Cons. Stato Sez. VI, Sent., 24-03-2011, n. 1811 Pubblicità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio -Sede di Roma- ha parzialmente respinto il ricorso con il quale era stato chiesto da T.I. SPA l’annullamento del provvedimento adottato nei suoi confronti dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato con cui, ravvisata una pratica commerciale scorretta in violazione degli artt. 20, 21 e 22 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n.206 ("Codice del Consumo"), essa ne aveva vietato l’ulteriore diffusione e le aveva irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria.

In esito all’istruttoria, in conformità al parere reso da AGCOM, l’Autorità, riteneva infatti che la pratica commerciale in oggetto posta in essere dal provider e dai gestori di telefonia mobile T.I. S.p.A., V.O. N.V., W.T. S.p.A. e H. S.p.A., "costituisce, per le ragioni e nei limiti esposti in motivazione, una pratica commerciale scorretta ai sensi degli articoli 20, 21 e 22 del Decreto Legislativo n. 206/05, come modificato dal Decreto Legislativo n. 146/07", e ne vietava l’ulteriore diffusione irrogando alla società T. (ed anche agli altri gestori), una sanzione pecuniaria.

L’odierna appellante era insorta prospettando i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere sotto varii profili sintomatici.

Il Tribunale amministrativo regionale ha analiticamente esaminato le dedotte censure, respingendo quelle di merito ed accogliendo il ricorso soltanto in punto di quantificazione della sanzione affermando che vi era stata sottovalutazione (od omessa valutazione)da parte dell’Autorità dell’emergenza processuale rappresentata dalla circostanza che nella consumazione dell’illecito, la condotta omissiva di T. era stata senza dubbio subvalente rispetto alla condotta attiva del provider- che aveva realizzato e diffuso il messaggio.

Da ciò ha fatto discendere l’incongruenza di un importo base, sia pure di poco, superiore a quello in concreto inflitto al provider predetto.

Ha pertanto affermato che la misura della sanzione da irrogare a T. doveva essere rideterminata dalla stessa Autorità, nel suo importo base, in esecuzione della sentenza, e tenendosi altresì in considerazione che l’applicazione di "circostanze aggravanti" si appalesava corretta, e delle stesse doveva tenersi debitamente conto nella rideterminazione della sanzione.

Ricorso n. 4897 del 2010;

L’originaria ricorrente di primo grado rimasta parzialmente soccombente T.I. SPA ha censurato la predetta sentenza chiedendone l’annullamento in quanto viziata da errori di diritto ed illegittima sostenendo di non avere in nessun modo partecipato alla condotta posta in essere dal provider.

Nel merito, la "responsabilità editoriale" che graverebbe sull’appellante società, postulerebbe un inesistente "potere/dovere" di controllo sull’operato del provider: al contrario, però, l’appellante aveva dimostrato che il provider si era reso inottemperante agli obblighi negoziali contratti con l’appellante medesima.

Il primo giudice, così opinando, aveva obliato circostanze pacifiche e soprattutto, aveva fatto malgoverno delle disposizioni di cui agli artt. 1822 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n.206.

L’appellante società aveva infatti previsto un sistema di controllo sull’ operato del provider addirittura più incisivo di quelli tratteggiati ed auspicati dal Tribunale amministrativo (come poteva desumersi dal contratto stipulato con il provider medesimo).

Non era ascrivibile all’appellante la circostanza che la controparte avesse violato gli obblighi negoziali che sulla stessa incombevano non sottoponendo a T. i messaggi promozionali antecedentemente alla loro diffusione.

L’art. 18 lett. H) del citato decreto legislativo 6 settembre 2005 n.206 faceva riferimento al "normale grado di diligenza", e non già ad uno standard più elevato.

In ogni caso il Tribunale amministrativo regionale aveva invertito l’onere della prova: spettava all’Autorità procedente provare il deficit di diligenza, e non già all’incolpato dimostrarne la insussistenza.

Del pari risultava violato il precetto di "personalità" e quello di colpevolezza di cui agli artt. 1, 3 e 5 della legge della legge 24 novembre 1981, n. 689.

L’appellante aveva dimostrato che il provider si era reso inottemperante agli obblighi negoziali contratti con l’appellante medesima.

Né la violazione negoziale accertata da parte del terzo poteva ridondare esternamente sino a far configurare una responsabilità dell’appellante.

La tesi sposata dal Tribunale amministrativo regionale violava l’art. 2 e l’art. 5 co.II della Direttiva CE 11 maggio 2005 n. 29: T.I. Spa ha pertanto chiesto che, laddove la tesi del Tribunale amministrativo giudice fosse apparsa corretta al Collegio, venisse sollevata questione pregiudiziale ex art. 267 del Trattato.

Anche i criteri determinativi della sanzione applicati dall’Autorità (nella parte in cui se ne era confermata l’esattezza, da parte del primo giudice) erano errati.

In particolare il Tribunale amministrativo aveva fatto malgoverno (quantomeno in punto di quantificazione della sanzione) dei principi in materia di accertamento della decettività del messaggio e di idoneità del medesimo a falsare le scelte consumeristiche; e neppure era stato chiarito in base a quale valutazione si era ritenuto che la campagna pubblicitaria fosse diretta ad una platea di adolescenti.

L’appellata amministrazione si è costituita in giudizio depositando una articolata memoria e chiedendo la reiezione del gravame perché in parte inammissibile, in quanto contenente censure nuove (soprattutto in punto di individuazione ella "responsabilità editoriale") ed in parte infondato.

La pratica commerciale e pubblicitaria posta in essere dal provider era scorretta; l’appellante società rientrava certamente nel paradigma definitorio di "professionista" ai sensi del decreto legislativo 6 settembre 2005 n.206 (vi rientrava pienamente la figura del coautore).

Il requisito del beneficio economico non era l’unico indice di coinvolgimento dell’appellante.

Quanto alla responsabilità editoriale, le compagnie telefoniche erano tenute a visionare preventivamente i messaggi che il provider avrebbe successivamente diffuso: tale inottemperanza (ammessa dal gestore) ex se dimostrava l’evidente coinvolgimento degli operatori telefonici (tra i quali l’odierna appellante medesima) nella pratica commerciale illecita (e comunque le doglianze volte a postulare la omessa valutazione del sistema di controlli approntato da T. erano inammissibili in quanto "nuove").

L’unica azione concreta posta in essere da T. nei confronti del provider e volta a richiamare questi al rispetto degli obblighi negoziali era successiva all’avvio del procedimento per cui è causa

Nel merito, i profili decettivi ed omissivi del messaggio diffuso dal provider erano numerosi ed evidenti e, sotto altro profilo, appariva financo temerario dubitare della circostanza che esso fosse prevalentemente rivolto ad un pubblico di età adolescenziale, e che fosse in grado di falsare le scelte consumeristiche.

La questione relativa alla interpretazione dell’art 5 comma II della Direttiva CE 11 maggio 2005 n. 29 era, oltre che irrilevante, palesemente infondata e meritava di essere disattesa, conducendo all’esito paradossale per cui il "controllo" sarebbe stato esigibile soltanto da parte dei Gestori di minori proporzioni.

Anche la doglianza relativa all’importo della sanzione irrogata meritava di essere dichiarata infondata (e l’Autorità aveva proposto gravame principale con riferimento a tale profilo).

La T.I. Spa ha poi depositato una conclusiva memoria volta a confutare l’eccezione della difesa erariale dell’Autorità postulante la inammissibilità ex art. 345 del codice di procedura civile del primo motivo di appello da essa proposto (in tema di omessa valutazione dell’avvenuta predisposizione di un sistema di controllo dei messaggi diffusi dal provider, eluso da quest’ultimo in violazione del negozio giuridico stipulato dalle parti).

Ha ribadito la propria assoluta estraneità alla pratica commerciale contestata; il rifiuto del sillogismo per cui la sussistenza di un beneficio economico (l’incontestata previsione, cioè, del revenue sharing) potesse condurre all’affermazione di responsabilità oggettiva per fatto altrui.

La questione relativa alla interpretazione della Direttiva CE predetta in punto di nozione di "diligenza professionale" e di "pratica commerciale scorretta" era rilevante e fondata e meritava di essere accolta

Ricorso n. 4579 del 2010;

L’Autorità ha proposto appello principale avverso il capo dell’appellata decisione che ha dichiarato la sproporzione della sanzione applicata a T.I.: tale capo era errato, perché i ruoli del gestore di telefonia e del content provider erano certamente diversi, ma ciò non generava distinti livelli di responsabilità.

La condotta del provider era stata causalmente resa possibile dall’omissione del Gestore: la responsabilità concorsuale piena di quest’ultimo era evidente.

Neppure appariva chiaro il giudizio di "subvalenza" delle condotte ascritte a T. reso dal primo giudice, a fronte di un apporto causale pieno alla realizzazione dell’evento (la dimensione assoluta dell’operatore costituisce parametro valutativo che è doveroso ponderare al fine di assicurare l’effetto dissuasivo della sanzione).

L’interveniente Codacons ha depositato una articolata memoria facendo presente che la propria legitimatio ad causam discendeva dagli artt. 137, 139, 140 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n.206 ed ai sensi dell’art. 27 della legge 7 dicembre 2000 n. 383.

Ha in proposito ribadito la sussistenza di prove relative al coinvolgimento del gestore telefonico nella condotta scorretta censurata, ed ha richiamato l’art. 5 della legge 24 novembre 1981, n. 689 laddove si prescrive che i compartecipi dell’illecito siano destinatari della medesima sanzione.

Con una dettagliata memoria T.I. SPA ha compendiato e ribadito le doglianze contenute nei propri scritti impugnatori.

Ha in particolare evidenziato che le proprie difese non si erano incentrate sulla questione di merito (id est: sulla circostanza relativa alla scorrettezza o meno dei messaggi ai sensi del codice del consumo) ma avevano preso in esame la problematica della imputabilità dei messaggi alla società che non li aveva direttamente predisposti e divulgati.

In particolare, si contestava la ravvisabilità di una "responsabilità editoriale concorrente" in capo a T..

Ciò a cagione della circostanza che essa aveva previsto ed attuato un sistema di monitoraggio e controllo ex ante su tutte le attività del provider (consistente nel preventivo inoltro di tutti i messaggi, da sottoporre all’approvazione di T. e, quindi, ben più penetrante ed invasivo di quello ipotizzato dal primo Giudice).

Il provider vi si era sottratto omettendo di sottoporre (in violazione dell’obbligo negoziale assunto) all’attenzione di T. i messaggi diffusi e successivamente sanzionati.

Essa veniva chiamata a rispondere per fatto altrui ed anche l’utilizzo dei marchi T. nei messaggi contestati era da reputarsi illegittimo.

La circostanza che essa traeva un profitto dalla diffusione dei messaggi per cui è causa e che essi costituivano un utile veicolo pubblicitario per T. non erano sufficienti – in carenza di alcuna negligenza ad essa imputabile- ad affermare la propria responsabilità.

Posto che doveva considerarsi pacifico ai sensi dell’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 che nessuna forma di responsabilità oggettiva potesse essere configurabile (circostanza quest’ultima sulla quale lo stesso primo giudice concordava) e che nessuna altra forma di negligenza professionale era stata ascritta alla società appellante, rimaneva irrisolto il quesito in ordine al non meglio chiarito " sistema di monitoraggio effettivo" che si imputava a T. di non avere predisposto.

Nessun sistema alternativo, al contrario, era ipotizzabile, se non quello previsto ed attuato dalla T. e vanificato dalla scorretta condotta del provider.

Il palese inadempimento negoziale di quest’ultimo era stato sbrigativamente (ed erroneamente) definito qual "irrilevante" dal Tribunale amministrativo.

Il ricorso in appello dell’Autorità era palesemente infondato posto che la sentenza aveva preso in esame i "ruoli" rivestiti nell’illecito qualificando subvalente quello svolto da T. (che peraltro non aveva fornito alcun apporto causale nella veicolazione dei messaggi su internet).

All’udienza pubblica del 21 gennaio 2011, presenti i difensori delle parti costituite come da verbale d’udienza, i ricorsi venivano trattenuti in decisione.
Motivi della decisione

1.I ricorsi in appello devono essere riuniti in quanto proposti avverso la medesima decisione.

1.1. Verrà in primo luogo esaminato il gravame proposto da T.I. SPA in quanto volto a prospettare la illegittimità dell’azione amministrativa spiegata dall’Autorità e culminata nel provvedimento impugnato in primo grado.

2. Esso è infondato.

2.1. Quanto al primo motivo di doglianza da essa proposto, deve preliminarmente essere presa in esame la eccezione formulata dall’Autorità di inammissibilità del medesimo, per violazione dell’art. 345 del codice di procedura civile in quanto contenente censure "nuove".

L’eccezione è infondata.

Non ritiene infatti il Collegio che l’ appello contenga una – inammissibile ai sensi dell’art. 345 del codice di procedura civile

– mutatio libelli.

E’ noto infatti il principio -pacifico in giurisprudenza- a tenore del quale "non è ravvisabile un’inammissibile mutatio, allorché la modifica della domanda iniziale venga ad incidere sul petitum solo nel senso di adeguarlo in una direzione più idonea a legittimare la concreta attribuzione del bene materiale oggetto dell’originaria domanda "(.Consiglio Stato, sez. VI, 01 dicembre 2006, n. 7094).

Tale ultima evenienza è ravvisabile nel caso di specie, laddove si consideri che il fatto storico sotteso alle doglianze avanzate nel ricorso di primo grado, ed a quelle proposte con il ricorso in appello, è sempre il medesimo (id est: la assenza di compartecipazione alcuna, da parte dell’appellante, nella condotta posta in essere dal provider; l’inesigibilità di una condotta alternativa; l’assenza di negligenza alcuna ad essa imputabile).

L’articolazione della censura ha semmai subito una contrazione in appello rispetto a quanto prospettatosi sia in fase infraprocedimentale che nel corso del giudizio di primo grado (laddove si era contestata persino l’attribuibilità all’appellante della qualità di "professionista" ai sensi del vigente decreto legislativo 6 settembre 2005 n.206).

Il nucleo della argomentazione difensiva è però rimasto sostanzialmente identico, negandosi qualsiasi contributo causale, anche omissivo per carenza di controllo, nell’illecito che si sostiene essere stato posto in essere esclusivamente da un terzo (il provider).

Il motivo di doglianza è pertanto ammissibile e la relativa eccezione deve essere disattesa.

2.2. Ciò premesso in punto di ammissibilità della doglianza, ritiene il Collegio che l’appellante società abbia fondato la propria linea difensiva su argomentazioni non persuasive alla stregua del dato normativo vigente ed alle emergenze processuali in atti.

2.3. Deve rammentarsi che l’A.G.C.M. aveva contestato all’operatore pubblicitario suindicato

Z. Srl ed ai gestori telefonici (tra cui l’odierna appellante) di aver diffuso messaggi ingannevoli per i propri potenziali fruitori in relazione alle effettive condizioni economiche cui sarebbe stata subordinata l’offerta di trasmissione di suonerie e contenuti per telefoni cellulari.

In concreto, era accaduto:

che la società predetta avesse pubblicizzato su alcuni siti internet l’offerta di alcuni servizi c.d. "a valore aggiunto" (es.: relativi allo scaricamento di loghi o suonerie per telefoni cellulari), veicolati attraverso una numerazione telefonica "a decade 4" (ossia, attraverso un’utenza telefonica condivisa e gestita direttamente dagli operatori telefonici, titolari delle utenze in questione rispetto alla propria utenza finale);

che la stessa avesse svolto il ruolo c.d. di "content provider" (fornendo il contenuto ideativo del servizio offerto al pubblico), mentre ciascuno dei gestori telefonici aveva svolto il ruolo di "carrier" dei messaggi, mettendo a disposizione (dietro compenso) le risorse di banda necessarie a veicolare i messaggi pubblicitari oggetto di indagine;

che il meccanismo di remunerazione del servizio era basato sul c.d. "revenue sharing’, con la conseguenza che ai gestori telefonici venisse versata una percentuale del fatturato telefonico complessivo generato dalla vendita di contratti multimediali da parte della predetta società, anche a titolo di remunerazione per le attività svolte in sede di offerta dei servizi.

All’esito dell’istruttoria l’Autorità aveva ritenuto che i messaggi in questione, attraverso l’uso del termine "gratis" contenessero indicazioni contraddittorie circa la totale assenza di corrispettivi da un lato, espressa mediante la promessa in regalo di contenuti gratuiti al momento dell’attivazione del servizio e il carattere oneroso dall’altro, insito nella natura del servizio in abbonamento reclamizzato. La condotta in tal modo posta in essere, quindi, concretava gli estremi dell’ingannevolezza ai sensi della lettera b) del comma 1 dell’art. 20, d.lgs. 206, cit.

Sul punto non vi è contestazione nell’ambito del presente giudizio.

L’Autorità aveva altresì ritenuto che, nell’ambito della complessiva vicenda anche gli operatori telefonici (tra cui l’odierna appellante) avessero assunto la qualifica di "operatori pubblicitari’, in quanto sostanzialmente coautori dei messaggi contestati ai sensi dell’art. 20, d.lgs., cit.;

Sotto tale aspetto, l’Autorità ha affermato che sussistevano in capo ai gestori tre elementi/indici rivelatori della richiamata qualificabilità come coautori dei messaggi contestati:

a)in primo luogo, l’esistenza di un potere (preventivo e successivo) di verifica sul contenuto dei messaggi pubblicitari, riconosciuta (sia pure, secondo modulazioni diverse) dai contratti stipulati con il content provider (primo elemento di responsabilità editoriale);

b)in secondo luogo, la circostanza per cui i gestori telefonici avessero espressamente consentito l’utilizzo dei propri loghi e segni distintivi nell’ambito delle operazioni pubblicitarie relative ai servizi reclamizzati, in tal modo palesando il proprio coinvolgimento diretto nell’ambito delle operazioni reclamizzate (secondo elemento di responsabilità editoriale);

c)in terzo luogo, il fatto che i gestori telefonici avessero tratto un diretto vantaggio economico dalle operazioni contestate dal momento che (in base al meccanismo del c.d. "revenue sharing’) i proventi derivanti dal traffico telefonico sulla numerazione a decade 4 nella specie utilizzata venivano ripartiti fra il fornitore di contenuti e gli stessi operatori telefonici.

2.4.La critica mossa dall’appellante alla decisione resa dal Tribunale amministrativo ed illustrata nella parte in fatto della presente decisione trova il suo presupposto in tre distinte argomentazioni (speculari al nucleo della contestazione mossa dall’Autorità).

Secondo tali premesse critiche, nessun effettivo apporto era stato arrecato dal gestore telefonico all’attività di ideazione, realizzazione e diffusione dei contenuti; l’utilizzo del proprio logo non aveva alcuna finalità pubblicitaria (né avrebbe in alcun modo potuto possederla), ma serviva unicamente a fornire un apporto informativo di carattere "neutrale" alla clientela circa i servizi offerti; l’esistenza di un meccanismo di remunerazione delle risorse di banda poste a disposizione del content provider non testimonierebbe in alcun modo una cointeressenza circa gli obiettivi e i risultati della campagna pubblicitaria, ma rappresenterebbe un’ordinaria operazione svolta a condizioni di mercato, oltretutto resa necessaria dalla necessità (di tipo proconcorrenziale) di rendere possibile l’offerta di servizi informativi che altrimenti non presenterebbero un adeguato carattere di rimuneratività.

3. Il Collegio ritiene che tali argomenti non possano essere accolti.

3.1. Ad avviso del Collegio, infatti, la chiave di volta sotto il profilo logico e strutturale nell’esame della questione appena divisata è rappresentata dalla scelta (tradotta in puntuali pattuizioni negoziali) di individuare un meccanismo di remunerazione per la realizzazione delle campagne pubblicitarie oggetto di censura tale da determinare una diretta cointeressenza dell’ operatore telefonico appellante nella diffusione dei messaggi e, in ultima analisi, nella migliore riuscita della campagna pubblicitaria in termini di diffusione e remuneratività.

3.2. Il funzionamento del richiamato meccanismo di remunerazione, contenuto nel regolamento contrattuale definito con il content provider, prevedeva che l’operatore telefonico si impegnava a riconoscere al content provider, a titolo di corrispettivo, una quota del costo addebitato al cliente per ogni contenuto/servizio da questi acquistato (c.d. quota riconosciuta all’Azienda.

La parte restante del prezzo corrisposto dal cliente per i servizi forniti dal content provider era trattenuta dal Gestore a titolo di "revenue share’, ossia di percentuale sul fatturato complessivo generato dalla vendita dei contenuti multimediali da parte del provider, anche quale remunerazione per le attività svolte dal carrier nell’offerta dei servizi.

Ebbene, il Collegio ritiene che la scelta di collegare la messa a disposizione delle proprie risorse di banda all’operatività del richiamato meccanismo di remunerazione non si traduca nella pura e semplice cessione delle richiamate risorse a un operatore terzo e distinto secondo normali condizioni di mercato, ma si risolva nella volontaria e consapevole partecipazione a un’iniziativa di tipo imprenditoriale finalizzata alla messa a disposizione dei richiamati servizi e alla massimizzazione degli utili conseguentemente ritraibili.

L’aver consapevolmente optato per un meccanismo di remunerazione il quale collegava in modo inscindibile l’apporto dell’ operatore telefonico (indispensabile alla realizzazione e diffusione della campagna pubblicitaria) al ritorno economico dell’iniziativa, mediante un sistema di sostanziale compartecipazione sul ricavato, giustifica appieno il giudizio dell’Autorità, la quale ha ritenuto che in tal modo operando la compagnia telefonica avesse giustificato un giudizio di riferibilità soggettiva delle campagne pubblicitarie nel loro complesso.

Al riguardo si osserva:

che la circostanza per cui l’appellante ritraesse una quota percentuale dei proventi del traffico telefonico generato attraverso la fornitura dei servizi offerti dal provider rende chiaro che la prima non si limitasse a cedere risorse di rete a condizioni di mercato (i.e.: secondo un approccio tendenzialmente orientato alla sola copertura del costo marginale della risorsa ceduta), ma che fosse direttamente ed immediatamente interessata alla massima diffusione dei messaggi e alla conseguente massimizzazione del traffico telefonico generato (insomma, che fosse a pieno titolo compartecipe dell’iniziativa economica nel suo complesso);

che l’opzione per un siffatto meccanismo di remunerazione eccedesse di certo il quid minimum reso necessario dalle regolazioni proconcorrenziali di settore (finalizzate a garantire l’accesso al mercato delle risorse di rete a condizioni eque e negoziate secondo buona fede). Al contrario, nessuna regola proconcorrenziale impone agli operatori di TLC di favorire a tal punto le iniziative loro proposte, sino ad assumerne volontariamente i connessi rischi di gestione e a collegare il proprio interesse imprenditoriale alla migliore riuscita dell’iniziativa stessa;

che, sintomaticamente, la stessa appellante aveva fatto presente, in primo grado, che la scelta per il richiamato meccanismo fosse finalizzata ad assicurare una adeguata remunerazione per le attività svolte (dall’operatore telefonico) nell’offerta dei servizi;

che, conseguentemente, se la scelta del richiamato meccanismo di remunerazione non derivava da obblighi proconcorrenziali resi vincolanti dalla regolazione di settore, essa discendeva invece da una libera scelta imprenditoriale del singolo operatore il quale aveva ritenuto economicamente conveniente partecipare a una determinata iniziativa pubblicitaria attraverso il proprio indefettibile apporto tecnico, convenendo con la controparte negoziale un meccanismo di remunerazione tale da determinare una diretta ed immediata cointeressenza alla più ampia diffusione dell’iniziativa e – in via mediata – una diretta compartecipazione alla sua maggiore rimuneratività economica.

3.3. Per ragioni connesse a quelle appena evidenziate, anche la scelta di consentire l’utilizzo del proprio segno distintivo nell’ambito delle campagne oggetto di contestazione (e, in particolare, del logo d’impresa nell’ambito delle diverse schermate alle quali i potenziali clienti del servizio accedevano attivando i collegamenti resi disponibili dalla pagina iniziale predisposta dall’operatore content provider), lungi dal rivestire la mera finalità informativa sulla quale ha insistito, anche nel corso della discussione orale, la difesa dell’ appellante, costituiva a propria volta un’opzione idonea ad assicurare il miglior successo dell’iniziativa stessa e a rafforzare la diretta partecipazione e cointeressenza alla sua realizzazione.

Si osserva al riguardo:

che la circostanza per cui i loghi dei principali operatori nazionali di telefonia mobile (tra cui l’appellante) comparissero sulle pagine Internet dell’operatore pubblicitario conferiva ai messaggi diffusi (e di questo il Gestore coinvolto non poteva non essere consapevole) una maggiore immagine di attendibilità, tale da indurre i potenziali clienti ad accostarsi all’offerta proposta con un più alto grado di fiducia;

che non appare persuasivo l’argomento secondo cui l’utilizzo contestuale e congiunto del proprio logo unitamente a quello degli altri tre Gestori (quattro loghi complessivamente) non potesse sortire alcun effetto pubblicitario favorevole per ciascuno degli operatori, dal momento che nessun operatore economico accetterebbe di accostare il proprio marchio a quello di un diretto concorrente nell’ambito della medesima pubblicità. Al riguardo si rileva: a) che non si è contestato all’ appellante di aver partecipato all’iniziativa pubblicitaria in questione al fine di promuovere in modo diretto i propri servizi; ma si è contestata la ben diversa condotta di aver contribuito in modo determinante a favorire l’offerta pubblicitaria del provider (condotta, questa, ben compatibile con l’utilizzo contestuale e congiunto dei quattro loghi di impresa);

b) che l’interesse immediato e diretto dell’ odierna appellante (e per quanto di interesse degli altri Gestori) era comunque quello di garantire la massimizzazione del traffico telefonico generato con l’offerta dei servizi a sovraprezzo offerti dal content provider e che tale massimizzazione (pur "pantografando" le quote di mercato possedute da ciascun operatore e lasciando inalterata la quota percentuale rispettivamente posseduta) avvantaggiava comunque ciascuno di essi (e quindi anche l’odierna appellante) attraverso un incremento pro quota del traffico generato e – in via mediata – attraverso una più congrua ritrazione della revenue share di rispettiva spettanza.

3.4. Concludendo anche su questo punto, si può affermare che il provvedimento sanzionatorio gravato nell’ambito del ricorso di primo grado risulti esente dalle censure rubricate per la parte in cui ha ritenuto la sussistenza di un comportamento attivo da parte della compagnia telefonica appellante (realizzato – inter alia – attraverso la volontaria compartecipazione alla riuscita economica dell’iniziativa e attraverso la messa a disposizione dei propri segni distintivi), tale da individuare la impresa in questione (ed anche gli altri Gestori) quale soggetti coautori della campagna pubblicitaria oggetto di contestazione.

4. E’ alla luce di tale impostazione che vanno quindi valutati gli ulteriori argomenti difensivi profusi dalla società appellante.

4.1. In particolare, una volta dimostrata l’esistenza di un comportamento commissivo, idoneo a concretare la fattispecie illecita sotto il profilo oggettivo, occorre domandarsi se il medesimo comportamento possa considerarsi o meno esente da un giudizio di riprovevolezza sotto il profilo soggettivo.

4.2. Al riguardo è noto che un consolidato orientamento giurisprudenziale interpreta la previsione di cui al primo comma dell’art. 3, l. 689, cit. (secondo cui "nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione o omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa") non già nel senso dell’indifferenza in ordine alla sussistenza o meno di un comportamento – quanto meno – colposo, bensì nel senso di porre una praesumptio juris tantum di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l’abbia commesso, riservando poi a quest’ultimo l’onere di dimostrare di aver agito senza colpa (Cass. Civ., sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12391).

4.3. Ebbene, ritiene il Collegio che l’odierna appellante non sia in condizione di vincere la richiamata presunzione, atteso:

che essa ha coscientemente e volontariamente collaborato alla realizzazione dell’illecito;

che ciò ha fatto in qualità di operatore professionale del settore delle comunicazioni elettroniche, che disponeva di strumenti (contrattuali e conoscitivi) idonei ad prendere cognizione ed apprezzare il carattere illecito dei messaggi diffusi attraverso i propri mezzi tecnologici e che, cionondimeno, ha consentito che la condotta illecita si realizzasse in tutta la sua portata lesiva.

che le giustificazioni addotte, tendenti a dimostrare che essa aveva messo in opera ogni accorgimento idoneo a prevenire e ad impedire il prodursi della condotta illecita non appaiono convincenti.

5. L’esame delle pertinenti pattuizioni contrattuali intercorse con il content provider dimostra, da una parte, come l’ appellante disponesse contrattualmente di strumenti in via astratta idonei a consentire un’indagine sul contenuto dei messaggi diffusi e che, in quanto operatore professionale del settore delle comunicazioni elettroniche, disponesse di strumenti idonei ad apprezzare il carattere illecito dei messaggi diffusi attraverso i propri mezzi tecnologici, dall’altra, che esse erano tuttavia volte ad addossare unicamente al content provider le conseguenze di eventuali profili di illiceità sottesi alle campagne pubblicitarie in questione.

In particolare, risponde certamente al vero che il contratto stipulato con il provider dava atto della circostanza che i "contenuti" erano elaborati unicamente da quest’ultimo; che questi avrebbe dovuto attenersi ad alcuni standards (ricorso in appello, punto I.3.2.); che i servizi offerti dal provider non potevano essere pubblicizzati in assenza di preventiva autorizzazione scritta dell’appellante società; e che a tale onere erano del pari genericamente sottoposte le attività promozionali da questi realizzate.

E’ parimenti incontestabile che nel contratto stipulato dall’appellante con il provider erano previste sanzioni crescenti (sino alla risoluzione del rapporto negoziale) laddove tali incombenti fossero stati violati.

Tuttavia, tale articolata pattuizione negoziale, da un canto non può essere invocata per traslare esclusivamente su un altro soggetto la esclusiva responsabilità della condotta posta in essere in relazione ad una iniziativa imprenditoriale che arrecava vantaggio economico ad entrambi.

Sotto altro profilo, essa non può costituire efficace scriminante per condotte di rilievo pubblicistico (quale indubbiamente è la commissione di un illecito sanzionato amministrativamente).

Ed infatti: laddove si avallasse un siffatto criterio distributivo, si ammetterebbe la sostanziale disapplicazione in via pattizia dei criteri legali di determinazione della responsabilità da illecito (criteri certamente ascrivibili all’ambito delle clausole di ordine pubblico e in quanto tali sottratti al potere dispositivo dei soggetti privati). Ancora, laddove si consentisse il pieno dispiegarsi delle richiamate clausole di manleva, si ammetterebbe l’introduzione per via pattizia di nuove ipotesi scriminanti destinate ad operare nell’ambito (evidentemente, indisponibile) della disciplina degli illeciti amministrativi.

L’ appellante T. non può fondatamente addurre a propria discolpa la circostanza per cui la controparte contrattuale (i.e: il content provider), contravvenendo alla lettera e allo spirito delle richiamate pattuizioni, non avesse in concreto reso informazioni tempestive e puntuali in ordine al contenuto delle campagne pubblicitarie oggetto di diffusione, in tal modo precludendo la possibilità per il carrier di operare un controllo effettivo sui richiamati contenuti.

Ciò, in quanto, l’iniziale previsione di un pervasivo sistema di comunicazioni e approvazioni preventive; il carattere di particolare qualificazione professionale degli stessi carriers (primarii operatori del settore delle comunicazioni elettroniche e anch’essi attivi nel settore pubblicitario) nonché l’immediata cointeressenza economica nei risultati delle campagne pubblicitarie in questione (attraverso il meccanismo di remunerazione c.d. di "revenue sharing’), erano tutti elementi tali da innestare in capo all’ appellante medesima un onere specifico di prevenire la realizzazione di condotte illecite attraverso gli strumenti tecnologici posti a disposizione delle proprie controparti negoziali.

Riguardando la condotta censurata sotto l’angolo visuale dell’illecito di tipo commissivo, la conoscenza (o la conoscibilità) del contenuto delle campagne pubblicitarie costituisce il presupposto sul quale si fonda la condivisione e la cointeressenza nei confronti della condotta illecita.

Conseguentemente, anche ad ammettere la violazione da parte del content provider degli obblighi di comunicazione preventiva assunti contrattualmente, ciò non potrebbe determinare un effetto scriminante nei confronti delle odierne appellanti, le quali avevano omesso in modo colpevole di predisporre un adeguato e soprattutto effettivo sistema di controllo preventivo (certamente esigibile alla luce delle circostanze del caso concreto).

Di più: aveva omesso di attivare in concreto anche gli stessi strumenti di controllo e prevenzione negozialmente stabiliti.

Dette pattuizioni, per come applicate, si limitavano a stabilire i principi cui il provider si sarebbe dovuto attenere nella predisposizione dei contenuti ed un onere di preventiva approvazione dei medesimi da parte dell’ appellante.

L’attuazione dei predetti principi e l’approvazione preventiva da parte dell’ appellante medesima erano state però,in concreto rimesse alla buona volontà del provider cui negozialmente perteneva l’incombente di sottoporle i contenuti dei servizi offerti, in via preventiva.

Ma tale operato è, appunto, quanto di più lontano dal concetto di "effettivo controllo preventivo" (e dal "sistema di monitoraggio" la cui carenza è stata stigmatizzata dal primo giudice) si possa immaginare.

Il meccanismo di distribuzione degli oneri di preventiva vigilanza dianzi richiamato non può determinare (contrariamente a quanto affermatosi nel ricorso in appello) alcuna traslazione in capo a soggetti privati dei poteri di vigilanza e controllo sugli illeciti sanzionabili, tipicamente spettanti all’Autorità di settore.

E’ evidente al riguardo che la prospettazione dell’ appellante sarebbe in astratto percorribile solo laddove si condividesse il relativo presupposto logicofattuale (ossia, che l’attività di verifica e controllo imposta al carrier si innestasse su un fatto altrui – lo svolgimento di un’attività pubblicitaria da parte del content provider, cui il carrier restava essenzialmente estraneo, senza che su di esso gravassero puntuali obblighi di facere -).

Tuttavia, la prospettazione in parola risulta radicalmente da escludere solo che si tenga presente (oltre al dato di compartecipazione economica prima a più riprese richiamato) che la condotta contestata all’ appellante non riguarda in alcun modo un controllo di tipo pubblicistico relativo a una condotta altrui cui il soggetto onerato restava sostanzialmente estraneo, ma riguarda – al contrario – un fatto commissivo proprio, contrario alla condotta possibile ed alternativa, la quale era in concreto esigibile sulla base del concreto atteggiarsi del regolamento negoziale.

Non può infine trovare accoglimento la tesi appellatoria secondo cui non sarebbe stato esigibile nei propri confronti un comportamento tale da prevenire ed impedire il verificarsi della condotta sanzionata attraverso un adeguato (ma onerosissimo) sistema di controlli preventivi sui contenuti e le modalità delle campagne pubblicitarie.

Ed infatti, pur non potendosi sottacere l’indubbia complessità tecnicoorganizzativa del sistema di controlli reso necessario dalla tipologia e dal numero delle attività pubblicitarie poste in essere, è altresì certo che non sussistesse nella specie alcun impedimento di carattere assoluto alla sua realizzazione. E’ altresì certo che il quantum di esigibilità nell’attivazione di rimedi di tipo preventivo deve essere in concreto modulato tenendo in adeguata considerazione: a) la diretta cointeressenza economica dell’ odierna appellante alla riuscita e diffusione dei messaggi pubblicitari oggetto di contestazione; b) la notevolissima dimensione organizzativa della medesima (primario operatore di mercato);

c) la sua indubbia attitudine (in qualità di operatore del settore delle telecomunicazioni, a propria volta dotato di coacervata esperienza nel settore pubblicitario) ad apprezzare i profili di ingannevolezza contenuti nelle campagne oggetto di contestazione

6. Per le ragioni sin qui esaminate, non risulta determinante ai fini della presente decisione stabilire se uno specifico onere di verifica e controllo spettasse in capo all’ odierna appellante anche in applicazione dell’art. 18 del d.m. 2 marzo 2006, n. 145 (‘regolamento recante la disciplina dei servizi a sovraprezzo’).

7. Tracciando alcune conclusioni sui punti sin qui esaminati, è possibile affermare:

a)che la odierna appellante avesse apportato un contributo efficiente certamente determinante sotto il profilo eziologico al fine di rendere possibile il realizzarsi della condotta illecita oggetto dell’attività sanzionatoria da parte dell’Autorità;

b)che l’apporto concausale ad essa riferibile era riconducibile ad un’ipotesi di illecito di tipo commissivo, e quindi alla previsione di cui all’art. 5, l. 689 del 1981 (in tema di concorso di soggetti nell’illecito amministrativo), per avere l’ appellante contribuito con un apporto cosciente e volontario alla realizzazione delle campagne informative, condividendone in ultima analisi il contenuto e le stesse finalità imprenditoriali;

c)che, inoltre, il comportamento da essa posto in essere era altresì riconducibile a un’ipotesi di responsabilità per comportamento colpevole, per non aver posto in essere un adeguato setting di strumenti di verifica e controllo effettivo e concreto (che, pure, rientrava nella sua disponibilità ed era in capo a T. concretamente esigibile) tale da impedire il verificarsi dell’illecito amministrativamente sanzionato;

d)che la fattispecie di responsabilità in tal modo posta in essere non assume i caratteri tipici di una responsabilità di tipo oggettivo (o per fatto altrui), ma si connota dei caratteri tipici di una responsabilità per fatto proprio e colpevole, sì da giustificare l’adozione delle determinazioni sanzionatorie impugnate nell’ambito del primo grado di giudizio.

Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

8. Quanto infine all’ ulteriore doglianza prospettata dall’appellante (e riposante nell’asserita incompatibilità con la Direttiva CE n. 29 del 2005 del concetto di diligenza affermato dal primo giudice) va rammentato che si richiede al Collegio di sollevare innanzi alla Corte di Giustizia una questione pregiudiziale i cui esatti termini – da intendersi interamente trascritti nella presente motivazione- sono illustrati alle pagg. 19 e 20 del ricorso in appello.

Come è noto, l’art. 18 co. I lett. H del decreto legislativo 6 settembre 2005 n.206 detta il seguente parametro definitorio del concetto di diligenza professionale: " il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista;".

La direttiva CE 11 maggio 2005 n. 29 così prevede in proposito (art. 2 lett. h – "diligenza professionale"): "rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista, il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori.".

A tale canone fa riferimento l’art. 5 della direttiva predetta.

T.I. SPA ritiene che l’interpretazione del primo giudice del concetto di diligenza non sia stata aderente al canone fissato dalla Direttiva.

Osserva in proposito il Collegio che – sebbene non sia chiara la premessa maggiore da cui muove l’appellante- il dubbio da questi prospettato non abbia ragione d’essere.

8.1. Da un canto infatti l’appellata decisione ha recepito principi pacifici in punto di concorsualità nell’illecito amministrativo affermati nei più disparati settori dell’ordinamento ed applicati anche a fattispecie in cui al soggetto ritenuto e corresponsabile neppure poteva "imputarsi" una cointeressenza economica con l’attività della controparte e men che meno una (ancorchè temporanea) "associazione" del proprio marchio a quello dell’autore della condotta attiva.

Il dubbio interpretativo sollevato dall’appellante sarebbe coerente con una premessa maggiore volta a sostenere che – in subiecta materia- il parametro valutativo cui bisogna attenersi debba essere meno rigido rispetto a quello operante in altri settori dell’ordinamento.

Per essere più chiari, laddove si volesse sostenere che in materia di pratica commerciale sleale si richiede al professionista un grado di diligenza meno elevato rispetto a quello vigente in altri settori dell’attività commerciale, ovvero comunque in altri settori dell’ordinamento, il dubbio potrebbe avere quantomeno rilevanza.

Senonchè, neppure il gestore appellante si spinge a prospettare una simile tesi; essa apparirebbe già prima facie infondata distonica con lo scopo protettivo del soggetto/debole consumatore tenuto presente dalla Direttiva.

Essa poi, colliderebbe con l’aggettivo "normale" contenuto nella Direttiva medesima e fedelmente riportato dal Legislatore Nazionale, che fa evidentemente riferimento all’ordinario grado di diligenza che ciascun sistema nazionale enuclea in relazione alla concreta strutturazione del rapporto contrattuale che ha dato causa alla violazione.

8.2. Il dubbio interpretativo prospettato potrebbe altresì rivestire rilevanza, nella ipotesi in cui si fosse affermato nel provvedimento impugnato (ed avallato in sentenza) che si è inteso sanzionare l’appellante richiedendosi alla stessa un grado di diligenza superiore a quello usualmente preteso nell’ambito degli ordinari rapporti negoziali del genere di quello di cui si discorre e che per non avere prestato tale "maggiore" grado di diligenza se ne sia ravvisata la condotta colposa indispensabile ai sensi dell’art.3 della legge n. 689 del 1981 per affermarne la sanzionabilità.

8.3. In contrario a tale assunto, deve invece ribadirsi che in nessun passaggio del provvedimento impugnato – e della sentenza appellata- si è sostenuto che il grado di diligenza richiesto all’appellante dovesse essere maggiore rispetto a quello richiesto negli ordinari rapporti commerciali (ovviamente del genere indicato, laddove una parte fornisca un prodotto che viene commercializzato all’esterno con marchio congiunto ed i cui profitti vengano ripartiti da entrambi); che la sentenza appellata ha preso atto della cointeressenza economica e dell’associazione del marchio dell’appellante a quello del provider ed ha constatato che in concreto difettava alcun sistema effettivo di controllo e verifica che rendesse impossibile o quantomeno oltremodo difficoltoso per il provider veicolare messaggi (illegittimi nel contenuto) non previamente approvati dal gestore del servizio di telefonia; e che essa in ciò, lo si ripete, si allinea con i principi espressi dalla giurisprudenza italiana nella più disparata congerie di rapporti.

Se il passaggio motivazionale della appellata decisione che ad avviso dell’appellante legittima il dubbio interpretativo è questo di seguito indicato ("E’ possibile configurare, al riguardo, una "posizione di garanzia" o "dovere di protezione", con ciò volendo significare non già l’esistenza di una forma di responsabilità oggettiva, quanto di uno standard di diligenza particolarmente elevato, non riconducibile ai soli canoni civilistici di valutazione") deve decisamente escludersi la fondatezza del "dubbio", in quanto tale affermazione va collegata al punto di partenza che nella cointeressenza economica e nella "associazione" del marchio del gestore alla campagna pubblicitaria in oggetto rinviene la specificità del rapporto intercorso tra provider e gestore e la premessa per affermare la corresponsabilità del secondo.

8.4. La stessa formulazione del quesito interpretativo da atto trattarsi di una quaestio facti rimessa alla interpretazione del giudice nazionale: in più può aggiungersi che, per quanto si è finora detto, in realtà non si richiede che la Corte di Giustizia si pronunci sulla interpretazione di un precetto comunitario traslato nell’ordinamento nazionale, ma su un concetto (quello di diligenza, e la sua interferenza con la nozione di responsabilità colpevole) patrimonio della Legislazione italiana sin da epoca risalente.

Il quesito, oltre che privo di rilevanza, è altresì inammissibile, risolvendosi nel sottoporre alla Corte di Giustizia una valutazione in ordine al comportamento negoziale dell’appellante, ed alla idoneità delle pattuizioni contenute nel contratto stipulato ad escludere la sussistenza di negligenza alcuna in fase di controllo dei contenuti, se non addirittura a prospettare il possibile rilievo esterno delle clausole di esonero di responsabilità (elemento, quest’ultimo, direttamente afferente alle prescrizioni normative di cui alla legge n. 689 del 1981).

Esso, peraltro, è formulato non tenendo conto della premessa maggiore tenuta presente dall’Autorità (diretta cointeressenza della T., economica e pubblicitaria, nella campagna del provider, affiancamento dei marchi).

8.5. Quanto sinora esposto elide ogni dubbio sulla compatibilità con il diritto comunitario della disciplina in esame ed esclude la necessità di un invio, quale giudice di ultima istanza, degli atti alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato.

Si ricorda che anche i giudici di ultima istanza non sono tenuti a sottoporre alla Corte una questione di interpretazione di norme comunitarie se questa non è pertinente (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull’esito della lite), se la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla Corte o se comunque il precedente risolve il punto di diritto controverso, o se la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata (cfr, Corte Giust, CE, 61082, C 283/81, Cilfit).

8.6. La "questione interpretativa" affrontata e risolta sfavorevolmente all’appellante nell’odierno procedimento non attiene neppure in minima parte al diritto comunitario: l’asserito contrasto con l’art. 5 della Direttiva 11/05/2005 n. 29 n. 29 non è pertinente, trattandosi di norma che non disciplina la fattispecie del rapporto negoziale interno tra gestore e provider né disciplinante l’ipotesi di una riscontrata diretta cointeressenza economica.

9. Così esaurita la disamina della doglianza investente la responsabilità del gestore e l’an dell’applicazione della sanzione, può procedersi all’esame delle ulteriori (due) censure prospettate, investenti la quantificazione della sanzione.

Stante la intima compenetrazione di tali argomenti con quelli esposti dall’Autorità nel proprio ricorso in appello, le due residue doglianze proposte da T. verranno esaminate congiuntamente all’appello proposto dall’Autorità.

Per il vero, l’appellante società ha espressamente sostenuto (pag 21 del ricorso in appello) che ha proposto le due censure in vista "della nuova quantificazione pecuniaria che l’Autorità dovrà porre in essere" a cagione del parziale annullamento del provvedimento ad opera del primo giudice.

L’accoglimento dell’appello dell’Autorità con riferimento a tale capo della sentenza (e la conseguente assenza di ogni futura attività rideterminativa della sanzione) in astratto renderebbe le predette due censure improcedibili.

Senonchè appare evidente da un canto che esse sono state proposte nella impossibilità di preconizzare l’esito dell’appello proposto dall’Autorità, e, sotto altro profilo, coincidono con le argomentazioni sviluppate nelle proprie memorie e volte a dimostrare l’infondatezza dell’appello dell’amministrazione.

Esse verranno pertanto esaminate dal Collegio.

10. Dal punto di vista sistematico occorre premettere che i criteri generali di cui fare applicazione in sede di commisurazione delle sanzioni pecuniarie nelle materie di cui al d.lgs. 206 del 2005 sono rinvenibili nell’ambito dell’art. 11 della l. 689 del 1981, a tenore del quale "nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell’applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche".

La disposizione in questione risulta idonea a governare la vicenda di causa per ciò che attiene alla determinazione del quantum della sanzione (ed infatti, ai sensi del comma 13 dell’art. 27, d.lgs. 206, cit. – nella formulazione ratione temporis rilevante – per le sanzioni amministrative pecuniarie conseguenti alle violazioni in tema di tutela dei consumatori, si osservano – inter alia – le disposizioni di cui agli articoli da 1 a 12, l. 689, cit.).

Ancora dal punto di vista generale, deve essere nel caso di specie richiamato il consolidato – e qui condiviso – orientamento secondo cui l’attività determinativa del quantum della sanzione irrogata (nonché, più a monte, il giudizio di sussunzione delle peculiarità del caso di specie entro i criteri determinativi normativamente indicati) costituisce esplicazione di una lata discrezionalità, con la conseguenza che l’operazione valutativa in tal modo posta in essere non possa essere sindacata in sede di giudizio di legittimità, laddove risulti congruamente motivata e scevra da vizi logici (Cass. Civ., I, 16 aprile 2003, n. 6020).

Impostati in tal modo i termini sistematici della questione, il Collegio ritiene che l’attività determinativa posta in essere dall’Autorità risulti esente dai vizi rilevati dal primo Giudice, se solo si osservi:

che l’Autorità ha puntualmente tenuto conto, ai fini determinativi, di un complesso di circostanze certamente compatibili con la litera e la ratio dell’art. 11, cit. (ruolo ricoperto da ciascun coautore nell’ambito della fattispecie illecita, specifica gravità dei singoli apporti, rilevanza economica del singolo coautore, sussistenza di specifiche circostanze aggravanti);

che, in particolare, la motivazione del provvedimento sanzionatorio appare conforme al paradigma di riferimento laddove ha affermato che, a parità di ulteriori condizioni, si sarebbe tenuto conto ai fini determinativi, della consistenza economica di ciascun compartecipe (si tratta di un criterio espressamente richiamato dall’art. 11, cit.);

che la sentenza in epigrafe non risulta persuasiva laddove ha enfatizzato il dato relativo alla diversa qualità dell’apporto di ciascuno dei coautori del fatto illecito, ritenendo irragionevole la scelta conclusiva di assoggettare a una sanzione di importo maggiore l’autore principale della condotta e a una sanzione di importo inferiore i meri soggetti coautori;

che la decisione in questione non tiene in adeguata considerazione la circostanza per cui (per le ragioni dinanzi richiamate) ciascuno dei compartecipi alla condotta oggetto di sanzione avesse apportato un contributo concausale indefettibile ai fini della realizzazione della condotta decettiva, senza che l’apporto fornito dal provider potesse essere ritenuto per definizione di maggiore gravità, laddove posto in comparazione con quello fornito dall’ operatore telefonico appellante.

Al contrario, per le ragioni dinanzi richiamate, detto operatore ha apportato alla fattispecie un contributo determinante sotto il profilo concausale, agendo con azioni e omissioni colpevoli e ritraendo dalla complessiva condotta illecita un diretto vantaggio economico di ammontare tanto maggiore, quanto maggiore era la dimensione economica e la quota di mercato detenuta.

Sotto altro profilo, la maggiore dimensione economica dell’ operatore di telefonia mobile rispetto a quella del content provider non aveva assunto un rilievo esclusivo e determinante ai fini della quantificazione della sanzione, costituendo – piuttosto – solo uno degli elementi a tal fine tenuti in considerazione (nell’ambito di un giudizio di ponderazione nel suo complesso congruo e motivato). Di ciò è riprova diretta dalla comparazione stessa dell’ importo delle sanzione, la quale palesa che a fronte di un peso economico (quello del content provider) certamente inferiore, l’importo finale della sanzione irrogata è stato di entità comparabile.

Ciò dimostra che, comunque, l’Autorità ha considerato comparativamente più grave la condotta realizzata dall’autore in via principale della campagna pubblicitaria contestata.

10.1. L’appello dell’Autorità deve pertanto essere accolto e deve essere annullato il capo demolitorio dell’impugnata decisione.

10.2 Né a considerazioni in grado di inficiare la superiore affermazione possono condurre le due ulteriori doglianze avanzate dall’appellante Gestore.

10.2.1. Secondo la prima di esse, ci si era basati su considerazioni astratte in tema di impatto del messaggio: per valutare compiutamente tale elemento, ci si sarebbe dovuti soffermare (pag. 22 del ricorso in appello) "sull’apprezzamento della sua "effettiva e concreta idoneità della pratica a falsare il comportamento economico dei consumatori" e non sulla mera " considerazione delle modalità di diffusione e della capacità di raggiungere un numero considerevole di soggetti".

Ciò implicherebbe l’assenza di supporto motivazionale alla qualificazione dell’illecito in termini di gravità.

Il Collegio non condivide tali affermazioni.

Deve rilevarsi infatti, che ancora di recente è stato affermato (con riferimento all’antevigente dato legislativo, ma il principio è agevolmente trasponibile alla fattispecie in esame) che "il bene giuridico da tutelare è soltanto indirettamente a contenuto patrimoniale: la tutela immediata delle prescrizioni legislative attiene, invece, alla libertà di scelta del consumatore (che ovviamente, ove alterata, produce effetti in ambito economico). Sarebbe riduttivo, infatti, ritenere che la nozione di pregiudizio per il comportamento economico del consumatore, venisse fatta coincidere con quella di danno economico, che implica una diminuzione patrimoniale: essa va intesa invece nel senso di influenza sul comportamento economico del consumatore nel quadro della tutela della relativa libertà di scelta."(Consiglio Stato, sez. VI, 04/08/2009, n. 4901).

Si rammenta in proposito che l’art. 20 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206, come sostituito dal decreto legislativo 2 agosto 2007 n. 146 stabilisce che una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.

La lett. b) del successivo art. 21 prevede che "è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio… e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso" in ragione "delle caratteristiche principali del prodotto, quali…

L’art. 22, infine, stabilisce che "e" considerata ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonche" dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induce o e" idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso."

Il giudizio di gravità risente della valutazione di numerosi degli elementi menzionati nelle superiori disposizioni: se la idoneità decettiva era sussistente in massimo grado (per la insidiosità dell’affermazione non veritiera, per la circostanza che incideva su elementi ritenuti essenziali dai consumatori e non su aspetti di dettaglio, etc) e la diffusione della campagna pubblicitaria possedeva natura capillare deve ben affermarsene la gravità.

E tale giudizio va svolto ex ante, e non può tenere conto di variabili (quali i risultati effettivamente raggiunti dalla pratica commerciale illecita) che, peraltro, possono anche non essersi verificati – o comunque non compiutamente- al momento in cui interviene l’Organo accertatore e la violazione è interrotta.

E contrariamente a quanto affermatosi in appello, il primo e preminente profilo riposa nel grado di idoneità della pratica a falsare la condotta consumeristica e nella diffusione che essa ha avuto.

Altrimenti argomentando, nella auspicabile evenienza che in ogni fattispecie di pratica sleale si verifichi un pronto intervento repressivo che interrompa sul nascere l’abuso, si dovrebbe pervenire all’affermazione che quest’ultimo non è stato grave perché non ha raggiunto risultati eclatanti; parimenti si dovrebbe ritenere che, laddove una pratica fortemente decettiva, e massicciamente diffusa non abbia raggiunto alcun risultato perché afferente ad un prodotto cui la platea dei consumatori era indifferente, per ciò solo tale decettiva condotta non potrebbe qualificarsi grave.

L’impatto della condotta può semmai concorrere ad integrare la prova della gravità dell’abuso. Non ne costituisce l’essenza (ed è appena il caso di precisare che il ragionamento vale anche nella ipotesi speculare: laddove una campagna pubblicitaria contenente informazioni scorrette di minima entità, e pubblicizzata senza alcun risalto avesse per avventura fornito un riscontro assai numeroso, non se ne potrebbe affermare la "gravità" sulla sola base del dato numerico delle adesioni, ma ci si dovrebbe semmai interrogare sulla circostanza che il prodotto rispondeva effettivamente all’intenzione dei consumatori e che questi lo avrebbero acquistato comunque).

La doglianza investente tale aspetto non merita accoglimento.

10.2.2. Quanto alla questione dell’asserito deficit dimostrativo della incidenza della pratica su un pubblico adolescenziale, sembra al Collegio vi sia ben poco da aggiungere a quanto rilevato in proposito dal primo giudice.

Non v’è divergenza alcuna tra le valutazioni dell’Autorità e quelle rassegnate nel proprio parere dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ("la pratica in esame non può essere considerata come diretta specificamente ad incidere sul comportamento economico dei minori, anche se gli adolescenti possono essere particolarmente interessati alla tipologia di servizi pubblicizzati attraverso i messaggi oggetto di valutazione.").

Il "particolare interesse degli adolescenti" alla tipologia di servizi pubblicizzati è agevolmente constatabile passeggiando per qualsiasi città italiana o sostando anche per brevissimo tempo innanzi ad una scuola media od istituto superiore.

Esso risulta da una serie di studi ufficiali ascrivibili a qualificate organizzazioni italiane, europee, e mondiali agevolmente reperibili su internet (tra i tanti: " Centro Studi Minori & Media, "indagine conoscitiva sull’uso del cellulare tra i bambini ed i ragazzi" anno del 2007"; "Save The children, report 2008") dai quali risulta che addirittura una percentuale superiore all’80% dei giovani fra 8 e 15 anni possiede un cellulare di sua pertinenza, ed avuto riguardo alla circostanza che i "prodotti scaricati" -suonerie, loghi, hit di successo- etc, rivestono particolare interesse per tale pubblico).

La censura, peraltro formulata in termini dubitativi, merita di essere disattesa.

11.Conclusivamente, ritiene il Collegio che debba essere respinto il ricorso in appello proposto da T.I. Spa e che debba essere accolto il ricorso in appello proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con conseguente parziale riforma dell’appellata decisione ed integrale reiezione del ricorso di primo grado proposto da T.I. Spa.

12. Alla integrale soccombenza consegue la condanna alle spese ed agli onorari del giudizio a carico di T.I. Spa e pertanto la predetta appellante deve essere condannata al pagamento delle stesse, in favore dell’appellata Autorità e dell’interveniente Codacons, in misura che, avuto riguardo alla natura della controversia, appare congruo determinare in Euro diecimila (Euro 10.000) in favore dell’Autorità ed Euro cinquemila (Euro 5.000)in favore di Codacons oltre accessori di legge se dovuti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

definitivamente pronunciando sui riuniti ricorsi in appello in epigrafe respinge il ricorso n. 4897 del 2010proposto da T.I. Spa; accoglie il ricorso n. 4579 del 2010proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e, per l’effetto, in parziale riforma dell’appellata decisione respinge integralmente il ricorso di primo grado proposto da T.I. Spa

Condanna T.I. Spa al pagamento delle spese e degli onorari del secondo grado del giudizio, nella misura di Euro diecimila (Euro 10.000) in favore dell’Autorità ed Euro cinquemila (Euro 5.000)in favore di Codacons, oltre accessori di legge se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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