto di prova dell’inadempimento e del danno lamentati.

Resiste alle domande la S.E.P.S.A. s.p.a. con rituale controricorso.

Il ricorrente ha depositato una memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

1 – Col primo motivo di ricorso, G.D., invocando la sentenza 11 marzo 2005 n. 5416 di questa Corte, deduce la violazione dell’art. 208 c.p.c., comma 2, per non avere il Tribunale fissato una udienza successiva a quella del 19 dicembre 2005, alla quale il difensore avrebbe potuto chiedere la revoca dell’ordinanza.

I motivo è manifestamente infondato.

La sequenza delle udienze più sopra indicata, implica infatti la chiara presa d’atto da parte del Tribunale della intervenuta decadenza dalla prova già all’udienza del 7 luglio, alla quale nessuna delle parti era comparsa, dopo il precedente rinvio per consentire all’appellante di provare la citazione dei testi ammessi e dalla quale la trattazione della causa è stata rinviata al 19 dicembre 2006. Inoltre, in tale sede era presente il difensore dell’appellante, che ha tentato di giustificare la propria assenza alla precedente udienza (e quindi di ottenere la revoca della decadenza) con argomentazioni sostenute dalla produzione della documentazione relativa, respinte dal Tribunale in quanto ritenute non credibili e contraddittorie e in questa sede non censurate (ancorchè tardivamente e pertanto inammissibilmente riprese in sede di memoria ex art. 378 c.p.c.).

Ne consegue che l’appellante ha avuto comunque la piena possibilità di esercitare ed ha adeguatamente esercitato il diritto assicuratogli dall’art. 208 c.p.c., comma 2 e che nessuna violazione di tale norma è riferibile al comportamento del Tribunale. Del resto, il ricorrente non indica neppure, in questa sede, quale ulteriore concreto pregiudizio sarebbe a lui derivato dal preteso errar in procedendo dei giudici, in termini di ulteriori specifiche possibilità di revoca dell’ordinanza citata (in proposito, cfr., da ultimo, Cass. 11 aprile 2011 n. 8215).

2 – Col secondo motivo, il ricorrente denuncia l’omessa motivazione della sentenza in ordine alle censure svolte con fatto di appello avverso la dichiarazione di cessazione della materia del contendere effettuata dalla sentenza di primo grado.

Anche tale motivo è manifestamente infondato.

Ammettendo la prova testimoniale dedotta dall’appellante a sostegno della domanda di risarcimento dei danni conseguenti al lamentato demansionamento, il Tribunale ha infatti evidentemente inteso superare la pronuncia del giudice di primo grado ha poi respinto l’appello e quindi rigettato la domanda iniziale con una diversa motivazione, concernente la mancata prova dell’inadempimento da parte della società e del danno che da esso sarebbe derivato.

3 – Col terzo motivo viene denunciata la violazione dell’art. 2103 c.c. e viene dedotto un vizio di motivazione, per non avere il Tribunale rilevato l’avvenuto demansionamento del G. a partire dal dicembre 1992.

Il motivo è inammissibile in quanto non pertinente rispetto al decisum.

Il Tribunale ha infatti ritenuto, alla stregua di quanto in precedenza indicato, di non poter entrare nel merito della vicenda di cui alla domanda, per la mancanza assoluta di prova dei fatti costitutivi dei diritti azionali e di ciò il ricorrente non si lamenta con presente generico motivo, ma in qualche modo col successivo.

4 – Infine, col quarto motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 2697 e 1226 cod. civ., dell’art. 432 c.c., dell’art. 115 c.c., comma 2, dell’art. 112 c.c. nonchè il vizio di motivazione della sentenza impugnata.

Le valutazioni dei giudici di merito, secondo il ricorrente, sarebbero state infatti superficiali, in quanto dagli atti di causa sarebbe emersa la prova dell’avvenuto demansionamento, che tra l’altro aveva costretto il G. a presentare domanda di pensionamento anticipato. Dai medesimi atti trasparirebbe inoltre lo stato di malessere e la sofferenza psichica di quest’ultimo, in conseguenza della violazione dei suoi diritti e si renderebbero evidenti le ripercussioni negative delle "forzate" dimissioni sul piano della sua vita di relazione.

Del resto, secondo il ricorrente, sarebbe stato onere del datore di lavoro provare che le nuove mansioni erano equivalenti alle precedenti e inoltre i giudici non avrebbero tenuto conto del fatto che il danno, in caso di lesione di beni primari, sarebbe per alcuni aspetti "in re ipsa" e comunque accettabile anche per presunzioni.

Anche tale motivo è manifestamente infondato.

Premesso che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, a norma dell’art. 2697 cod. civ., l’onere della prova dell’avvenuto demansionamento grava su chi lo deduce in giudizio, per fondare su di esso il diritto vantato, il motivo è per il resto inammissibile per difetto del requisito dell’autosufficienza, in quanto il ricorrente non specifica da quale atto del processo sarebbe desumibile il demansionamento, limitandosi genericamente ad esprimere in maniera apodittica la relativa valutazione.

Concludendo, il ricorso va pertanto respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, effettuato, con la relativa liquidazione, in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla società le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 2.500,00, oltre 12,50%, IVA e CPA, per onorari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *