Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-06-2011, n. 12861 Difformità e vizi dell’opera

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 3 ottobre 1989 F.U. evocava in giudizio, dinanzi al Tribunale di Velletri, D.B. P. per sentire dichiarare la risoluzione del contratto di appalto concluso fra le parti relativo alla esecuzione dei lavori edili nella proprietà dell’attore, sita in (OMISSIS), per grave inadempienza nell’esecuzione delle opere appaltate, tale da rendere inidoneo l’uso del fabbricato, con conseguente condanna dell’appaltatore al risarcimento dei danni.

Instauratosi il contraddittorio, nella resistenza del convenuto, che nel contestare la domanda attorea, deduceva di avere eseguito tutti i lavori a regola d’arte, compresi alcuni extracontrattuali, per cui spiegava riconvenzionale per il relativo saldo, avendo ricevuto L. 45.000.000 anzichè la somma pattuita di L. 52.000.000 e nulla per i lavori extra, il Tribunale adito, espletata istruttoria, respingeva la domanda attorea di risarcimento dei danni e, previa compensazione tra i crediti reciprocamente vantati, condannava il committente al pagamento di Euro 1.956,93 quale saldo del corrispettivo dovuto al netto della somma riconosciuta all’attore per vizi delle opere, disponendo la compensazione delle spese di lite.

In virtù di rituale appello interposto dal F., con il quale lamentava l’erroneità della sentenza del giudice di prime cure che aveva rigettato la domanda di risoluzione, la Corte di appello di Roma, nella resistenza dell’appellato, respingeva il gravame.

A sostegno dell’adottata sentenza, la Corte territoriale affermava che la domanda non era corredata da elementi idonei a chiarire la consistenza delle opere appaltate, la natura e l’incidenza dei vizi lamentati, carenza che non poteva essere colmata alla stregua della consulenza tecnica espletata, dalla quale peraltro emergeva che i vizi accertati non compromettevano l’idoneità funzionale dell’opera.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione il F., che risulta affidato ad un unico motivo, al quale ha resistito con controricorso il D. P..
Motivi della decisione

Va disattesa la preliminare eccezione sollevata dal D.P. nel proprio controricorso riguardo alla asserita nullità della procura rilasciata a margine del ricorso del F.. Ed invero, da un lato, la procura apposta a margine del ricorso è riferita testualmente a rappresentarlo e difenderlo "in questo giudizio avanti la Suprema Corte di Cassazione, nel ricorso contro D.P.R." ed inoltre, essendo appunto a margine dell’atto, forma un "corpus" unico con quest’ultimo (cfr, "ex multis", Cass. 8 marzo 2006 n. 4980; Cass. 6 agosto 2002 n. 11779), sicchè il giorno del suo rilascio si deve presumere che coincida con la data riportata in calce al medesimo ricorso, ricorrendo tutti i presupposti di cui all’art. 83 c.p.c., comma 3. Del resto il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione è per sua natura mandato speciale, senza che occorra per la sua validità alcuno specifico riferimento al giudizio in corso ed alla sentenza contro la quale l’impugnazione si rivolge.

Infatti, la specialità del mandato è con certezza deducibile, quando dal relativo testo sia dato evincere una positiva volontà del conferente di adire il giudice di legittimità; il che accade nell’ipotesi in cui la procura al difensore forma materialmente corpo con il ricorso o il controricorso al quale essa inerisce, risultando, in tal caso, irrilevante l’uso di formule normalmente adottate per il giudizio di merito e per il conferimento al difensore di poteri per tutti i gradi del procedimento (v. Cass. 31 marzo 2007 n. 8060).

Ciò precisato, il ricorso del F. consta di un unico motivo, col quale vengono prospettate varie censure.

Il ricorrente, in sostanza, denuncia la contraddittoria e insufficiente motivazione della sentenza impugnata per non avere ritenuto dimostrata la tesi attorea di declaratoria di risoluzione del contratto di appalto per inadempimento dell’appaltatore, non saldato il corrispettivo dal committente per non essere l’opera realizzata idonea all’uso, e ciò nonostante i vizi emergessero dalle conclusioni del c.t.u., nonchè dall’accertamento tecnico preventivo, che il giudice del merito non avrebbe recepito. Assume, inoltre, che la circostanza relativa a detta doglianza "potrà essere accertata dalla Suprema Corte tramite un’attenta visione della c.t.u.".

Prosegue nella censura riportando passi della descrizione delle opere edilizie realizzate effettuata nell’accertamento tecnico preventivo;

il motivo conclude con considerazioni relative alla pretesa illegittimità della richiesta di pagamento di opere extracontrattuali, nonchè alla insufficienza della somma di L. 21.660.380 stimata da giudice di prime cure per la eliminazione dei vizi. Il motivo, così identificato nel suo effettivo contenuto, si fonda sulle risultanze della consulenza tecnica espletata in primo grado e sulla descrizione dei lavori effettuata nell’accertamento tecnico preventivo.

Senonchè, il ricorso non indica innanzitutto dove la relazione del consulente sarebbe esaminabile in questa sede di legittimità ed in particolare se ad essa si sia inteso fare riferimento in quanto in ipotesi presente nel fascicolo d’ufficio del giudizio dinanzi alla Corte d’Appello oppure in quanto prodotta in copia con il ricorso.

Nel caso si fosse inteso fare leva sulla prima eventualità si sarebbe dovuto indicare la sede in cui nel fascicolo d’ufficio la relazione risulterebbe inserita. Invero, a norma, dell’art. 168 c.p.c., comma 2, la relazione del consulente tecnico d’ufficio, quale atto di istruzione, una volta depositata ai sensi dell’art. 195 c.p.c., comma 3, nella cancelleria, deve essere inserita dal cancelliere nel fascicolo d’ufficio e l’inserimento, ai sensi dell’art. 36 disp. att. c.p.c., commi 4 e 5, deve avvenire con il rispetto da parte del cancelliere delle formalità colà previste e particolarmente con l’indicazione nell’indice di cui si dice nel comma 4.

Ora, il ricorrente in cassazione che svolga un motivo di ricorso fondato sulle emergenze della consulenza tecnica d’ufficio ed intenda fare riferimento ad esse in quanto emergenti dalla relazione presente nel fascicolo d’ufficio del giudice a quo, in ossequio al principio di autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per Cassazione – che è diretta espressione della logica del giudizio di cassazione, nel quale la domanda proposta con l’impugnazione deve essere necessariamente articolata nel ricorso, non esistendo altri momenti successivi nei quali può essere integrata – deve indicare nel ricorso se la relazione è presente effettivamente nel fascicolo d’ufficio e, soprattutto, fornire gli estremi in base ai quali essa, se l’art. 36 citato è stato rispettato dal cancelliere del giudice a quo, può essere individuata dalla Corte di Cassazione, oppure, se, in ipotesi, esso non sia stato rispettato, il diverso modo in cui la relazione può essere individuata. Deve escludersi che l’esposizione del motivo sia rispettosa del principio di autosufficienza quando tali indicazioni non siano fornite, perchè in tal modo, non solo si fa affidamento su un’attività di ricerca della relazione nel fascicolo da parte della Corte che si baserebbe su un’autonoma iniziativa della stessa, ma che inoltre sarebbe attività che la Corte svolgerebbe in sede decisoria senza garanzia del contraddittorio dell’altra parte e con inevitabile perdita di tempo, in contrasto con il principio di economia processuale (consacrato nell’art. 111 Cost. sotto la veste della ragionevole durata del processo) e con il rischio di inevitabili errori. D’altro canto, l’esistenza della fonte del potere della Corte di supplire alle omissioni di indicazioni volte ad individuare la consulenza (come qualsiasi atto processuale su cui si fondi il ricorso) non solo vanamente si cercherebbe nel tessuto normativo della disciplina del ricorso per Cassazione, pur integrato con le norme del libro primo del c.p.c., ma appare anche implicitamente negata dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, che onera la parte ricorrente in Cassazione, a pena di improcedibilità, della produzione degli atti processuali su cui il ricorso si fonda, così evidenziando la sussistenza del dovere del ricorrente di produrre anche tali atti, eventualmente in copia se gli originali siano atti del fascicolo d’ufficio del giudice a quo.

La violazione del principio di autosufficienza apparirebbe non meno sussistente per il caso in cui si fosse voluto fare riferimento alla consulenza in quanto prodotta in copia direttamente dalla ricorrente con il ricorso (legittimamente a mente dell’art. 372 c.p.c., comma 1): il ricorso avrebbe dovuto indicare tale modalità di produzione ed individuare il modo in cui essa sarebbe stata individuabile nel fascicolo della ricorrente.

Va rilevato, altresì, che l’esposizione del motivo è comunque inosservante del principio di autosufficienza anche sotto il profilo – eccepito anche dal resistente – che non si sono trascritte le parti della consulenza tecnica d’ufficio su cui si fa leva. Invero, alla pagina tre del ricorso si trascrivono tre punti della relazione dell’accertamento tecnico di ufficio, ma si omette di trascrivere del tutto il contenuto della relazione della c.t.u., in tal modo facendo un riferimento per rinvio alla consulenza, il che contraddice il principio de quo giacchè affida alla Corte di individuare nella relazione le parti dell’elaborato del consulente dalle quali emergerebbe "che i Giudici della Corte d’Appello sembrano non avere recepito" (sull’onere del ricorrente in cassazione, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione ed il carattere limitato di tale mezzo di impugnazione, della indicazione, riportandole per esteso, delle pertinenti parti della consulenza ritenute erroneamente disattese, si veda, ex multis, Cass. 30 agosto 2004 n. 17369; Cass. 22 febbraio 2010 n. 4201).

I principi esposti sopra a giustificazione della valutazione di inammissibilità per difetto di autosufficienza sono riferiti al regime anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, applicabile a questo ricorso. Essi sono ora normativamente enunciati in modo espresso nell’art. 366 c.p.c., n. 6, per il tramite della previsione della ed. indicazione specifica degli atti processuali e dei documenti su cui il ricorso si fonda, ma, come questa Corte ha già avuto modo di affermare erano già presenti – particolarmente quanto all’onere di indicazione – anteriormente: si veda, in termini, Cass. 25 maggio 2007 n. 12239, seguita da numerose conformi.

Per tutte le considerazioni sopra svolte, il ricorso deve, dunque, essere respinto.

Al rigetto consegue, come per legge, la condanna della ricorrente al pagamento in favore della resistente delle spese del giudizio d Cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre ad accessori, come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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