Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 11-03-2011) 29-03-2011, n. 12758 Intercettazioni telefoniche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 11.12.08 del Tribunale di S. Maria C.V. erano condannati a pene varie per i reati loro ascritti:

– V.L. (quale promotore, capo e organizzatore dell’associazione per delinquere di tipo camorristico denominata clan V. attivo prevalentemente nei Comuni dell’agro aversano: v. capo 17 della rubrica);

– S.M. (per due tentate estorsioni aggravate perchè provenienti da più persone riunite appartenenti al predetto clan camorristico, anche con l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, sotto i profili metodologico e finalistico, nonchè per partecipazione alla medesima associazione per delinquere: v. rispettivamente capi 1 – originariamente qualificato come estorsione consumata, poi derubricata a mero tentativo -, 2 e 17);

– Sa.Ar. (per detenzione e porto di una pistola, con l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991: v. capo 13);

– Sp.Co. e P.F., entrambi finanzieri del Comando Compagnia di Aversa (per corruzione e falso ideologico in atto pubblico: v. capi 10 e 10 bis).

Con sentenza 15.12.09 la Corte d’Appello di Napoli dichiarava la nullità della pronuncia di primo grado limitatamente al capo 10 relativo allo Sp. e al P., con ordine di trasmissione degli atti al PM ex art. 521 c.p.p., comma 2, essendo emersa una diversità tra il fatto contestato (corruzione) e quello accertato (concussione): per l’effetto, riduceva la pena a loro carico per la residua imputazione di cui al capo 10 bis; confermava, infine, le condanne emesse nei confronti dei suddetti V., S. e Sa..

Ricorrevano il Sa., lo Sp., il P., il V. e lo S. contro detta sentenza, di cui chiedevano l’annullamento per i motivi qui di seguito riassunti nei limiti prescritti dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

Nel proprio ricorso e nei motivi aggiunti il Sa. deduceva:

a) inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche e ambientali per violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3 perchè le attività di ascolto risultavano eseguite, senza che di ciò fosse stata data adeguata motivazione, presso i locali delle Procure di Frosinone e di Cassino, ad iniziativa della Procura della Repubblica di Napoli;

b) vizio di motivazione per aver l’impugnata sentenza acriticamente recepito l’interpretazione delle conversazioni intercettate fornita dal Tribunale, che aveva tralasciato le alternative ipotesi di lettura suggerite dalla difesa, così come aveva trascurato la mancanza di prova della detenzione e del porto dell’arma, mai rinvenuta;

c) travisamento dei fatti nella parte in cui era stata ravvisata l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7: in realtà il Sa. si era rivolto al V. per soddisfare propri interessi personali, essendo in contrasto con altro personaggio (l’ A.), sicchè l’uso dell’arma era avulso dall’intento di agevolare il clan mafioso;

d) omessa concessione delle attenuanti generiche sol perchè il Sa. era latitante.

Lo Sp. e il P. lamentavano che:

e) dichiarando la nullità della sentenza di primo grado, limitatamente al reato di cui al capo 10 della rubrica per essere emersa una diversità tra il fatto contestato (corruzione) e quello accertato (concussione), con conseguente ordine di trasmissione degli atti al PM ex art. 521 c.p.p., comma 2, la Corte territoriale aveva aperto la strada ad una futura possibile reformatio in peius in assenza di impugnazione da parte della pubblica accusa;

f) risultava violato l’art. 270 c.p.p., comma 1, poichè le intercettazioni telefoniche fondanti la prova della penale responsabilità dei ricorrenti si riducevano ad una sola conversazione intercorsa fra il V. e Si.Au. (non ricorrente) riguardante altre persone e reati oggetto di diverso procedimento, diversità che andava ricercata non in dato formale come nel n. di iscrizione del processo, ma in uno sostanziale, trattandosi di un episodio non collegato a quelli per cui si procedeva;

g) a sua volta l’affermazione di penale responsabilità, desunta da una sola conversazione intercorsa fra il V. e il Si. laddove costoro definivano "compagni" i due finanzieri, ne aveva tralasciato le possibili letture alternative, senza considerare – poi – che il m.llo Sp. era in servizio presso il Comando della G.d.F. di Aversa da appena un mese e mezzo rispetto ai fatti del 1.2.05, di guisa che non avrebbe avuto nemmeno il tempo di stringere legami di sorta con commercianti della zona; del pari la gravata pronuncia aveva trascurato la deposizione del capitano Ci.

(che aveva parlato dell’esigenza di svolgere in maniera celere gli accertamenti), senza poi nemmeno accertare se davvero nel negozio del Si., alla data dell’accertamento eseguito dai due ricorrenti, vi fossero supporti magnetici contraffatti; infine, sebbene nella conversazione telefonica si parlasse solo di un telefonino, nelle sentenze di primo e secondo grado i telefonini diventavano due, uno per lo Sp. ed uno per il P..

Il V. si doleva:

h) della ritenuta attualità della sua partecipazione al clan camorristico Venosa malgrado lo stato di detenzione in cui si trovava da oltre 4 anni senza poter far filtrare dal carcere eventuali disposizioni, atteso che la moglie s.A. era stata assolta dall’accusa di essersi prestata a fungere da canale di comunicazione del marito con l’esterno; nè l’asserito perdurante ruolo carismatico del ricorrente poteva desumersi dalle espressioni usate in una conversazione telefonica dal nipote R., che con la moglie del V. parlava di questioni meramente personali.

Lo S. deduceva che:

i) erroneamente l’impugnata sentenza aveva affermato l’attuale esistenza del clan camorristico (così come contestata al capo 17) e la partecipazione ad esso del ricorrente, a tal fine non bastando nè la sentenza – acquisita ex art. 238 bis c.p.p. – emessa il 19.2.99 dal Tribunale di S. Maria C.V. (che poteva costituire un mero principio di prova) nè le chiamate in reità de relato provenienti dai collaboratori D.L., D.A., I.M. e D.C.E. (concernenti, per altro, un assai più risalente arco temporale) nè la commissione di due reati fine (le tentate estorsioni rubricate ai capi 1 e 2);

j) quanto alla tentata estorsione di cui al capo 1, non risultava che la condotta fosse stata univoca e idonea ad intimidire la persona offesa ( Io.Gi., titolare di un’impresa di costruzioni);

inoltre, mancava la prova che lo S. fosse consapevole dell’oggetto dei colloqui fra il V. e lo Io., essendosi limitato a contattare quest’ultimo senza rivolgergli minaccia alcuna;

k) in ordine alla tentata estorsione di cui al capo 2, la penale responsabilità del ricorrente era stata affermata in modo acritico e preconcetto sulla base di una sola conversazione captata, enfatizzando le preoccupazioni della moglie della persona offesa (l’autotrasportatore G.F.); anche qui, non risultava alcun concreto effetto intimidatorio nè era dimostrato che lo S. fosse consapevole dell’oggetto dei colloqui fra il V. e il G., che il ricorrente si era limitato a mettere in contatto fra loro;

1) alla luce del ruolo ricoperto dallo S., in entrambe le tentate estorsioni gli si sarebbero dovuti applicare l’art. 56 c.p., commi 3 o 4;

m) ancora in ordine ad entrambe le tentate estorsioni doveva escludersi l’aggravante ex art. 628 c.p., comma 3, n. 1, non risultando provato che le persone offese avessero percepito la pressione intimidatoria proveniente da più persone riunite;

n) difettava la prova dell’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7: per altro, l’impugnata sentenza era incorsa in una non consentita reformatio in peius perchè aveva riconosciuto tale aggravante sotto entrambi i profili, quello finalistico e quello metodologico, quantunque il Tribunale l’avesse ravvisata solo sotto il secondo;

inoltre, tale aggravante non poteva essere estesa anche allo S. ex artt. 59 e 118 c.p. per non essere da lui conosciuta;

o) erroneamente erano state negate le attenuanti dell’art. 62 bis c.p. e la riduzione della pena al minimo edittale, con minimo aumento ex art. 81 cpv. c.p., nonostante la mancanza di precedenti penali a carico dello S., il cui ruolo nelle tentate estorsioni, pur se strido sensu inidoneo ai fini dell’attenuante dell’art. 114 c.p., era però valutabile quanto meno ai fini delle attenuanti generiche;

p) omessa motivazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anni 1 applicata al ricorrente.

1 – Osserva questa S.C. che il motivo che precede sub a) è aspecifico.

Premesso che l’impugnata sentenza ha chiarito che le attività di ascolto si sono svolte non presso le Procure di Frosinone e di Cassino (come erroneamente sostenuto dal ricorrente), bensì presso il Commissariato P.S. di Cassino (come risultante dagli atti e dalla deposizione del teste isp. Q.), nel caso di specie i giudici del gravame hanno dato atto che le attività di registrazione sono iniziate presso gli uffici della Procura della Repubblica di Napoli e che solo quelle di ascolto sono state "remotizzate" altrove, di guisa che, come statuito dalle S.U. di questa S.C. con sentenza n. 36359 del 26.6.08, non ricorre un caso di applicazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, giacchè per l’utilizzabilità delle intercettazioni è necessario solo che l’attività di registrazione – che, sulla base delle tecnologie attualmente in uso, consiste nell’immissione dei dati captati in una memoria informatica centralizzata – avvenga nei locali della Procura della Repubblica mediante l’utilizzo di impianti ivi esistenti; non rileva – invece – che negli stessi locali vengano successivamente svolte anche le ulteriori attività di ascolto, verbalizzazione ed eventuale riproduzione dei dati così registrati, che possono dunque essere eseguite "in remoto" presso gli uffici della polizia giudiziaria (conf. anche Cass. Sez. 1, n. 35643 del 4.7.08, dep. 18.9.08).

A tali condivisibili rilievi il ricorrente non oppone alcunchè, non confutando le argomentazioni esposte dalla sentenza impugnata, ma insistendo su un dato processuale di cui l’impugnata sentenza aveva motivatamente rilevato l’inesattezza e ignorando sic et simpliciter la giurisprudenza ricordata dai giudici d’appello.

A riguardo è appena il caso di ricordare che è inammissibile – per mancanza della specificità del motivo prescritta dall’art. 581 c.p.p., lett. c) – il ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità del ricorso (cfr. Cass. n. 19951 del 15.5.2008, dep. 19.5.2008; Cass. n. 39598 del 30.9.2004, dep. 11.10.2004; Cass. n. 5191 del 29.3.2000, dep. 3.5.2000; Cass. n. 256 del 18.9.1997, dep. 13.1.1998).

2 – Il motivo che precede sub b) trascura che la giurisprudenza di questa Corte Suprema – da cui non si ravvisa ragione di discostarsi – ha costantemente statuito che l’interpretazione del linguaggio adoperato nel corso di colloqui intercettati, anche quando esso sia criptico o cirrato, resta questione di mero fatto, sottratta al giudizio di legittimità se la valutazione compiuta dai giudici del merito risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (cfr., ad es., Cass. Sez. 6, n. 17619 dell’8.1.2008, dep. 30.4.2008; Cass. Sez. 6, n. 15396 dell’11.12.2007, dep. 11.4.2008;

Cass. Sez. 6, n. 35680 del 10.6.2005, dep. 4.10.2005; Cass. Sez. 4, n. 117 del 28.10.2005, dep. 5.1.2006; Casse. Sez. 5, n. 3643 del 14.7.97, dep. 19.9.2007).

In proposito la gravata pronuncia ha analiticamente evidenziato gli inequivocabili passaggi delle conversazioni intercettate in cui si fa espresso riferimento all’arma (una pistola cal. 7,65) portata dal Sa. a V.R. (altro non ricorrente) e alle frasi da lui pronunciate a riguardo. Il fatto che poi l’arma non sia stata ritrovata non influisce sulla prova del reato, a tanto bastando l’esito delle suddette intercettazioni.

Le differenti letture ipotizzate in ricorso scivolano sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione in punto di fatto incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione degli indizi di cui all’art. 192 c.p.p., comma 2, nonchè la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l’elemento indiziario come grave, preciso e concordante, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti (cfr., ad es., Cass. Sez. 6, n. 20474 del 15.11.02, dep. 8.5.03).

A sua volta il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.

Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziari di cui alle regole di valutazione della prova sancite dall’art. 192 c.p.p., comma 2.

Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quodplerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque pur minima plausibilità (cfr. Cass. Sez. 6, n. 15897 del 15 aprile 2009;

Cass. Sez. 6, n. 16532 del 13.2.07, dep. 24.4.07, rv. 237145).

Ciò detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l’uso di inesistenti massime di esperienza nè violazioni di regole inferenziali, ma si limita a segnalare soltanto possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimità, che non può prendere in considerazione quale ipotetica illogicità argomentativa la mera possibilità di un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza (anche a riguardo la giurisprudenza di questa S.C. è antica e consolidata: cfr. Cass. Sez. 1, n. 12496 del 21.9.99, dep. 4.11.99; Cass. Sez. 1, n. 1685 del 19.3.98, dep. 4.5.98; Cass. Sez. 1, n. 7252 del 17.3.99, dep. 8.6.99; Cass. Sez. 1, n. 13528 dell’11.11.98, dep. 22.12.98; Cass. Sez. 1, n. 5285 del 23.3.98, dep. 6.5.98; Cass. S.U. n. 6402 del 30.4.97, dep. 2.7.97;

Cass. S.U. n. 16 del 19.6.96, dep. 22.10.96; Cass. Sez. 1, n. 1213 del 17.1.84, dep. 11.2.84 e numerosissime altre).

3 – Il motivo che precede sub e) è manifestamente infondato, avendo l’impugnata sentenza chiarito che il riconoscimento dell’aggravante prevista dall’art. 7 cit. nel suo profilo finalistico deriva, in ordine al delitto di cui al capo 13, dai riferimenti – anche essi emersi dalle intercettazioni – alle direttive che V.R. aveva impartito al Sa. affinchè recuperasse l’arma che altro sodale (il Si.) aveva detenuto in un periodo in cui si era dato alla latitanza; quanto al profilo soggettivo dell’aggravante, esso è stato ricavato dalla confidenza tra il Sa., il V. e il Si. e dalla consapevolezza del primo circa l’appartenenza del secondo e del terzo al clan camorristico per cui è processo.

Dunque, la Corte partenopea motiva correttamente sull’interesse del V. e del sodalizio criminale al recupero dell’arma in questione, interesse al cui soddisfacimento si era consapevolmente e volontariamente prestato il Sa. in assenza di altri concorrenti suoi personali interessi, di cui parla – invece – l’odierno ricorrente per sollecitare un non consentito nuovo apprezzamento di merito.

Quanto al travisamento dei fatti genericamente ventilato in ricorso, basti ricordare che si tratta di vizio estraneo al catalogo di quelli che possono farsi valere mediante ricorso per Cassazione, in esso potendosi denunciare solo un eventuale travisamento della prova e non già un travisamento del fatto, che attiene alla generale ricostruzione della vicenda alla luce delle acquisizioni processuali e che non può dedursi neppure alla luce del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (come modificato dalla L. n. 46 del 2000).

4 – Il motivo che precede sub d) è manifestamente infondato, noto essendo in giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. Sez. 1, n. 707 del 13.11.97, dep. 21.2.98; Cass. Sez. 1, n. 8677 del 6.12.2000, dep. 28.2.2001 e numerose altre) che ai fini della determinazione della pena e dell’applicabilità delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p. non è necessario che il giudice, nel riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., li esamini tutti, essendo invece sufficiente che specifichi a quale di essi ha inteso fare riferimento. Ne consegue che con il rinvio a un precedente penale per stupefacenti a carico del Sa., alla gravità del fatto e alla sua latitanza (valutabile ai presenti fini in quanto si traduce in un negativo comportamento processuale: cfr., ex aliis, Cass. Sez. 4, n. 33283 del 12.12.01, dep. 4.10.02) l’impugnata sentenza ha adempiuto l’obbligo di una corretta motivazione sul punto.

5 – Il motivo che precede sub e) si rivela, da un lato, inammissibile per carenza di interesse ad impugnare laddove censura la dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva condannato lo Sp. e il P. per il delitto di cui al capo 10 della rubrica e, dall’altro, inammissibile per difetto di ricorribilità oggettiva del provvedimento con cui ex art. 521 c.p.p., comma 2 la Corte territoriale ha ordinato trasmettersi gli atti al PM per il diverso delitto di cui all’art. 317 c.p. (cfr., ex aliis, Cass. Sez. 3, n. 17197 del 25.3.10, dep. 6.5.10).

Nè ha senso alcuno dolersi per una eventuale futura reformatio in peius, atteso che l’art. 597 c.p.p. la vieta – nel caso e nei termini di cui al comma 3 – solo riguardo alla sentenza impugnata non già con riferimento ad una possibile sentenza in avvenire resa all’esito di altro processo.

6 – Il motivo che precede sub f) è manifestamente infondato perchè trascura, senza addurre argomenti per superarla, la costante giurisprudenza di questa S.C. (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 6, n. 11472 del 2.12.09, dep. 25.3.10) in virtù della quale, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270 c.p.p., comma 1, nel concetto di "diverso procedimento" non rientrano le indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova viene predisposto; nè tale nozione – contrariamente a quanto sostenuto dagli odierni ricorrenti – equivale a quella di "diverso reato". Pertanto, se è vero che non basta il mero dato formale del numero di iscrizione della notitia criminis, dovendosi invece fare riferimento al contenuto della notizia medesima, vale a dire al fatto-reato oggetto di indagini, nondimeno nel caso di specie i giudici del merito hanno evidenziato che dai decreti di autorizzazione del GIP e dai rinvii in essi contenuti alle informative di p.g. risultava che le intercettazioni erano state disposte e proseguite anche perchè era emerso che il Si.

(uno degli appartenenti al clan Venosa) aveva illeciti contatti con appartenenti alle forze dell’ordine.

7 – Il motivo che precede sub g) si colloca al di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 606 c.p.p., perchè sostanzialmente in esso si svolgono mere censure sulla valutazione operata in punto di fatto dai giudici del gravame, che con motivazione esauriente e logica hanno ricostruito la penale responsabilità dello Sp. e del P. (entrambi finanzieri, all’epoca dei fatti in servizio presso il Comando Compagnia di Aversa della G.d.F.) in base all’inequivocabile tenore di una conversazione telefonica svoltasi nella tarda serata o nottata del (OMISSIS), allorquando il Si. aveva riferito al V. che nel pomeriggio aveva subito un controllo da parte di due "compagni" della G.d.F. presso il proprio esercizio commerciale (denominato DVD Center) sito in (OMISSIS), ove gestiva un’attività di illecita riproduzione e vendita di DVD contraffatti; ciò nonostante i due militi, pur avendo scoperto una trentina di DVD contraffatti, avevano redatto un verbale negativo; nel contempo lo Sp., tranquillizzando il Si., lo aveva invitato a stare attento a futuri nuovi controlli che si sarebbero potuti ripetere nei giorni immediatamente successivi e si era prenotato per un telefonino che il Si. gli avrebbe dovuto far trovare in settimana.

L’impugnata sentenza ha motivato in maniera corretta circa la ritenuta veridicità di quanto dal Si. riferito al V., evidenziando altresì che effettivamente il verbale negativo era stato redatto dagli odierni due ricorrenti (circostanza, per altro, non controversa) e che nei giorni seguenti erano stati effettuati nuovi controlli presso lo stesso esercizio commerciale del Si., in occasione dei quali costui si era mostrato del tutto tranquillo, come se – appunto – se li aspettasse.

Le contrarie argomentazioni svolte in ricorso sollecitano soltanto una nuova lettura in punto di fatto delle risultanze processuali e del tenore della conversazione intercettata, il che è precluso in sede di legittimità. 8 – Ancora contenente puri e semplici apprezzamenti di merito è il motivo che precede sub h), in cui il V. cerca di avvalorare una pretesa non attualità della sua partecipazione a quel clan camorristico che egli stesso aveva contribuito a costituire e a dirigere.

Premesso che la contestazione relativa al delitto p. e p. ex art. 416 bis c.p. di cui al capo 17 dell’editto accusatorio si spinge temporalmente fino al giugno 2005, la gravata pronuncia, con motivazione immune da vizi logico-giuridici, ha chiarito che il V. è attinto da plurime credibili chiamate provenienti da svariati collaboratori di giustizia ( D.L., D.A., I.M. e D.C.E.), attendibilità non censurata in appello nè con il ricorso oggi in esame.

Da ciò è emerso, sempre secondo la motivata ricostruzione offerta dalla Corte territoriale, che il clan Venosa, alleato con il clan dei Casalesi, se ne era in un primo momento (1991-92) allontanato, per poi ricongiungersi ad esso.

In particolare, sul punto dell’attualità della condotta, si noti che le cognizioni di due dei summenzionati collaboratori ( D.L. e D.A.) si spingono fino a tutto il 2005 (come si legge a pag. 9 dell’impugnata sentenza) e che sempre a tale anno risalgono alcune conversazioni intercettate: in una di esse, intercorsa fra V.R. – nipote dell’odierno ricorrente – e sua moglie s.A., il primo si riferisce alla posizione di vertice, nell’ambito del predetto sodalizio camorristico, occupata dallo zio; sempre tale nipote riconosce, poi, di seguirne tutti i consigli salvo che nella sfera sentimentale (si era separato dalla moglie).

In altra conversazione lo stesso V.L., parlando con la consorte, "autorizza" il nipote R. a spostarsi su (OMISSIS), zona in cui l’odierno ricorrente confidava poi di recarsi una volta scarcerato e in cui già si erano verificate gravi infiltrazioni camorristiche, tanto che ancora il nipote R., in una conversazione con tale A. (nel corso della quale vi è anche un esplicito riferimento all’attività del camorrista), parla di Cassino come di un territorio dove vi sono molti suoi compaesani e vi è molto "lavoro" da fare, "lavoro" tale da potergli procurare guadagni (nell’ordine di Euro 20.000,00 al mese) non compatibili con un’ordinaria lecita occupazione.

Infine, per quanto concerne l’asserita impossibilità di mantenere dal carcere una posizione di vertice in assenza di prova positiva di un canale di comunicazione (la s., a tale proposito, era stata assolta solo per insufficienza degli elementi probatori a suo carico), basti ricordare la nota giurisprudenza di questa Corte Suprema (cfr., ex aliis, Cass. Sez. 6, n. 3089 del 21.5.98, dep. 8.3.99) secondo la quale, ai fini della configurabilità del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, il vincolo associativo tra il singolo e l’organizzazione si instaura nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significativo della cessazione solo l’avvenuto recesso volontario, da accertarsi caso per caso in virtù di condotta esplicita, coerente e univoca.

Nel caso di specie, al contrario, la gravata pronuncia ha evidenziato plurime risultanze di segno opposto.

9- I motivi che precedono sub i), j), k), m) attengono ad apprezzamenti di merito relativi all’esistenza del clan Venosa all’epoca di cui in contestazione e alle due tentate estorsioni addebitate allo S..

L’esistenza del summenzionato clan camorristico è stata ricavata da molteplici elementi (ai quali lo S. oppone solo un’apodittica negatoria), vale a dire dalla sentenza 19.2.99 del Tribunale di S. Maria C.V., passata in giudicato il 25.10.02, dalle intercettazioni telefoniche relative ad episodi estorsivi, nonchè dalle sopra ricordate concordi dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la cui attendibilità non è stata investita da censura alcuna in sede di appello.

Quanto alle due tentate estorsioni, con motivazione immune da vizi i giudici del merito hanno posto in risalto il ruolo dello S. quale consapevole esecutore di ordini delittuosi impartitigli da V.R. (nipote di L., come si è visto, non ricorrente e anch’egli condannato per il capo 17 relativo al delitto p. e p. ex art. 416 bis c.p.): nel corso delle conversazioni telefoniche intercettate i due si scambiano commenti e condividono programmi criminosi anche in relazione alle due tentate estorsioni di cui ai capi 1 e 2 della rubrica, a riprova dell’univocità e dell’idoneità degli atti finalizzati a far pagare il "pizzo" alle persone offese Io.Gi. e G.G.; il tutto risulta confermato dalle conversazioni svoltesi fra lo Io. e altro imprenditore della zona, in cui il primo riferisce di essere destinatario di pretese estorsive provenienti da V.R., nonchè tra quest’ultimo e C.I..

Sempre le intercettazioni telefoniche hanno consentito di dedurre il personale coinvolgimento dello S. in entrambi i reati, conformemente al rilievo che l’attività dell’odierno ricorrente era ancor più importante in quanto V.R. era limitato nei propri movimenti dall’essere, all’epoca, sottoposto alla misura di prevenzione dell’obbligo di soggiorno nel Comune di (OMISSIS).

Dunque, da quel che si legge nella gravata pronuncia non risponde al vero che lo S. si sia limitato a stabilire in modo neutro e inconsapevole un mero contatto fra V.R. e le persone offese.

Quanto all’assenza di prova di un concreto effetto intimidatorio (entrambi i reati di cui ai capi 1 e 2 sono rimasti a livello di tentativo), basti ricordare – a tacer d’altro – che ai fini della configurazione del delitto di cui agli artt. 56 e 629 c.p. la relativa valutazione va operata ex ante e non expost.

10 – Il motivo che precede sub 1) è generico perchè non chiarisce da dove risulterebbe che dalle condotte sopra descritte lo S. abbia desistito o che comunque si sia adoperato per impedire il realizzarsi degli eventi.

A ciò si aggiunga che, alla luce di costante giurisprudenza di questa S.C., per configurare l’ipotesi della desistenza è necessario che la determinazione del soggetto agente di non proseguire nell’azione criminosa si sia verificata al di fuori di cause che ne abbiano impedito la prosecuzione o l’abbiano resa vana (cfr. ad es.

Cass. Sez. 1, n. 46179 del 2.12.2005, dep. 19.12.2005; conf. Cass. n. 17688/2004; Cass. n. 35764/2003; Cass. n. 5560/86); fra tali cause va annoverata – sempre in virtù di insegnamento (antico e costante) di questa Corte Suprema – anche la resistenza opposta dalla parte offesa (cfr. Cass. Sez. 6, n. 6113 del 25.2.94, dep. 25.5.94; Cass. Sez. 6, n. 11952 del 6.4.90, dep. 29.8.90; Cass. Sez. 4, n. 2097 del 21.12.88, dep. 11.2.89; Cass. Sez. 5, n. 7696 del 30.4.73, dep. 5.11.73; Cass. Sez. 1, n. 306 del 29.3.71, dep. 30.9.71).

11 – I motivi che precedono sub n) e sub p) sono preclusi ex art. 606 c.p.p., u.c., perchè in appello lo S. non aveva mosso censura alcuna alla misura di sicurezza applicatagli nè alla sussistenza – ritenuta dai giudici di primo grado – dell’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 contestatagli in relazione ai capi 1 e 2. 12 – Il motivo che precede sub o) esorbita dall’area di cui all’art. 606 c.p.p., perchè mira ad ottenere le attenuanti dell’art. 62 bis c.p. in base a un diverso apprezzamento in punto di fatto dei relativi parametri, trascurando che in proposito l’impugnata sentenza ha, con motivazione immune da censure, pesato a carico dell’odierno ricorrente sia una precedente condanna per violazione della legge sulle armi sia la pericolosità dimostrata nel commettere i reati di cui ai capi 1, 2 e 17 della rubrica, con modalità tali da escludere un suo minimo contributo causale ad essi, proprio in virtù – come sopra ricordato – della particolare importanza del concorso dello S. in quanto V.R. era limitato nei propri movimenti dall’essere all’epoca sottoposto alla misura di prevenzione dell’obbligo di soggiorno nel Comune di (OMISSIS).

13 – In conclusione, tutti i ricorsi sono da rigettarsi. Ex art. 616 c.p.p. consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Seconda Penale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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