Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 09-03-2011) 29-03-2011, n. 12801 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

e in persona del Dott. Francesco Salzano che ha concluso per il rigetto.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza del 30/08/2010, il Tribunale di Palermo, pronunciando in sede di rinvio, rigettava l’istanza di riesame proposta da P.M. avverso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa a suo carico, in data 12/02/2010, dal g.i.p. del medesimo Tribunale.

2. Avverso la suddetta ordinanza, l’indagato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto nuovamente ricorso per Cassazione deducendo violazione dell’art. 273 c.p.p., commi 1 e 2 e art. 274 c.p.p., lett. A – B- C-) nonchè contraddizione della motivazione sostenendo che:

– egli, di anni 40 ed in pratica incensurato, non era un "uomo di onore";

– dalla conversazione intercettata del 10/05/2006 si desumeva con "assoluta chiarezza che non vi sono eventi delittuosi nè passati, nè presenti, nè tantomeno futuri che i due interlocutori si prefiggono di realizzare per agevolare "Cosa Nostra";

– la presunta attività di proselitismo era inesistente;

– i termini adoperati nella conversazione (come "attaccarono" assenza di "picciotti") sarebbero stati equivocati anche perchè interpretati in maniera decontestualizzata;

– quanto agli episodi (OMISSIS), si trattava di controversie private che il P. aveva con i titolare dei suddetti esercizi commerciali che nulla avevano a che vedere con la forza intimidatrice di Cosa Nostra;

– nulla, poi, consentiva di ricollegare l’incendio ai danni della Ditta ATI Moteco, al ricorrente;

– mancavano, quindi, i gravi indizi di reità e neppure sussistenti erano gli elementi per ritenere l’inquinamento probatorio.

3. Il ricorso è manifestamente infondato per le ragioni di seguito indicate.

La Corte di Cassazione, nell’annullare la precedente ordinanza del Tribunale del riesame, aveva rinviato al Tribunale per un nuovo esame della vicenda. In particolare, la Corte di Cassazione – con il proprio provvedimento di annullamento con rinvio – aveva evidenziato che il Tribunale della Libertà – valorizzando la parte delle conversazioni intercettate in cui si parlava "della carenza di "picciotti" da arruolare e della programmazione di azioni estorsive" – non aveva svolto alcuna "particolare analisi (…) circa il senso del riferimento ai "picciotti", dandosi per scontato che con tale termine ci si riferisse a giovani da inserire nell’organizzazione mafiosa, e senza farsi carico della obiezione della difesa secondo cui, data l’attività agricola svolta dal P., nel colloquio si intendesse in realtà commentare la mancanza di persone che si rendessero disponibili al lavoro dei campi". Quanto alle azioni estorsive, la Corte di Cassazione aveva evidenziato che le medesime erano state "descritte sommariamente" e che mancava "un soddisfacente inquadramento in un programma criminoso generico, assumendosi senz’altro che esse (fossero) indici dell’appartenenza del P. alla consorteria mafiosa".

La Corte di Cassazione aveva infine evidenziato che la conversazione intercettata, dalla quale erano stati desunti i gravi indizi di colpevolezza, era intercorsa tra F.V. e P. V., mentre il nome dell’indagato era P.M., senza che emergesse dall’ordinanza del Tribunale della Libertà se detta diversità di nomi dipendesse "da un errore materiale, da un nome alternativo o aggiuntivo dell’indagato" ovvero dal fatto che P.V. e P.M. fossero due soggetti diversi. Orbene, il Tribunale con un’accuratissima ordinanza di 28 pagine ha, questa volta, dissipato tutti i dubbi motivazionali della precedente ordinanza che avevano indotto questa Corte ad annullare il provvedimento confermativo dell’ordinanza di custodia cautelare. Il Tribunale, infatti, innanzitutto, ha chiarito che il P. M. era la stessa persona chiamata anche P.V. (pag. 4). In secondo luogo, ha proceduto ad un’analisi minuziosa della conversazione intercettata in data 10/05/2006 tra il P. ed il F. (pag. 6 ss) e, dopo avere ricostruito le personalità di entrambi ed il ruolo che il F. ed i vari soggetti di cui parlavano, ricoprivano all’interno della cosca mafiosa di Gibellina (pag. 8 ss) ha chiarito che in quella conversazione i due parlavano di tre appalti ed ha concluso "che, poi, nel caso di specie, il P. ed il F. trattassero proprio di "affari di mafia" (in particolare della "messa a posto" di imprese che stavano eseguendo lavori pubblici) lo si desume chiaramente dall’oggetto della conversazione, dato che l’unico elemento che consente di spiegare il perchè tre individui ( F.V. – con riferimento al quale sussistono gravi indizi nel senso del suo ruolo di "capo-famiglia" di Gibellina G.G. – con riferimento al quale sussistono gravi indizi nel senso del suo ruolo di esponente della famiglia mafiosa di Calatafimi – e P.M.), che non hanno alcun legittimo titolo ad ingerirsi in appalti pubblici, si interessino agli stessi (arrivando anche a prospettare danneggiamenti a carico dell’appaltatore, secondo metodi e logiche mafiose) non può che essere la comune appartenenza a Cosa Nostra ed il tentativo – che traspare dalla conversazione in esame (e nessuna lettura alternativa è stata offerta dalla difesa) – di costringere l’impresa a "mettersi a posto".

Il Tribunale, poi, passa ad esaminare l’ulteriore oggetto della conversazione che si concentra su tale D.M. (nei cui confronti, sol perchè aveva preteso l’immediato pagamento di una fornitura di sansa di olive, fu progettato un danneggiamento: pag. 13 ss), sugli imprenditori riottosi a sottoporsi al "pizzo" ( R.G.) e sulla penuria di "picciotti" ai quali ricorrere per compiere le azioni delittuose programmate (pag. 18 ss). Il Tribunale, a quest’ultimo proposito, si fa carico della tesi difensiva (secondo la quale la ricerca di altri soggetti era volta a coadiuvare il P. nell’attività agricola) ma la disattende in modo logico, congruo ed adeguato rispetto agli evidenziati elementi fattuali.

Il Tribunale, poi, illustra, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte, le ragioni per quali, il P. doveva essere ritenuto intraneo alla Cosca mafiosa (pag. 12 ss – 20 ss).

Il Tribunale, successivamente, passa ad analizzare anche l’episodio (OMISSIS) (i cui gestori non volevano più il P. come fornitore del pane da destinare alla vendita) per il quale il P. chiese al F. l’autorizzazione a danneggiarlo (pag. 21 ss). Da qui il Tribunale, trae l’ulteriore convinzione che i due parlavano di fatti di mafia e che il P. era parte del sodalizio Cosa Nostra (pag.

25 ss). Orbene, a fronte di tale amplissima motivazione, il ricorrente, in questa sede, lungi dall’evidenziare elementi di contraddittorietà e/o illogicità nel ragionamento seguito dal tribunale, si è limitato a mere censure di merito deducendo una versione alternativa dei fatti con la quale ha cercato di sminuire il tenore della conversazione intercettata. Al che va replicato che il ricorrente, in modo surrettizio, tenta di introdurre, in modo inammissibile, in questa sede di legittimità, una nuova valutazione di quegli elementi fattuali già ampiamente presi in esame dalla Corte di merito la quale, con motivazione accurata, logica, priva di aporie e del tutto coerente con gli indicati elementi probatori, ha puntualmente disatteso la tesi difensiva del prevenuto. Pertanto, non avendo il ricorrente evidenziato incongruità, carenze o contraddittorietà motivazionali, la censura, essendo incentrata tutta su una nuova rivalutazione di elementi fattuali e, quindi, mero merito, va dichiarata inammissibile, dovendosi ritenere pertanto che il Tribunale, in modo corretto, ha ritenuto sia la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ( art. 273 c.p.p.) sia la sussistenza delle esigenze cautelari, peraltro presunte a norma dell’art. 275 c.p.p., comma 3. 4. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 3, per manifesta infondatezza: alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *