Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-02-2011) 28-03-2011, n. 12386

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale della libertà di Catanzaro, con ordinanza in data 3/8/2010, annullava parzialmente l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, (confermandola nel resto unitamente alla misura cautelare), emessa dal G.I.P. Di Catanzaro il 16/6/2010, nei confronti, di P.F.A., in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis c.p., e dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per aver partecipato ad un’associazione di tipo mafioso, di cui facevano anche parte L.B.G., L.B.C., Po.Fi., M.N.R., Ma.Do., Mo.Sa., Ma.Vi., Ma.An., F.F., T.D., G.F., Ma.Fr., Pa.Ra., con la disponibilità di armi, finalizzata alla commissione di estorsioni e altri delitti contro il patrimonio e all’acquisizione e gestione di attività economiche – in particolare del mercato delle affissioni pubblicitarie e dei servizi funerari, di trasporto in ambulanza e dei pubblici appalti – organizzata e diretta da L.B.C., all’interno della quale M.N. e Ma.An. svolgevano mansioni di organizzazione e direzione dell’attività degli altri associati, mentre Po. e G.F. mettevano a disposizione del sodalizio le imprese agli stessi intestate al fine di consentire all’associazione di perseguire le sue finalità.

Il Tribunale escludeva che dal compendio accusatorio fossero individuabili gli elementi costitutivi del delitto associativo di tipo mafioso ed osservava che dal materiale indiziario emergeva che, a partire dai primi mesi dell’anno 2007, in costanza della detenzione di L.B.C. (capo della cosca Lo Bianco) si era verificato il radicamento sul territorio di soggetti criminali che agivano al di fuori del contesto associativo egemone dei L.B. e, in una ultima fase, progettavano la costituzione di un gruppo autonomo sotto l’egida di Ma.An., contrapposto alla cosca Lo Bianco.

Secondo l’ipotesi accusatoria, dagli esiti dell’attività di captazione telefonica ed ambientale svolta dagli inquirenti, sarebbe emerso che L.B.C. e Ma.An., rispettivamente promotore e partecipe dell’associazione mafiosa Lo Bianco (riconosciuta con sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro del 3/6/2010), nonchè M.N. avrebbero promosso ed organizzato un gruppo criminale finalizzato alla realizzazione di estorsioni e di reati contro il patrimonio, nonchè al controllo delle attività economiche nel settore delle affissioni pubblicitarie, servizi funerari, trasporto in ambulanza, pubblici appalti.

Il Tribunale rilevava che tale ipotesi accusatoria non trovava conferma nel compendio indiziario, osservando, in primo luogo, che non erano emerse prove di contatti di natura illecita fra L.B. C. e gli altri soggetti affiliati ed, in secondo luogo, che dalle singole vicende prese in considerazione nell’ordinanza del Gip emergeva soltanto che gli indagati si erano aggregati per commettere episodicamente dei reati, sebbene fosse serpeggiata l’idea di costituire un gruppo autonomo che potesse sostituire l’egemonia della cosca Lo Bianco.

In particolare, con riferimento alla vicenda estorsiva in danno dell’imprenditore C.A. per la quale erano stati tratti in arresto (il 22/12/2007) P.F.A. e Ma.Do., il Tribunale osservava che dalle numerose conversazioni intercettate in carcere emergeva una diatriba fra le famiglie dei detenuti e gli altri soggetti che erano rimasti indenni dall’azione giudiziaria ai quali venivano rivolte pressanti richieste di denaro, soprattutto da Pa.Ra., padre di P. F.A. nei confronti di M.N..

Ad opinione del Tribunale le pretese di assistenza economica dei detenuti non nascevano dalla loro affiliazione ad una associazione di stampo mafioso facente capo al clan Lo Bianco, quanto piuttosto erano legittimate dal fatto che M.N. e L.B.G. erano coinvolti nell’estorsione e, pertanto, dovevano prestare aiuto ai loro complici tratti in arresto.

Osserva il Tribunale che da una conversazione intercorsa l’11 luglio 2008 fra Pa.Ra. e Lo.Bi.Pa. (figlio del boss L. B.C.) si evinceva che la vicenda estorsiva era un affare esclusivo di M. e non della famiglia L.B., in quanto il figlio del boss, nel tentativo di intromettersi era stato letteralmente zittito dal M. (sono fatti miei).

Pertanto il Tribunale reputava che M.N., approfittando della debolezza del vecchio ( L.B.C.) avesse organizzato una autonoma attività delinquenziale nella quale concorreva P. F.A..

Quest’ultimo aveva compiuto numerose imprese criminali, associato ad altri soggetti, con i quali spartiva i proventi, senza, tuttavia, che emergessero gli estremi di un vincolo associativo.

Osservava il Tribunale che gli elementi indiziari in atti dimostravano che, negli anni 2007/2008, dopo l’arresto del boss e dei sodali della cosca Lo Bianco, un gruppo di criminali ( M.N., L.B.G., Ma.Vi., Mo.Sa., P.F.A., Ma.Do. ed il fratello Ma.Fr.) scorazzava in libertà per il territorio vibonese, ponendo in essere, singolarmente ed in concorso, condotte illecite.

In tale periodo di anarchia criminale si collocavano la vicenda estorsiva, il pestaggio degli operai, le estorsioni che il P. poneva in essere con il Mo.Sa., le imprecisate assunzioni imposte ai titolari del Supermercato Eurospin, nonchè la costituzione di società fittiziamente intestate a terzi.

Precisava, inoltre, il Tribunale che, pur non sussistendo dubbi che le attività economiche realizzate attraverso l’interposizione fittizia fossero illecite, tuttavia non sussistevano elementi per affermare che esse fossero gestite da M.N. e M. A. per ricondurle alla cosca Lo Bianco.

Rilevava, peraltro, il Tribunale che, dopo la sua scarcerazione dagli arresti domiciliari, il 10 giugno 2009, Ma.An. aveva avuto continue frequentazioni con P.F.A., Mo.Sa., Ma.Vi., i quali si erano attivati per fornirgli copertura sintomatica di attività sommerse, come l’acquisto di schede telefoniche intestate a La.Be.Mi. e la bonifica della vettura.

Concludeva, quindi, il Tribunale osservando che dagli atti emergeva che Ma.An., nonostante si fosse circondato di soggetti dei quali era conosciuto il radicamento criminale sul territorio vibonese, non aveva creato alcuna organizzazione criminale stabile, nè nel proprio interesse, nè nell’interesse di L.B.C., precisando, tuttavia che la disponibilità di tali soggetti ( Ma.Vi., P.F.A. e M. S.) l’apprestamento di molte cautele per eludere i controlli delle forze dell’ordine, nonchè il carisma di Ma.An., che contava sull’appoggio di microcriminali come i Ma. lasciavano intravedere rapporti criminali in consolidazione che, verosimilmente, preludevano ad una organizzazione criminale stabile.

Proponevano ricorso per cassazione il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Catanzaro e il difensore dell’indagato.

1) Il P.M. deduceva la mancanza e manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti specificamente indicati.

Il P.M. ricorrente eccepisce l’intrinseca contraddittorietà della conclusioni a cui è pervenuto il Tribunale il quale, dando per scontata l’aggregazione intorno a Ma.An. di un gruppo di criminali che si proponeva di perpetrare azioni delittuose e che altre ne aveva già realizzate, di grande visibilità, non fa altro che delineare un fenomeno che non risulta qualificabile in termini diversi dalla "associazione criminale".

Obietta che nel concorso di persone nel reato continuato l’aggregazione delle volontà delittuose avviene in relazione a specifici reati programmati, cosicchè l’esistenza di una volontà di più soggetti, tesa alla commissione di reati futuri ed indeterminati, ed, in particolare, l’osservazione che costoro avessero intrapreso l’esercizio di attività economiche con lo scudo di soggetti formalmente incensurati allo scopo di mascherare tratti di illegalità della loro futura attività, dimostra l’esistenza di un programma futuro ed indifferenziato, teso alla commissione di reati che, sicuramente fuoriesce dall’ambito meramente concorsuale.

Più specificamente il P.M. ricorrente osserva che le conclusioni raggiunte dal Tribunale del riesame si pongono in contraddizione con la valutazione che lo stesso Collegio ha effettuato delle emergenze processuali.

A questo riguardo il P.M. osserva che è pacifico che il gruppo Lo Bianco è stato riconosciuto come un sodalizio mafioso da una sentenza, ancora non definitiva, emessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro.

Del pari scontata, nella ricostruzione del Tribunale è la commissione da parte di P.F.A., L.B. G., Mo.Sa., M.N. del tentativo di estorsione commesso in data 22/12/2007 in danno dell’imprenditore C.A., per il quale il Ma.Do. ed il P. erano stati tratti in arresto.

E tuttavia di fronte alla prova che il P. ed il Ma.Do. abbiano prima preteso e poi ottenuto assistenza economica dal M., dal Mo.Sa. e dal L.B., il Tribunale contraddittoriamente ha ritenuto che tale prestazione non abbia trovato il suo fondamento nell’esistenza di un rapporto associativi bensì nella responsabilità di questi ultimi a titolo di concorso nella stessa estorsione per la quale i due giovani erano stati arrestati.

Il P.M. ricorrente si duole che il Tribunale abbia tratto elementi per escludere l’affectio societatis da una conversazione intercettata (il 28 marzo 2009) di Pa.Ra., padre di P.F. A., nella quale costui esprime la convinzione dell’estraneità del figlio a qualunque rapporto di affiliazione criminale, senza tener nel debito conto una intercettazione del figlio (15 marzo 2008) nel quale costui riferiva esplicitamente di sè stesso come di "un diavolo nel gruppo".

Il Tribunale non avrebbe spiegato per quale motivo l’opinione di un congiunto dell’indagato sulla sua appartenenza o meno ad un determinato sodalizio criminale dovrebbe prevalere su quanto riferito dallo stesso indagato.

Il Tribunale inoltre avrebbe fatto una lettura illogica di specifici elementi indiziari, reputando irrilevante la spendita del nome di L.B.C. per la consumazione dell’estorsione ai danni di C.A. ed effettuando una interpretazione sbagliata della conversazione intercorsa l’11 luglio 2008 fra Pa.

R. e Lo.Bi.Pa. e di altre conversazioni intercettate.

Ulteriori contraddittorietà della motivazione emergerebbero nell’analisi del ruolo di Ma.An., avendo il Tribunale ignorato gli esiti di specifiche intercettazioni (relative a rapporti fra Ma.Do. e Ma.An.) dalle quali emerge che costui, nonostante il suo stato di detenzione, proseguiva nel suo ruolo di riferimento dell’agire degli altri consociati.

Anche la ricostruzione della vicenda relativa al dentista F. E. sarebbe frutto di una errata lettura della conversazione intercettata il 18/2/2010 nell’autovettura dei fratelli Ga..

Il P.M. ricorrente, inoltre si duole che il provvedimento del Tribunale sarebbe caratterizzato da una grave omissione nella lettura degli elementi di prova circa l’utilizzo del metodo mafioso per l’assoggettamento di alcune imprese operanti nel settore della pubblicità e degli appalti di pubblici servizi.

In definitiva il P.M. rileva tre gravi contraddizioni nel percorso logico del provvedimento impugnato.

In primo luogo il Tribunale esclude che il gruppo capeggiato da M.N., di cui individua come componenti P.F. A., Mo.Sa., L.B.G. sia riconducibile a L.B.C..

Al fine di giustificare tale conclusione il Collegio, nonostante il rapporto di affinità fra il L.B. ed il M. (che ne è genero) attribuisce decisività ad una serie di conversazioni dalle quali si evince il desiderio del M. di rendersi autonomo dal suocero, omettendo di confrontare tale conclusione con il fatto che il gruppo spendeva il nome del capo per commettere estorsioni.

In secondo luogo il Tribunale descrive il rapporto fra gli indagati in termini di "aggregazione per commettere episodicamente reati" accompagnata dalla idea di "costituire un gruppo che potesse sostituire l’egemonia della cosca Lo Bianco", senza rendersi conto della apoditticità di tale conclusione.

In terzo luogo il Tribunale non ha tenuto conto alcuno del materiale probatorio, riportato nella ordinanza cautelare, dimostrante come gli indagati fossero coinvolti nella gestione di imprese che avevano realizzato un pesante condizionamento dell’economia vibonese attraverso metodologie mafiose.

Di conseguenza il P.M. chiede l’annullamento del provvedimento impugnato, osservando che il ripristino dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 impedirebbe la concessione della misura gradata degli arresti domiciliari.

Il difensore dell’indagato deduceva i seguenti motivi:

a) Violazione dell’art. 273 c.p.p. nonchè manifesta illogicità della motivazione con riferimento ai reati di cui ai capi h) e i), concernenti le armi ritenendo che il Tribunale abbia equivocato sull’oggetto delle conversazioni intercettate ritenendo riferirsi alle armi;

b) Violazione degli artt. 274 e 275 c.p.p. e violazione dell’art. 125 c.p.p. in ordine alla carenza di motivazione con riferimento alla scelta della misura cautelare estrema e sulla impossibilità di disporre misure cautelari alternative, avendo anche il Tribunale escluso l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.
Motivi della decisione

1) Il ricorso del Pubblico Ministero è incentrato sulla ritenuta omessa rilevazione della sussistenza degli elementi che consentano di configurare la esistenza del sodalizio criminale diretto da L. B.C. e dal Ma.An..

Dalla impostazione generale della ordinanza impugnata, con riferimento ai singoli episodi esaminati, pur evidenziandosi il notevole spessore criminale degli indagati, il Tribunale esprime incertezza sulla circostanza che le rispettive condotte delittuose fossero originate dall’appartenenza alla cosca dei Lo Bianco e che fossero espressione della forza intimidatoria di tale gruppo e non, invece, di autonome iniziative degli indagati, come desumibile dalla natura strettamente personale delle intimidazioni, evidenziando anche il dissidio latente fra L.B.C. e l’"antico sodale" Ma.An., escludendo che le attività dei sottogruppi fossero riconducibili alla cosca madre, rilevando come la dissociazione del Ma.An. fosse comprovata dalle stesse dichiarazioni del L.B. che lo qualifica, nelle intercettazioni, con disprezzo " pi.".

Il Tribunale riteneva, conseguentemente, la inverosimile prospettiva che Ma.An. abbia potuto programmare l’operatività criminale di un nuovo gruppo all’interno della cosca Lo Bianco, rilevando come il gruppo di fedeli al Ma.An. si sia liberamente aggregato al di fuori del contesto associativo del L. B., come desunto dalla circostanza che intorno al Ma.

A. si siano aggregati soggetti che erano portatori di interessi economici, sin dall’origine, antagonisti ai L.B., escludendo la sussistenza di un’unica organizzazione criminale, facente capo al L.B., in cui possano ritenersi inseriti gli attuali indagati.

In particolare, il Tribunale ritiene che appare una "superfetazione" la tesi di fondo dell’ordinanza del G.I.P. che l’egemonia dei L. B. non consentisse spazi di autonomia criminale ad altri gruppi che, ove esistenti, dovevano essere considerato una sorta di propaggine con conseguente imputazione della loro attività alla cosca madre, evidenziando, in senso contrario, dai primi mesi dell’anno 2007, in costanza della detenzione di L.B.C., la comparsa sul territorio di soggetti criminali che agivano al di fuori del contesto associativo egemone dei L.B..

Il Tribunale del riesame evidenzia come dall’attività di intercettazione e dal compendio indiziario non si traggono elementi certi da cui poter desumere la natura associativa dei rapporti tra L.B.C. e gli indagati idonei a dimostrare che il boss, fin dall’epoca in cui era detenuto in carcere per associazione mafiosa, avesse promosso e gestito, anche per conto di fiduciari, l’organizzazione di stampo mafioso di cui al capo d’imputazione del presente giudizio.

Il G.I.P., inoltre, esclude la partecipazione del M. e di L. B.C. nel concorso nell’estorsione ai danni di C. A. a cui era stato richiesto denaro a titolo di assistenza alimentare legale agli associati detenuti.

Il Tribunale del riesame ha evidenziato che la disponibilità, anche in capo all’indagato, di schede telefoniche intestate a terzi, evidentemente finalizzate ad eludere i controlli delle Forze dell’Ordine, lasciavano intravedere rapporti criminali in consolidazione che, verosimilmente, precludevano ad una organizzazione criminale stabile, ma non ancora costituita nei suoi elementi essenziali.

Lo stesso padre dell’indagato ( Pa.Ra.), nella conversazione intercettata in data 20.9.2009, parlando dell’arresto del figlio, ha affermato che questi aveva l’arma "perchè voleva dimostrare di non avere paura", desumendone il tribunale che il prevenuto non era armato per uno specifico compito al quale doveva assolvere, ma per una consuetudine diffusa negli ambienti delinquenziali, alla quale non aveva inteso rinunciare per orgoglio criminale.

Il Tribunale, ritiene, inoltre, non rispondente a verità la circostanza, sostenuta dall’accusa, che il Ma.An. si era accollato le spese legali relative all’arresto di P., in quanto dalla conversazione intercettata il 14 settembre 2009 (f. 270 ord.) si evince che quest’ultimo sperava nel pagamento del lavoro di rivestimento già eseguito nell’edificio in costruzione "perchè doveva portare i soldi dell’avvocato che aveva fissato il caso".

Va premesso che la modifica normativa dell’art. 606 c.p.p., lett. e), di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46, lascia inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di Cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito.

Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, il cui vizio di mancanza, illogicità o contraddittorietà può ora essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati.

E’ perciò possibile valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorchè si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia.

Attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione.

Ciò peraltro vale nell’ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell’ipotesi di doppia pronunzia conforme il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice d’appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice.

Quando il giudice del riesame ritenga di modificare la decisione del primo giudice può evitare di analizzare le ragioni poste a fondamento dell’originaria pronuncia e specificare quelle che inducono invece ad un diverso giudizio, a condizione che la decisione di riforma sia sorretta da un’adeguata, completa e convincente motivazione, dando di per sè ragione, con caratteri di assoluta decisività, della diversa scelta operata e della prevalenza attribuita ad elementi prova diversi o diversamente valutati (Sez. 6^, Sentenza n. 9478 del 10/11/2009 Cc. (dep. 10/03/2010) Rv.

246401).

Il giudice d’appello può, pertanto, pervenire ad una ricostruzione del fatto difforme da quella effettuata dal giudice di primo grado, ma in tal caso, per non incorrere nel vizio di motivazione, ha l’onere di tenere conto delle valutazioni in proposito svolte da quest’ultimo e di indicare le ragioni per le quali intende discostarsene (Sez. 4^, Sentenza n. 37094 del 07/07/2008 Ud. (dep. 30/09/2008) Rv. 241024).

Alla luce di tali considerazioni deve ritenersi fondato il ricorso del P.M. nonostante la tecnica espositiva del ricorso "affastellante".

Il PM ricorrente ritiene, anche, che le modalità di svolgimento dell’attività imprenditoriale della Pubbliservice Sud ne evidenzino la natura mafiosa, potendo l’associazione criminale essere riconosciuta anche qualora ponga in essere condotte di acquisizione del controllo di attività economiche ovvero il perseguimento di profitti non illeciti ma, comunque, ingiusti.

Rilevava, inoltre, come la Publiservice Sud fosse una propagazione operativa dell’associazione mafiosa di cui fanno parte gli indagati per inserirsi e condizionare attivamente un preciso settore economico procurandosi ingiusti guadagni derivanti dalla fornitura di servizi pubblicitari non corrispondenti a uno standard qualitativo adeguato, ritenendo che la crescita economica di tale società non fosse una conseguenza della capacità operativa sul mercato, ma fosse stata originata dalla capacità di intimidazione derivante dall’appartenenza degli indagati al sodalizio criminale "Lo Bianco".

Il Tribunale, pur evidenziando "una realtà di elevato spessore criminale", non ritiene sussistenti gravi indizi idonei a poter configurare "come dato processuale certo la costituzione di un nuovo organismo criminale di stampo mafioso facente capo a Ma.

A. e contrapposto a quello dei L.B." anche, evidentemente, con riferimento alle condotte poste in essere da Ma.Vi., quale intestatario fittizio della Publiservice Sud, mancando, elementi certi da cui desumere che l’attività economica di tale società fosse condizionata dalla capacità di intimidazione derivante dall’appartenenza degli indagati al sodalizio criminale "Lo Bianco", la cui partecipazione è stata esclusa, e non, piuttosto, da quella derivante dallo spessore criminale proprio di ciascun socio.

Il provvedimento impugnato è viziato da motivazione contraddittoria, illogica, ed apparente.

Secondo l’insegnamento di questa Corte: "l’elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato, è individuabile nel carattere dell’accordo criminoso, che nel concorso si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati – anche nell’ambito di un medesimo disegno criminoso – con la realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati" (Cass. Sez. 5^, Sentenza n. 42635 del 04/10/2004 Ud.

(dep. 03/11/2004) Rv. 229906).

Nel caso di specie, il Tribunale per il riesame ha fondato le sue conclusioni, che riconoscono il concorso meramente occasionale ed accidentale dei soggetti indagati nella commissione di specifici reati al posto della sussistenza del vincolo associativo e di un più vasto programma criminoso per la commissione di una serie indeterminata di delitti, su un percorso argomentativo contraddittorio e palesemente illogico.

Il Tribunale, infatti, ha riconosciuto che gli elementi indiziari in atti dimostravano che, negli anni 2007/2008, dopo l’arresto del boss e dei sodali della cosca Lo Bianco, un gruppo di criminali ( M. N., L.B.G., Ma.Vi., M. S., P.F.A., Ma.Do. ed il fratello Ma.Fr.) scorazzava in libertà per il territorio vibonese, ponendo in essere, singolarmente ed in concorso, condotte illecite.

Ha quindi precisato che in tale periodo di anarchia criminale si collocavano la vicenda estorsiva (ai danni dell’imprenditore C.A.), il pestaggio degli operai, le estorsioni che il P. poneva in essere con il Mo.Sa., le imprecisate assunzioni imposte ai titolari del Supermercato Eurospin, nonchè la costituzione di società fittiziamente intestate a terzi, aggiungendo che non sussistono dubbi che le attività economiche realizzate attraverso l’interposizione fittizia fossero illecite.

Ha quindi ulteriormente riconosciuto che, dopo la sua scarcerazione dagli arresti domiciliari (giugno 2009); Ma.An. aveva avuto continue frequentazioni con P.F.A., Mo.Sa., Ma.Vi., i quali si erano attivati per fornirgli copertura sintomatica di attività sommerse, come l’acquisto di schede telefoniche intestate a terzi e la bonifica della vettura ed ha preso atto che nello stesso periodo si verificavano alcuni atti intimidatori nei confronti di P. N. e del dentista F.E. riferibili ai fratelli Ma.Do. e Ma.Fr., soggetti da mettere in relazione con Ma.An..

Tanto premesso, il Tribunale conclude il suo percorso argomentativo con un postulato contraddittorio rispetto alla premesse, assumendo che i fatti descritti lasciano intendere intensi rapporti criminosi fra il Ma.An. ed il gruppo di criminali che scorazzavano nel Vibonese che preludono ad una organizzazione criminale in itinere, non ancora costituita.

Tale conclusione appare palesemente illogica in quanto contrasta con gli elementi di cui il Collegio ha preso conoscenza che testimoniano una intensa attività criminale che, proprio in quanto tale, non si adatta alla tesi del concorso episodico ed occasionale in specifici reati.

La forma libera che caratterizza il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, e dunque la mancanza di tipizzazione della relativa condotta, consentono al giudice di merito di cogliere, nel processo di metamorfosi della mafia nel tessuto sociale ed economico, i contenuti dell’appartenenza anche in nuove e più evolute forme comportamentali di adattamento o di mimetizzazione, rispetto alla classica iconografia del mafioso (cfr. Sez. 5^, Sentenza n. 17380 del 18/01/2005 Ud. (dep. 06/05/2005) Rv. 231781).

Le conclusioni assunte dal Tribunale per il riesame, peraltro, sono viziate da motivazione apparente con riferimento agli elementi probatori che emergono dall’O.C.C. in quanto il Collegio non ha tenuto conto alcuno di tale materia probatorio, nulla osservando rispetto a quelle intercettazioni che dimostrano – in ipotesi – un modus operandi degli indagati coinvolti nella gestione delle imprese volto a realizzare un condizionamento dell’economia vibonese attraverso metodologie mafiose.

Nel caso di specie, infatti, il Tribunale si è limitato a proporre un’interpretazione semplificante dell’intimidazione subita da Ma.Do., titolare della PUBLIEMME, senza trame le logiche conseguenze circa le modalità operative degli indagati nella gestione della ditta Publiservice Sud e senza prendere minimamente in considerazione gli esiti delle altre intercettazioni relative alle modalità intimidatorie nel procacciamento e nel rapporto con i clienti.

In questo contesto il giudizio sull’episodicità od occasionalità dei reati commessi in concorso da alcuni degli indagati risulta viziato anche dalla pretermissione dell’esame degli elementi scaturenti dalla condotta nella gestione delle imprese, in quanto l’eventuale utilizzo di modalità mafiose nella gestione delle attività economiche fittiziamente intestate a dei prestanome, rimanda all’esistenza di un programma futuro ed indifferenziato, teso alla commissione di reati, incompatibile con la tesi del concorso di persone in specifici reati.

Di conseguenza il provvedimento impugnato deve essere annullato con rinvio al Tribunale di Catanzaro, in diversa composizione, per nuovo esame, con riferimento al reato associativo e, consequenzialmente anche al reato di cui al capo e).

L’annullamento con riferimento al capo a) della imputazione travolge anche la valutazione sulla inesistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 nonchè la disposta sostituzione della misura cautelare degli arresti domiciliari a quella della custodia in carcere, dovendo il Tribunale operare una nuova valutazione al riguardo.

2) Passando all’esame del primo motivo di ricorso dell’indagato, va evidenziato che attiene a profili di fatto che non possono essere valutati da questa Corte di legittimità avendo il Tribunale, con motivazione coerente e logica, ritenuto, sulla base delle intercettazioni, che l’indagato abbia detenuto armi e munizioni e come le stesse siano state rimosse poco prima delle perquisizioni effettuate presso la sua abitazione, in occasione del suo arresto, dallo zio Tr.Gi. e dal padre Pa.Ra., con una interpretazione corretta delle perifrasi, delle frasi e delle espressioni adoperate nei colloqui tra l’indagato e i suoi familiari ("maglione" – "moto") utilizzando un linguaggio idoneo a nascondere il vero oggetto della discussione, ovvero le armi.

Peraltro presso l’abitazione del P., in occasione del suo arresto, è stato rinvenuto materiale balistico costituito da molte cartucce di armi diverse e in una successiva occasione all’interno del sottotetto, a cui si accedeva attraverso una scala retrattile posta sul pianerottolo antistante la porta di ingresso dell’appartamento ove abitava l’indagato, veniva rinvenuta una cartucciera contenente 22 cartucce per fucile.

In relazione, poi, alla doglianza sulla sussistenza delle esigenze cautelari motivo di ricorso), si deve osservare che il Tribunale del riesame ha esattamente valutato, per quanto riguarda il pericolo di cui all’art. 274 c.p.p., lett. C), sia l’oggettiva gravità e modalità di esecuzione dei fatti, desunta, in particolare, dalla spregiudicatezza dell’azione delittuosa, nonchè dalla abilità nel gestire con disinvoltura un ingente materiale balistico e le trattative ad esso riferite, sintomo inequivoco di vicinanza ad ambienti criminali, non trattandosi di un episodio isolato, sia la personalità dell’indagato gravato da due precedenti penali specifici.

Sulla correttezza di tali considerazioni del Tribunale è sufficiente richiamare il principio giuridico, più volte ribadito da questa Corte e condiviso dal Collegio, che, in tema di esigenze cautelari, il pericolo di reiterazione del reato può essere desunto dai criteri stabiliti dall’art. 133 c.p., tra i quali sono ricompresi le modalità e la gravità del fatto, sicchè non deve essere considerato il tipo di reato o una sua ipotetica gravità, bensì devono essere valutate – come congruamente è stato operato nel caso di specie – situazioni correlate con i fatti del procedimento ed inerenti ad elementi sintomatici della pericolosità dell’indagato.

(Sez. 4^, Sentenza n. 34271 del 03/07/2007 Cc. -dep. 10/09/2007 – Rv.

237240).

Inoltre, in tema di misure cautelari, nella verifica sulla sussistenza delle esigenze cautelari legate al pericolo che l’indagato o l’imputato commetta alcuni gravi delitti o comunque delitti della stessa specie di quello per cui si procede, il giudice deve tenere conto anche dei precedenti giudiziari, che, rilevano, oltre che nel giudizio sulla capacità a delinquere, in ogni altro caso in cui occorra procedere ad una valutazione della personalità dell’indagato o dell’imputato. (Sez. 6^, Sentenza n. 29405 del 11/07/2006 Cc. – dep. 24/08/2006 – Rv. 234974).

La motivazione di cui sopra appare adeguata a spiegare la scelta della custodia cautelare in carcere quale unica misura idonea a prevenire il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie e di inquinamento probatorio, alla luce dell’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, secondo il quale in tema di scelta e adeguatezza delle misure cautelari, ai fini della motivazione del provvedimento di custodia in carcere, non è necessaria un’analitica dimostrazione delle ragioni che rendono inadeguata ogni altra misura, ma è sufficiente che il giudice indichi, con argomenti logico- giuridici tratti dalla natura e dalle modalità di commissione dei reati nonchè dalla personalità dell’indagato, gli elementi specifici che, nella singola fattispecie, fanno ragionevolmente ritenere la custodia in carcere come la misura più adeguata ad impedire la prosecuzione dell’attività criminosa, rimanendo in tal modo superata e assorbita l’ulteriore dimostrazione dell’inidoneità delle subordinate misure cautelari. (Cass. Sez. 1^ sent. n. 45011 del 26.9.2003 dep. 21.11.2003 rv 227304).

E’ evidente, quindi, che le censure proposte dal ricorrente pur investendo formalmente la motivazione del provvedimento impugnato o la conformità dello stesso ai presupposti giuridici che lo giustificano, in realtà si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito.

Tali censure sono pertanto improponibili, perchè superano i limiti cognitivi di questa Suprema Corte, che, quale giudice di legittimità, deve far riferimento solo all’eventuale mancanza della motivazione o alla sua illogicità o contraddittorietà. (Si vedano fra le tante: C., SU 12/12/1994, De Lorenzo, CED199391; C., 6^ 15/05/2003, P., GD 2003, n 45,93).

L’annullamento con riferimento al capo a) della imputazione travolge anche la valutazione sulla inesistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 dovendo il Tribunale operare una nuova valutazione al riguardo.

Di conseguenza il provvedimento impugnato deve essere annullato, limitatamente ai capi a) ed e) con rinvio al Tribunale di Catanzaro, in diversa composizione, per nuovo esame.

Alla declatoria di inammissibilità del ricorso dell’indagato, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., consegue la condanna dello stesso al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle Ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

Non conseguendo dalla presente sentenza la rimessione in libertà dell’indagato, si dispone che la cancelleria, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, trasmetta copia di questo provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario nel quale è detenuto il ricorrente.
P.Q.M.

Annulla l’impugnata ordinanza, limitatamente ai capi a) ed e) con rinvio al Tribunale di Catanzaro per nuovo esame.

Dichiara inammissibile il ricorso di P.F.A. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle Ammende.

Si provveda a norma dell’art. 94 c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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