Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 10-02-2011) 28-03-2011, n. 12496 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

tura per D.C. e avv. Rella per D.V., che hanno chiesto accogliersi i ricorsi.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Il GUP del Tribunale di Milano, con sentenza del 6.2.2009, condannava D.I., D.V.N., D.C. V., M.R., Gu.Da., G.C., Dr.Da., per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73.

Il GUP dava atto che dalle indagini svolte, costituite da intercettazioni telefoniche, pedinamenti, sequestri, erano stati individuati alcuni canali internazionali di rifornimento all’associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, operante in (OMISSIS) e provincia, e che erano stati individuati numerosissimi episodi di spaccio.

La Corte di Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del GUP, con sentenza del 24.2.2010:

– riduceva la pena inflitta a D.I. ad anni 3, mesi 8 di reclusione ed Euro 12,000,00 di multa;

– assolveva D.V.N. dal reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, ascritto al capo a), per non aver commesso il fatto e, concesse le circostanze attenuanti generiche prevalenti, rideterminava la pena per i rimanenti reati in anni 5 di reclusione ed Euro 20.000,00 di multa;

– assolveva D.C.V. dal reato associativo di cui al capo a) e, concesse le circostanze attenuanti generiche, rideterminava la pena per i rimanenti reati in anni 6 di reclusione ed Euro 22.000,00 di multa;

– quanto a Dr.Da., ritenuta la continuazione tra i fatti di cui alla presente sentenza e quelli giudicati con sentenza 16.7.09 della Corte di Appello di Milano, irrevocabile il 30.10.2009, rideterminava la pena complessiva in anni 18, mesi 6 di reclusione ed Euro 127.600,00 di multa e confermava la disposta confisca;

– riconosciuta a G.C. la circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, con le già concesse circostanze attenuanti generiche, rideterminava la pena in mesi 6 di reclusione ed Euro 2.667,00 di multa:

– riconosciuta a Gu.Da. in relazione ai capi 34, 69, 82, 96, 102, 103, 105, 165, 231, 305 e 571 la circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p., con le già concesse circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, rideterminava la pena in anni 5 di reclusione;

– quanto a M.R., ritenuta la continuazione con i reati di cui alle sentenze 15.12.1999 della Corte di Appello di Milano e 13.5.2005 del GUP del Tribunale di Milano e 18,12.2008 della Corte di Appello di Milano, irrevocabili, rideterminava la pena complessiva in anni 19 di reclusione.

2) Ricorrono per Cassazione i sopraindicati imputati.

2.1) D.I., a mezzo del difensore, denuncia la mancanza ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata. I giudici di appello si sono limitati a rinviare per relationem alla sentenza di primo grado, senza motivare in relazione alle specifiche censure contenute nei motivi di appello.

Dagli atti processuali non emerge che il D. abbia anticipato i soldi per l’acquisto di droga dal D’., come si legge nella sentenza. Si può convenire con l’assunto della Corte che le telefonate intercettate abbiano valore indiziante, ma era necessario individuare i riscontri e contrastare le deduzioni difensive. La Corte territoriale opera, poi, un travisamento del fatto in ordine alla fuga del D’. alla vista degli operanti, dopo che era stato visto uscire di casa. Tale fuga avvenne infatti il 31.1.2002, mentre l’incontro con il D. avvenne il giorno prima. La Corte non motiva in relazione alle doglianze della difesa in ordine al fatto che, certamente, non erano i 415 grammi di droga contestati oggetto dello scambio tra il D’. ed il D..

Nè sono valutabili come indizi a carico del ricorrente le dichiarazioni di altri coimputati in relazione al linguaggio criptico delle telefonate. Infine la Corte non motiva sulle subordinate richieste della difesa.

2.2) Il difensore di D.V.N. denuncia, con il primo motivo, la illogicità e carenza di motivazione in relazione alla pronuncia di condanna per i fatti di cui ai capi 51, 126, 284, 466, 479 e 512.

Come già rilevato nell’atto di appello la destinazione allo spaccio della sostanza stupefacente acquistata non poteva essere presunta, ma oggetto di rigorosa prova. I soli elementi probatori a carico del ricorrente sono rappresentati dai verbali di intercettazioni telefoniche di conversazioni tra alcuni coimputati ( M. e T.) dai quali emergerebbe l’acquisto da parte del D. V., in un arco temporale di ben dieci mesi, di circa 185 grammi di sostanza stupefacente. In assenza di elementi di riscontro risulta evidente l’assoluta carenza di prova in ordine alla contestata destinazione allo spaccio.

Fuorviante è l’assunto dei giudici di appello in relazione alla indimostrata capacità economica dell’appellante, risultando che i quantitativi di drogagli venivano ceduti a credito. Nè costituiscono elementi indiziari della presunta finalità di spaccio le dichiarazioni del M. ed i molteplici sequestri effettuati nell’ambito del procedimento, trattandosi di elementi rilevanti in ordine al reato associativo, da cui peraltro il D.V. è stato mandato assolto. Nè è ipotizzabile che il ricorrente potesse spacciare in proprio, in concorrenza con l’associazione radicata sul territorio. Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge e l’omessa motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5. A parte l’indeterminatezza del dato quantitativo (risulta precisato solo in relazione ai capi 466 e 512 (50 gr. nel primo caso e 35 gr. nel secondo) dagli atti risulta lo stato di tossicodipendenza del D., per cui la parte ipoteticamente destinata allo spaccio era quella residuata dal consumo personale.

Contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di appello poteva essere riconosciuta tale attenuante, ma la richiesta è stata disattesa senza motivazione.

Con il terzo motivo denuncia la illogicità della motivazione in ordine alla individuazione della pena base (indicata in misura superiore al minimo edittale in modo illogico ed immotivato).

2.3) Il difensore di D.C.V. denuncia, con il primo motivo, la contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per il reato di cui al capo 308.

La Corte territoriale ha disatteso i rilievi difensivi in ordine alla detenzione per uso personale, assumendo che essi non erano condivisibili per i notevoli quantitativi trattati (fino a 240 gr.) e per le modeste capacità economiche del D.C.. Tale motivazione risulta, però, illogica in relazione al capo 308, essendo oggetto della contestazione un quantitativo di poco più di 5 gr., per un importo di L. 700.000. Con il secondo motivo deduce la violazione di legge in relazione all’art. 597 c.p.p. ed il vizio di motivazione con riferimento alla determinazione della pena. Il Tribunale aveva condannato il ricorrente per il reato associativo e per tutti i reati- fine, aumentando la pena base inflitta per il reato di cui all’art. 416 c.p. di mesi 6 di reclusione per ciascuna delle altre ipotesi di reato. La Corte territoriale ha mandato assolto il D.C. dal reato associativo ed ha reputato più grave il reato di cui al capo 357 bis. In violazione del principio del divieto della reformatio in peius ha però aumentato la pena irrogata in primo grado a titolo di continuazione (per i capi 350 e 425 è stata elevata da mesi 6 a mesi 10 di reclusione, con aggiunta della pena pecuniaria, per i capi 449 e 415 da 6 mesi a 9 mesi con aggiunta della pena pecuniaria, per il capo 308 è stata aggiunta la pena pecuniaria).

Del tutto incoerentemente, peraltro, l’aumento apportato per ognuna delle cessioni ai coimputato M. risulta di gran lunga inferiore (appena 17 giorni di reclusione).

2.4) Il difensore di M.R. denuncia la omessa motivazione in ordine alla confisca dell’autovettura BMW. 2.5) Gu.Da. denuncia la mancanza di motivazione in relazione alla condanna per il reato associativo. Con l’atto di appello erano state svolte specifiche censure alla decisione del GUP, su cui però la Corte non ha argomentato. La Corte avrebbe dovuto accertare la sussistenza dei presupposti della partecipazione della ricorrente, tenuto conto che non vi erano contatti con gli altri associati (se non con il proprio coniuge, Di.Mu.Gi., che aveva contatti con il solo M.). L’unico riferimento fatto dal GIP alla presunta partecipazione riguardava una telefonata il cui contenuto, però, era stato completamente travisato.

2.6) I difensori di G.C. denunciano la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata per contrasto con le risultanze processuali.

La Corte territoriale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha concesso al G. la circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, rideterminando la pena inflitta in primo grado. In motivazione si da anche atto che sui motivi diversi da quelli relativi alla determinazione della pena vi era stata rinunzia, sia da parte dell’appellante che dei suoi difensori, all’udienza del 27 gennaio 2010. La Corte territoriale è incorsa però in errore in quanto dal verbale della predetta udienza non risulta che vi sia stata rinunzia (che comunque non sarebbe stata sufficiente) da parte dei difensori. In ogni caso non vi è stata alcuna rinuncia da parte dell’imputato rimasto contumace. Ovviamente, stante tale erroneo presupposto, la Corte di merito ha omesso completamente di motivare in ordine alle doglianze svolte nei motivi di appello, con i quali si richiedeva il riconoscimento, anche per il capo 267, della detenzione per uso personale con conseguente assoluzione perchè il fatto non costituisce reato.

2.7) Il difensore di Dr.Da. denuncia la inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla L. 7 agosto 1992, n. 356, art. 12 sexies, nonchè la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla disposta confisca.

La Corte territoriale, disattendendo i motivi di appello, ha confermato la confisca dell’immobile sito in (OMISSIS) intestato al Dr.. Pur dando atto che l’immobile in questione era stato acquistato attraverso un contratto di finanziamento ottenuto da Istituto di credito, ha rilevato che l’appellante non aveva fornito alcun elemento per individuare l’origine dei mezzi utilizzati per pagare eventualmente le rate dei mutui e, comunque, delle entrate o dei beni in base ai quali l’Istituto erogante aveva ritenuto la capacità reddituale del richiedente. Tale motivazione non tiene conto dei principi di diritto fissati con la sentenza delle sezioni unite n. 920 del 17.12.2003:

con tale pronuncia è stato affermato che, per ritenere la compatibilità della norma di cui all’art. 12 sexies cit. con i principi costituzionali, bisogna garantire alla difesa la possibilità di giustificare l’origine dei mezzi con i quali sono stati acquistati i beni suscettibili di confisca. Grava quindi sull’accusa l’onere di provare la provenienza illecita del bene, salva la possibilità per la difesa di allegare l’origine lecita dei propri mezzi in relazione ad un tempo e ad un momento determinato.

La difesa ha inequivocabilmente dimostrato che l’immobile è stato acquistato per il prezzo di centomila Euro e che tale somma deriva da un finanziamento per la stessa cifra, ottenuto a seguito di contratto stipulato in data 12 marzo 2003 con la Banca Popolare di Milano.

Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale non è possibile, poi, effettuare una valutazione di raffronto tra il reddito e gli esborsi effettuati per il pagamento delle rate, dal momento che, come danno atto i giudici di appello, non è dato conoscere se e quali rate siano state pagate. E’ evidente, pertanto, che la motivazione sul punto è manifestamente illogica.

Altrettanto illogica è la motivazione laddove viene ipotizzata, in modo indeterminato, l’esistenza di altri beni ed entrate quale presupposto per l’erogazione del mutuo.

E’ comunque non conforme alla lettera della legge e ad una sua corretta interpretazione richiedere la prova dell’origine lecita, oltre che dei mezzi utilizzati per l’acquisto, addirittura dei beni idonei alla stipulazione del mutuo.

Infine si evidenzia che le motivazioni addotte dai giudici di merito (GIP, GUP, Corte di Appello) sono state sempre diverse e contraddittorie tra di loro.

3) G.C. e M.R. hanno rinunciato ai rispettivi ricorsi. Con dichiarazione, depositata in cancelleria il 3.2.2011, l’avv. Marco Micheli, difensore e procuratore speciale di G.C., ha rinunciato al ricorso per cassazione avverso la sentenza "n. 581, pronunciata dalla Corte di Appello di Milano, sezione prima penale, in data 24.2.2010".

A sua volta M.R., con dichiarazione resa all’Ufficio Matricola della Casa Circondariale di (OMISSIS), pervenuta in cancelleria il 3.1.2011, ha rinunciato "al ricorso proposto avverso la sentenza emessa in data 24 febbraio 2010 dalla Corte di Appello – sez. 1 penale – di Milano".

I ricorsi dei predetti debbono, conseguentemente, essere dichiarati inammissibili, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. d), con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma che pare congruo determinare in Euro 500,00 ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

4) Il ricorso di Gu.Da. è aspecifico in quanto prescinde completamente dalla motivazione della sentenza impugnata.

La Corte di Appello da atto che "all’udienza del 27.1.2010 il difensore della Gu., munito di procura speciale, dichiarava di rinunciare ai motivi diversi da quelli relativi alla riduzione della pena e depositava una dichiarazione di ammissione di responsabilità da parte dell’appellante" (pag. 201).

Stante l’avvenuta rinuncia, la Corte territoriale, ovviamente, non aveva alcun obbligo di motivare in ordine ai motivi (ormai rinunciati) attinenti la responsabilità.

Con il ricorso per cassazione, invece, di contestare, eventualmente, l’assunto della Corte territoriale in ordine alla intervenuta rinuncia, sì lamenta l’omessa motivazione con riferimento alla condanna per il reato associativo.

Anche il ricorso della Gu. va, pertanto, dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, e, in mancanza di elementi idonei ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, che si ritiene congrua, di Euro 1.000,00 alla cassa della ammende.

5) Le censure sollevate con il ricorso di D.I. non tengono conto che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati del l’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo. E’ necessario cioè accertare se nell’interpretazione delle prove siano state applicate le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Anche a seguito della modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), con la L. n. 46 del 2006, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 752 del 18.12.2006). Anche di fronte alla previsione di un allargamento dell’area entro la quale deve operare, non cambia la natura del sindacato di legittimità; è solo il controllo della motivazione che, dal testo del provvedimento, si estende anche ad altri atti del processo specificamente indicati.

Tale controllo, però, non può "mai comportare una rivisitazione dell’iter ricostruttivo del fatto, attraverso una nuova operazione di valutazione complessiva delle emergenze processuali, finalizzata ad individuare percorsi logici alternativi ed idonei ad inficiare il convincimento espresso dal giudice di merito" (così condivisibilmente Cass. pen. sez. 2 n. 23419/2007 – Vignaroli).

Già il GUP, attraverso un esame approfondito e "concatenato" delle telefonate intercettate, aveva ritenuto provato, in modo assolutamente certo, che l’incontro tra D’.Ga. ed il D. aveva ad oggetto la cessione di sostanza stupefacente di tipo cocaina e che era stato stabilito il prezzo. Il contenuto delle intercettazioni, inoltre, era confermato dal servizio di osservazione predisposto dagli operanti: alle ore 15,30 del 30.1.2002 era stata, infatti, vista sopraggiungere, nei pressi dell’abitazione del D’., un’auto Peugeot con a bordo il D., il quale si recava a casa del primo, uscendone verso le ore 16,00 (poco dopo veniva fermato dai Carabinieri di Parabiago). A sua volta il D’. usciva dall’abitazione, portando con sè una scatola di un’autoradio marca Sonj che depositava in un’auto Peugeot intestata alla madre.

Sulla base di tali elementi e delle telefonate intervenute successivamente riteneva il GUP che il D. avesse concordato con D’. la compravendita di un imprecisato quantitativo di cocaina, pagando il relativo prezzo e che la droga era stata depositata nella Peugeot, dove sarebbe stata prelevata dall’acquirente se non fosse stato fermato dai Carabinieri. Il giorno successivo infatti il D’., alle ore 10,30, nonostante l’alt intimatogli dai Carabinieri di Parabiago, si dava alla fuga, disfacendosi di un sacchetto che recuperato risultava contenere gr.

415 di cocaina.

La Corte territoriale, nel far propria la motivazione del GUP, ha ritenuto che "i dati testuali e lo sviluppo della vicenda, conclusasi con l’arresto del D’., trovato peraltro in possesso della contestata quantità di droga, costituiscano elementi probatori, gravi, precisi e concordemente comprovanti la responsabilità penale anche del D…" Inoltre, secondo la Corte, chiudevano il quadro probatorio le ammissioni di responsabilità da parte dei coimputati.

Tali argomentazioni dei giudici di merito risultano adeguate, coerenti ed immuni da vizi.

Il ricorrente ripropone in sede di legittimità le medesime doglianze, già disattese dai giudici di appello, che si risolvono in una diversa interpretazione delle risultanze processuali (peraltro esaminate in modo isolato e parcellizzato, prescindendo quindi dal contesto complessivo delle telefonate intercettate e dai servizi di osservazione e accertamenti degli agenti operanti).

Generiche sono poi le censure riguardanti la denunciata omessa motivazione in ordine alle richieste subordinate; peraltro la Corte territoriale (a fronte di motivi di appello altrettanto generici) ha motivato adeguatamente in relazione alla mancata concessione della circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 ed al trattamento sanzionatorio (pag. 145).

6) Il ricorso del D.V. è infondato e va, pertanto, rigettato. Quanto alla ritenuta destinazione allo spaccio della sostanza stupefacente acquistata, già con la sentenza di questa Corte a sez. un. del 18.7.1997 n. 4 è stato affermato il principio che, anche dopo l’esito referendario, la valutazione prognostica della destinazione della sostanza, ogni qual volta la condotta non appaia correlabile al consumo in termini di immediatezza, deve essere effettuata dal giudice tenendo conto di tutte le circostanze soggettive ed oggettive del fatto, con apprezzamento di merito sindacabile in sede di legittimità solo in rapporto ai vizi di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e). Sicchè non è censurabile la motivazione che attribuisca univoco significato della destinazione allo spaccio alla detenzione quando la quantità dello stupefacente sia notevolmente superiore al bisogno personale per un periodo circoscritto. F del tutto evidente che nelle ipotesi relative a quantitativi non elevati l’indagine in relazione alla destinazione allo spaccio debba essere, invece, più penetrante e condotta con riferimento ad altri elementi indiziari emergenti dalle concrete modalità della fattispecie, come la qualità di tossicodipendente, le condizioni economi che dell’imputato, l’accertato compimento pregresso di fatti sintomaticamente rivelatori di propensione allo spaccio, le modalità della custodia e di frazionamento della sostanza, il ritrovamento di strumenti idonei al taglio.

La Corte territoriale, con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, ha ritenuto che dalle risultanze processuali emergesse la destinazione allo spaccio della droga acquistata, sulla base di una pluralità di elementi: a) i quantitativi acquistati risultavano ampiamente superiori a quelli propri dell’uso personale; b) il D. V. non aveva una capacità economica tale da consentirgli un approvigionamento di droga per uso personale con esborso di consistenti somme di denaro (gli eventuali debiti contratti andavano comunque onorati); c) le intercettazioni telefoniche (in particolare la conversazione n. 70 del 15.2.2002) attestavano che il prevenuto con la droga acquistata doveva soddisfare i "bisogni" di terzi.

Quanto all’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, è pacifico che tale circostanza "può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione, con la conseguenza che, ove venga meno uno soltanto degli indici previsti dalla legge, diviene irrilevante l’eventuale presenza degli altri" (cfr. Cass. sez. un. 21.9.2000 n. 17; conf. Cass. sez. 4, 16.3.2005 n. 10211; Cass. sez. 4, 1.6.2005 n. 20556). Anche la giurisprudenza successiva ha ribadito che "..il giudice è tenuto a complessivamente valutare tutti gli elementi indicati dalla norma, sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli che attengono all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa), dovendo conseguentemente escludere la concedibilità dell’attenuante quando anche uno solo di questi elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di lieve entità…" (cfr ex multis Cass. pen. sez. 4 n. 38879 del 29.9.2005; conf. Cass. sez. 6 n. 27052 del 14.4.2008).

Dalla motivazione complessiva della sentenza di appello e dal richiamo di quella di primo grado emerge chiaramente che i giudici di merito hanno ritenuto non configurabile la invocata circostanza attenuante per i quantitativi significativi di sostanza stupefacente acquistata e per la reiterazione della condotta (risultano contestate sette episodi) in un arco temporale di pochi mesi.

In presenza di generiche doglianze contenute nei motivi di appello in ordine al trattamento sanzionatorio, la Corte territoriale ha rideterminato la pena, in misura peraltro prossima ai minimi che non ai massimi edittali, tenendo conto di tutti i rilievi in precedenza esposti in ordine alla entità (non certo lieve) dei fatti contestati.

7) Il primo motivo del ricorso del D.C. è manifestamente infondato. Al ricorrente era contestato di aver acquistato da M.R. "sostanza stupefacente del tipo cocaina in quantità non potuta accertare e comunque pari quantomeno al controvalore di L. 700.000" (capo 308 che fa riferimento al capo che precede).

La Corte territoriale, dopo aver premesso che il ruolo di spacciatore del D.C. emerge pacificamente dalle risultanze processuali, ha evidenziato che la destinazione allo spaccio dei singoli acquisti (e quindi anche di quello di cui al capo 308) è attestata dalle modestissime capacità economiche del medesimo (la stessa difesa sosteneva nell’atto di impugnazione che l’imputato non aveva mezzi, era debitore dell’ A. e svolgeva attività lavorativa presso un Call center). Tale situazione economica non consentiva certo approvigionamenti di sostanza stupefacente, per uso personale, con esborso di somme di denaro rilevanti. Siffatta motivazione non è certamente illogica e contraddittoria, essendo indubitabile che anche la somma di L. 700.000, indicata nel capo 308, costituiva un esborso non certo compatibile con le condizioni economiche, in precedenza evidenziate, del prevenuto. Va accolto, invece, il secondo motivo.

La giurisprudenza di questa Corte, dopo decisioni in senso contrario che ritenevano rispettato il disposto di cui all’art. 597 c.p.p., comma 4 purchè la pena complessiva irrogata fosse corrispondentemente diminuita, è ormai orientata nel senso che il divieto della reformatio in peius in appello riguardi non soltanto il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena:

cosicchè, in caso di accoglimento dell’appello dell’imputato in ordine alle circostanze o al concorso di reati, anche se unificati per la continuazione, discende non solo l’obbligatoria diminuzione della pena complessiva, ma anche l’impossibilità di elevare la pena comminata per singoli elementi, pur risultando diminuita quella complessiva a seguito dell’accoglimento del gravame dell’imputato (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 4 n. 47341 del 28.10.2005). Il contrasto giurisprudenziale è stato, invero, risolto con la decisione delle sezioni unite n. 40910 del 27 settembre 2005 (depositata il 10 novembre 2005). L’espressione "la pena è corrispondentemente diminuita" deve essere quindi intesa nel senso che la obbligatoria diminuzione riguarda non solo la pena complessivamente inflitta quale risultato finale ottenuto dopo il calcolo degli eventuali aumenti e diminuzioni, ma anche i singoli elementi che concorrono all’operazione, ivi compresa la pena base e l’aumento per la continuazione.

Non c’è dubbio quindi che, se venga accolto l’appello anche in ordine ad uno dei reati ritenuti in continuazione, debba essere, a prescindere dalla determinazione della pena finale (eventualmente ridotta per altri motivi), corrispondentemente ridotto l’aumento apportato ex art. 81 c.p. per quel reato. Altrimenti la pronuncia assolutoria non avrebbe alcun effetto sul piano sanzionatorio.

Non c’è dubbio che, essendo intervenuta l’assoluzione in appello per il reato più grave di cui al capo a), non potesse essere lasciata inalterata la pena irrogata per tutti gli altri reati a titolo di continuazione nel giudizio di primo grado, dovendosi individuare il "nuovo" reato più grave e la pena per esso edittalmente prevista (comprensiva, nel caso di specie anche della multa).

E’ altrettanto indubitabile, però, che, una volta individuato nel capo 357 il reato più grave, la Corte territoriale non potesse per tutti gli altri reati apportare un aumento maggiore di quello stabilito in primo grado. Palese, pertanto, è la violazione del principio del divieto della reformatio in peius.

La sentenza impugnata va, quindi, annullata sul punto senza necessità di rinvio: risulta evidente, invero, che la Corte territoriale non intendesse certamente discostarsi "in melius" dagli aumenti apportati, per i singoli capi, nella sentenza di primo grado.

Sicchè possono essere confermati quegli aumenti relativamente alla pena detentiva (la pena pecuniaria andava, invece aggiunta, come correttamente ha fatto la Corte territoriale, prevedendo il capo 357, individuato come reato più grave, anche la multa).

La pena va, conseguentemente, così rideterminata: p.b. capo 357 anni 8 di reclusione ed Euro 33.000,00 di multa, ridotta ex art. 62 bis c.p. ad anni 5, mesi 4 di reclusione ed Euro 22.000,00 di multa, aumentata di mesi 6 di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa per ciascuno dei capi 350 e 425, di mesi 6 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa per ciascuno dei capi 357 e 415, di mesi 6 di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa per il capo 308, e quindi anni 7, mesi 10 di reclusione ed Euro 33.000,00 di multa, ridotta di un terzo per la diminuente del rito e perciò ad anni 5, mesi 2 e giorni 20 di reclusione ed Euro 22.000,00 di multa.

8) Il ricorso del Dr. in relazione alla disposta confisca è fondato. Va ricordato che le sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 920 del 17.12.2003, hanno affermato il condivisibile principio che "La condanna per uno dei reati indicati nel D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, commi 1 e 2, conv. con modif. nella L. 7 agosto 1992, n. 356, comporta la confisca dei beni nella disponibilità del condannato, allorchè, da un lato, sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e il valore economico di detti beni e, dall’altro, non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi. Di talchè, essendo irrilevante il requisito della "pertinenzialità" del bene rispetto al reato per cui si è proceduto, la confisca dei singoli beni non è esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna o che il loro valore superi il provento del medesimo reato (V. Corte Cost. ord. 29 gennaio 1996 n. 18)". La giurisprudenza successiva ha ribadito costantemente tale orientamento che può dirsi ormai consolidato. Secondo Cass. sez. 3 n. 38429 del 9.7.2008 "In tema di confisca dei beni patrimoniali prevista dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies è irrilevante il requisito della pertinenzialità tra bene da confiscare e reato, sicchè detta confisca non è esclusa per il fatto che i beni siano stati acquisiti in epoca anteriore al reato per cui è intervenuta condanna"; oppure "… abbiano un valore superiore al provento del medesimo reato " (così Cass. sez. 1 n. 11269 del 18.2.2009). Ancor più chiaramente è stato ribadito che non è richiesto "..l’accertamento di un nesso eziologico tra il reato e i beni, dal momento che opera una presunzione legislativa di illecita accumulazione, non rilevando se detti beni siano o meno derivati dal reato per il quale è stata inflitta la condanna" (Cfr. Cass. sez. 1 n. 8404 del 15.1.2009).

La Corte territoriale, nel confermare la confisca dell’immobile in sequestro, ha rilevato che "l’appellante, a fronte della indiscutibile sproporzione tra il valore del bene in sequestro ed i propri redditi, non ha dimostrato la lecita provenienza dei mezzi economici utilizzati per l’acquisto dell’immobile in considerazione".

La stessa Corte ha dato atto che il Dr. aveva acquistato il bene attraverso un finanziamento ottenuto da istituto di credito; ha ritenuto, però, che l’imputato per il pagamento delle rate o, comunque, per i beni che aveva consentito all’Istituto erogante di valutare la capacità reddituale del richiedente, non avesse fornito alcuna indicazione sulla lecita provenienza degli stessi. La motivazione sul punto è palesemente perplessa ed apodittica.

I giudici di merito, senza avere effettuato alcun accertamento, formulano, invero, delle mere ipotesi.

Riconoscono, infatti, che non risulta se le rate del mutuo siano state o meno pagate e, quindi, che non è possibile stabilire se il Dr. abbia onorato il mutuo con l’impiego di risorse di cui non ha dimostrato la lecita provenienza.

Nè sono in grado di precisare se e quali beni siano stati valutati dall’Istituto di credito ai fini della capacità reddituale del richiedente.

La sentenza impugnata va, pertanto, annullata sul punto, con rinvio per nuovo esame.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi di M.R. e G. C., che condanna singolarmente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro 500,00 alla cassa delle ammende;

Dichiara inammissibili i ricorsi di D.I. e di G. D., che condanna singolarmente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende;

Rigetto il ricorso di D.V.N. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Annulla, senza rinvio, la sentenza impugnata per D.C. V., limitatamente al trattamento sanzionatorio che ridetermina in anni 5, mesi 2, giorni 20 di reclusione ed Euro 22.000,00 di multa.

Rigetta nel resto il ricorso del D.V.;

Annulla con rinvio la sentenza impugnata per Dr.Da., limitatamente alla disposta confisca, per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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