Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 14-01-2011) 28-03-2011, n. 12460 Falsità ideologica in atti pubblici omicidio colposo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. D.L.R.S., anestesista presso l’ospedale (OMISSIS), è stato condannato dal Tribunale di Roma, concesse le attenuanti generiche, alla pena di un anno di reclusione con i benefici di legge e al risarcimento del danno in favore della parte civile cui veniva riconosciuta una provvisionale di 100000,00 Euro, per omicidio colposo in relazione al decesso del paziente C.F. e per il reato di cui all’art. 479 c.p. in relazione a quanto dal medico annotato nella cartella clinica.

2. La sentenza è stata confermata dalla Corte di appello. Il C. in data (OMISSIS) si sottoponeva ad intervento chirurgico per la riduzione di una ampia e profonda ferita lacero contusa alla mano sinistra, intervento che veniva effettuato in anestesia generale a cura dell’imputato; il paziente presentava una situazione particolare dal punto di vista anestesiologico, essendo corpulento ed avendo il collo corto; secondo quanto ritenuto dal collegio peritale nominato nel giudizio di appello, nell’esecuzione del trattamento anestesiologico, il D.L. si era attenuto alle "leges artis" fino al momento in cui, decorsi circa 20 minuti dall’inizio dell’intervento, si verificò l’insorgenza di broncospasmo ed insufficienza respiratoria con grave ipossemia arteriosa, eventi che egli fronteggiò con imperizia; secondo i periti, vi erano stati due gravi errori dell’imputato per fronteggiare il broncospasmo il primo quello di aver iniettato al paziente un cortisonico che impiega non poco tempo per agire, invece di usare adrenalina o salbutamolo che agiscono rapidamente; il secondo quello di aver tentato per troppo tempo di intubare il paziente, omettendo di ventilarlo tra un tentativo e l’altro e lasciando in tal modo che si verificasse una grave desaturazione del sangue con danni irreversibili al cervello. Di contro, il dottor R., che era stato chiamato in aiuto del collega, aveva subito applicato al paziente una maschera orofaringea, il c.d. C.O.P.A., con immediato ripristino della ventilazione; l’uso di tale apparato aveva prodotto un immediato ristabilimento della ventilazione del paziente e un conseguente adeguato tasso di ossigenazione, tanto che l’operazione venne condotta a termine ed il paziente sopravvisse per quasi cinque anni; se non che il ripristino dell’ossigenazione si rivelò comunque tardivo atteso che la grave ipossemia già verificatasi aveva prodotto nel paziente lesioni irreversibili al cervello; l’intervento del R. era comunque la prova che ove D. L. avesse adottato fin dall’inizio l’apparato da questi usato (la maschera orofaringea), l’evento di cui è causa non si sarebbe verificato. La encefalopatia ipossica insorta a causa dell’anestesia comportava che il D.L. non riprendeva più coscienza, ma rimaneva in stato di coma profondo fino al 26.5.2004, quando se ne verificava il decesso per insufficienza respiratoria, determinata da broncopolmonite acuta verificatasi in soggetto con grave deperimento organico e stato vegetativo permanente, decesso che, secondo il collegio peritale, era da ricondursi alla condotta imperita del dott. D.L. nel corso dell’anestesia.

2. Avverso la sentenza dei giudici di appello ha presentato ricorso per cassazione la difesa dell’imputato. Con il primo motivo si duole della mancata assoluzione del D.L. perchè il fatto non sussiste;

rappresenta che il giudice di appello ha disposto una perizia e ha ritenuto la responsabilità dell’imputato sulla base degli esiti della stessa, ignorando però che gli stessi periti avevano ritenuto corretto il comportamento del D.L. nella fase preparatoria e fondando la responsabilità su profili diversi da quelli che erano stati valorizzati dal primo giudice e su condotte non menzionale nel capo di imputazione; vi sarebbe stato un cambio di impostazione non consentito e di cui la Corte di appello non da spiegazione; inoltre sarebbe del tutto assente la motivazione in tema di nesso causale per quanto riguarda sia il comportamento del dott. R. sia la valutazione del lungo intervallo di tempo, oltre quattro anni, decorso tra l’intervento operatorio ed il decesso. Tale profilo è ulteriormente sviluppato con il secondo motivo che lamenta la mancata assoluzione sotto il profilo della insussistenza del nesso di causalità. Il decesso si è verificato a distanza di quattro anni dalla condotta contestata all’imputato; la sentenza non spiega perchè si debba ritenere sussistente il nesso causale, limitandosi a riportare le conclusioni dei periti senza alcun accertamento circa i trattamenti sanitari cui il C. fu sottoposto in tale periodo, così non rispettando i principi posti in tema di nesso di causalità da questa Corte ed in particolare la sentenza n. 28564 del 19 maggio 2005. Il terzo motivo attiene alla mancata assoluzione dal reato di falso. Con il quarto si contesta la mancanza di motivazione in ordine alle ragioni per le quali è stata rigettata la richiesta di riduzione della pena. Con il quinto si lamenta la mancanza di qualsiasi accertamento circa l’ammontare del danno subito dalle parti civili cui rapportare l’ammontare della provvisionale.
Motivi della decisione

1. Il ricorso non merita accoglimento.

1.1 Il primo motivo è infondato. Non sussiste alcun improvviso "cambio di impostazione" – secondo quanto prospetta il ricorrente – nel fatto che il giudice di appello abbia condiviso e fatto propri i rilievi dei periti circa gli addebiti colposi riscontrati nel comportamento dell’imputato; la motivazione della sentenza impugnata è invece del tutto fisiologica, è il frutto di un normale sviluppo dell’iter processuale, atteso che la Corte di appello, anche a seguito delle censure formulate con l’appello da parte dell’imputato, ha disposto una apposita perizia per accertare i fatti di causa e dare risposta alle varie questioni. Alle operazioni peritali la difesa dell’imputato ha avuto piena possibilità di intervenire e di interloquire sui risultati raggiunti, rappresentando il proprio punto di vista. La sentenza si basa sulle puntuali e precise considerazioni dei periti, riportate in sentenza nelle parti essenziali, e fornisce piena e corretta motivazione del comportamento colposo del dottor D. L. che aveva somministrato al paziente, a fronte dell’insorta difficoltà, un farmaco non adatto e aveva tardato nel far ricorso alla maschera orofaringea(copa), poi applicata su disposizione del collega R., chiamato in aiuto. La sofferenza così subita dal paziente, sia pure interrotta a seguito dell’applicazione della maschera, era risultata ormai irreversibile ed era stata causa dello stato di coma, ininterrottamente protrattosi fino al momento della morte sopravvenuta per un processo infettivo polmonare dipendente dallo stato vegetativo. Va ancora aggiunto che il capo di imputazione faceva riferimento a plurimi profili di colpa da parte del D.L. e che anche il giudice di primo grado aveva ritenuto colposo il comportamento dell’anestesista che aveva utilizzato la semplice maschera facciale, e non quella laringea, senza predisporre tecniche alternative.

1.2 Parimenti infondato è il secondo motivo essendo stata correttamente apprezzata dal giudice di merito la causalità, anche nella sua componente giuridica. La sentenza impugnata da infatti atto, in termini di assoluta certezza e basandosi sull’apprezzamento espresso dai periti, del collegamento esistente tra la broncopolmonite che ha causato il decesso del C. e lo stato vegetativo, comportante grave deperimento organico, in cui egli venne a trovarsi a seguito dell’incidente anestesiologico addebitato all’imputato. In tale situazione non è lecito dubitare del nesso di causalità, avendo il colposo comportamento del D.L. creato la condizione di coma che, secondo l’opinione dei periti, ha facilitato l’insorgenza della broncopolmonite; risulta dunque positivamente accertato la causalità giuridica ed improprio è il richiamo da parte del ricorrente alla sentenza di questa sezione del 19 maggio 2005 n. 28564, atteso che l’annullamento disposto in tale caso si ricollega alla diversità della situazione di cui la Corte si era occupata e precisamente quella di un paziente che era morto non solo a distanza di tempo dall’intervento di un altro medico oggetto di giudizio, ma specialmente per una causa di morte di natura diversa e non ricollegata in modo evidente alle patologie alle quali si riferiva il trattamento ritenuto inadeguato.

Nel presente caso invece non vi è dubbio, stando alle risultanze processuali debitamente apprezzate dalla corte di appello, che la causa della morte, per polmonite virale in paziente debilitato dallo stato di coma, si pone in nesso causale con il comportamento del medico che quel coma ha cagionato.

1.3 Per quanto riguarda la falsificazione della cartella clinica, il ricorrente lamenta che non si sarebbe tenuto conto del fatto che egli aveva ammesso di aver formato una seconda cartella poichè l’originale era stato smarrito e che in ogni caso la Corte di appello ha modificato le argomentazioni sulla cui base era stato ritenuto il reato, con un ragionamento che, alla luce del contenuto delle due cartelle, che il ricorrente richiama, risulterebbe illogico. Rileva il Collegio che non è consentito a questa Corte l’esame diretto di documenti processuali, essendo il vizio di motivazione destinato, come noto, a sottoporre a questa Corte un controllo sul ragionamento seguito dal giudice di merito nel pervenire alle rese stazioni; nella specie il ragionamento seguito dalla Corte di appello di Roma per ritenere sussistente il reato in esame è chiaro e lineare: in nessuna delle due cartelle il D.L. fa menzione del fatto che la C.O.P.A. fu applicata dal collega R., all’evidente scopo di non evidenziare la propria negligenza; inoltre le due cartelle non risultavano uguali, solo la seconda contenendo la menzione "nega allergie" e solo la prima il riferimento alla maschera laringea.

Motivazione logica e sufficiente a fornire le ragioni della decisione assunta.

1.4 Manifestamente infondato è il motivo che attiene alla determinazione della pena atteso che la Corte di appello, nel definire contenuta e comunque proporzionata alla entità dei fatti quella stabilita in primo grado, ha dimostrato di condividere il giudizio di gravità già espresso da quel giudice ed ha dunque fornito adeguata motivazione sul punto.

1.5 Da ultimo, con riferimento all’ammontare della provvisionale, occorre ricordare, da un lato, che secondo la giurisprudenza di questa Corte (sez. 5, 13.12.2000 n. 12634 rv. 218564) vale il principio per cui "In tema di risarcimento del danno derivante da reato, non è necessaria, ai fini della liquidazione della provvisionale, la prova dell’ammontare del danno stesso, ma è sufficiente la certezza della sua sussistenza sino all’ammontare della somma liquidata" ed osservare, dall’altro, che anche sulla base di nozioni di comune esperienza non appare seriamente dubitabile che l’ammontare determinato a tale titolo dal giudice non ecceda dal danno subito dalla parte civile in conseguenza del tragico evento che ha determinato lo stato di coma del C. per quasi cinque anni e poi la morte del medesimo.

2. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese in favore della parte civile che liquida in Euro 2500,00 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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