T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 24-03-2011, n. 2659 Beni di interesse storico, artistico e ambientale esportazione e importazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

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Svolgimento del processo

La Fondazione ricorrente impugna l’atto indicato in epigrafe con cui l’Ufficio esportazione di Roma in data 2.11.2009 ha negato il rilascio dell’attestato di libera circolazione ed ha contestualmente comunicato l’avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale della Commode Luigi XV di proprietà della ricorrente.

La Commode in questione, dichiarata di rilevante interesse storico artistico d.m.7.1.1986, era stata di recente rivalutata dopo che con sentenza di questa Sezione n. 4987 del 23.5.2008 era stato accolto il ricorso proposto dalla Fondazione ricorrente avverso l’atto di diniego di revisione del vincolo ex art. 128 d.lvo n. 42/2004 ritenendo fondate le censure relative alla violazione della garanzia procedimentale di cui all’art. 10 bis della legge n. 241/90 ed alla carenza della motivazione sotto il profilo della rarità dell’opera e del collegamento con il contesto storicoartistico nazionale.

A seguito di tale riesame il Direttore Generale per i Beni architettonici, Storici ed Etnoantropologici, con decreto prot. 4705 del 1.10.2009 aveva rimosso il vincolo apposto sul mobile conformandosi al parere in tal senso espresso dal Comitato tecnicoscientifico in data 23.4.2009.

Nonostante il recente pronunciamento del competente organo consultivo l’Ufficio Esportazione di Roma decideva di richiedere il parere della Commissione Tecnica che con atto del 21.12.2009 prot. 2534 si esprimeva (a maggioranza) nel senso favorevole al rilascio dell’attestato di libera circolazione e contestualmente rettificava il valore dell’esemplare indicando quello riportato sulla domanda di esportazione (Lire 788.983.959) erroneamente trascritto (Euro 15.000.00); di opposto avviso una componente prima si dissociava ed esprimeva parere contrario in data 7.1.2009 e, successivamente, a seguito di esame della documentazione prodotta dalla ricorrente, si conformava (prot. 200 del 3.2.2010).

In contrasto con i pareri sopra richiamati, il Direttore dell’Ufficio Esportazione con nota prot. 209 del 4.2.2010 comunicava alla ricorrente il preavviso di rigetto dell’istanza di rilascio dell’attestato in questione. La ricorrente partecipava al procedimento formulando le proprie osservazioni e depositando una memoria e due relazioni storicoartistiche redatte da esperti internazionali in ebanistica ed arti applicate.

Il procedimento in esame s’è concluso con il provvedimento impugnato con cui l’Ufficio esportazione di Roma ha disposto il diniego di rilascio dell’attestato di libera circolazione, con contestuale avvio di una nuova procedura di dichiarazione di interesse culturale della commode in parola.

Detto provvedimento è stato impugnato deducendo i seguenti motivi:

1) Violazione dell’art. 68 del D.Lgs. 22.1.2004 n. 42 e degli artt. 136, 137, 138 del RD 363 del 30.1.1913. Incompetenza – Sviamento di potere- Violazione del principio di correttezza e buon andamento dell’azione amministrativa ( art. 97 Cost.) – Eccesso di potere per contraddittorietà ed illogicità della procedura;

Il Direttore dell’Ufficio Esportazione ha adottato il provvedimento di diniego dell’attestato di libera circolazione in contrasto con il parere espresso dalla Commissione competente ai sensi degli artt. 136, 137, 138 del RD 363 del 30.1.1913 – tutt’ora applicabile – a pronunciarsi sull’opportunità di autorizzare o vietare l’esportazione del bene e a sospendere il procedimento, dandone avviso al Ministero, nel caso in cui la cosa risulti già sottoposta a vincolo.

Illegittimamente il Direttore dell’Ufficio ha disatteso l’avviso espresso dalla Commissione, trattandosi di parere collegiale, obbligatorio e vincolante, anche in assenza di espressa previsione in tal senso; peraltro in contrasto con la dichiarata natura cautelativa del preavviso di rigetto.

2) Violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241/90 – Sviamento di potere- Violazione del principio di correttezza e buon andamento dell’azione amministrativa ( art. 97 Cost.);

Il preavviso di rigetto era privo di contenuto effettivo e costituiva mero espediente per interrompere il termine procedurale che stava per scadere.

3) Violazione sotto altro profilo dell’art. 68 del D.Lgs. 22.1.2004 n. 42 e degli artt. 136, 137, 138 del RD 363 del 30.1.1913- Violazione del giudicato – Difetto di motivazione, contraddittorietà e illogicità rispetto a precedenti provvedimenti della medesima Amministrazione (artt. 3, 21 quinquies e nonies della legge n. 241/90).

Illegittimamente l’archeologo Direttore dell’Ufficio Esportazioni ha disatteso il parere sull’importanza storico artistica del bene autorevolmente espresso dal competente Comitato tecnicoscientifico con decisione n. 25 del 23.4.2009 nel senso che "sia accettabile l’istanza di revisione del procedimento di dichiarazione sull’opera in oggetto,… "la stessa provenienza dimostra come questo mobile non abbia non solo alcun rapporto con lo sviluppo dell’ebanisteria italiana ma anche con la storia di questo paese e con le sue collezioni storiche. E’ dunque da escludere che possa far parte del patrimonio artistico italiano e si deve affermare senza alcun dubbio l’assenza di ogni suo legame, diretto o indiretto, con le arti decorative della penisola".

Il predetto funzionario ha altresì disatteso la sentenza del TAR che dava "una serie di indicazioni sul merito tecnico della questione", nonché il parere reso dalla Commissione composta da tre esperte funzionarie storiche dell’arte, oltre che i pareri redatti da due dei maggiori esperti di ebanisteria del settecento consultati.

In sintesi, il provvedimento di diniego impugnato è illegittimo in quanto, essendosi di recente espresso il competente organo consultivo presso il Ministero, nonché in senso conforme la Commissione presso l’Ufficio Esportazione, il rilascio dell’attestato di libera circolazione costituiva un atto dovuto. Invece con l’atto di rifiuto in contestazione l’Ufficio predetto non ho solo ha rinnovato ingiustificatamente una procedura – quella della verifica dell’interesse storicoartistico della commode – che s’era già conclusa, ma ha altresì avviato una sorta di procedura di autotutela del provvedimento di revoca del vincolo storicoartistico senza che ne ricorressero (o comunque) ne fossero invocati i presupposti.

Si è costituito per resistere il Ministero per i beni e le attività culturali, con memoria scritta a sostegno del proprio operato.

Con memoria depositata in vista dell’udienza per la trattazione del merito del gravame la ricorrente ha ulteriormente approfondito le proprie deduzioni.

All’udienza pubblica del 3.11.2010 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

Va esaminato, con priorità, il secondo motivo ove la ricorrente lamenta la violazione della garanzia procedimentale di cui all’art. 10 bis della legge n. 241/90.

La doglianza non merita condivisione.

Il provvedimento impugnato costituisce infatti l’atto conclusivo di una serie procedimentale complessa, avviata con la richiesta di revisione del vincolo ai sensi dell’art. 128 del dl.vo n. 42/2004, che è stata respinta con provvedimento impugnato davanti a questo Tribunale ed annullato con sentenza n. 4987/2009 proprio in considerazione della lesione delle garanzie procedimentali in contestazione, oltre che per difetto di motivazione.

In esecuzione della predetta sentenza l’Amministrazione ha riavviato il procedimento di riesame del vincolo consentendo alla ricorrente di rappresentare nella naturale sede procedimentale le proprie osservazioni; partecipazione che non le è stata preclusa neppure in sede di esame dell’istanza di esportazione della Commode, essendo alla ricorrente ben chiari, a questo stadio avanzato della procedura, i motivi ostativi all’accoglimento della sua pretesa, consistenti nella contestata sussistenza dei caratteri prescritti per assoggettare a vincolo e quindi vietare l’esportazione del pregiato pezzo di ebanisteria in questione.

Del pari infondato risulta il terzo mezzo di gravame, con cui la Fondazione ricorrente lamenta che il provvedimento di diniego impugnato costituirebbe un atto elusivo del giudicato formatosi sulla sentenza predetta che, a suo parere, dava "una serie di indicazioni sul merito tecnico della questione".

Come esattamente interpretato dall’Avvocatura Generale dello Stato con nota del 7.10.2008, in occasione della valutazione dell’opportunità di appello della pronuncia in parola, l’esecuzione di questa imponeva il riavvio del procedimento di riesame del vincolo storicoartistico imposto sulla Commode in quanto l’atto di rifiuto del riesame impugnato era stato annullato proprio perché la mancata comunicazione dei motivi ostativi di cui all’art. 10 bis della legge n. 241/90 aveva impedito all’interessata, di rappresentare, nella naturale sede procedimentale, elementi di valutazione utili al fine della formulazione del giudizio conclusivo sul valore dell’opera -in particolare in relazione al carattere di rarità dell’opera ed al collegamento di questa con il contesto storicoartistico nazionale, al dichiarato fine di verificare la possibilità di applicare nel caso di specie l’art. 21 octies della legge n. 241/90. Tant’è che l’annullamento dell’atto di diniego della rimozione del vincolo veniva pronunciato con espressa riserva degli "ulteriori provvedimenti" dell’Amministrazione.

Il provvedimento di riesame del vincolo ai sensi dell’art. 128 del d.lvo n.42/2004 è stato pertanto adottato dal competente Direttore Generale, conformandosi al parere espresso dal Comitato tecnicoscientifico, nell’ambito di valutazione discrezionale ad essa riservata e rimasto impregiudicato dalla sentenza sopra richiamata.

Si tratta ora di verificare se tale pronunciamento potesse o meno essere disatteso dall’Ufficio Esportazione, questione su cui si incentrano i rimanenti profili di censura dedotti con il terzo motivo di ricorso in esame, ove si lamenta che con l’atto impugnato l’Ufficio Esportazione abbia inteso rinnovare ingiustificatamente una procedura – quella della verifica dell’interesse storicoartistico della commode – che s’era già conclusa ed avviato una sorta di procedura di autotutela del provvedimento di revoca del vincolo storicoartistico senza che ne ricorressero (o comunque) ne fossero invocati i presupposti.

Al riguardo va ricordato che è lo stesso legislatore ad aver stabilito un parallelismo tra il provvedimento di diniego dell’autorizzazione all’esportazione ed il provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale della cosa di interesse storicoartisticoetc., esplicitato all’art. 65, espressamente prevedendo, di conseguenza, al comma 6 dell’art. 68 del d.lvo n. 42/2004, come modificato dall’articolo 2, comma 1, del D.Lgs. 26 marzo 2008, n. 62, che "il diniego comporta l’avvio del procedimento di dichiarazione, ai sensi dell’articolo 14. A tal fine, contestualmente al diniego, sono comunicati all’interessato gli elementi di cui all’articolo 14, comma 2, e le cose sono sottoposte alla disposizione di cui al comma 4 del medesimo articolo". Tale previsione appare coerente con la funzione di "filtro" affidata all’Ufficio esportazione che consente, proprio in occasione della valutazione del danno che il Paese subirebbe dalla perdita di un’opera, l’emersione di opere di rilevante interesse culturale di cui l’Amministrazione fino ad allora ignorava l’esistenza.

Nella fattispecie in esame, l’Ufficio Esportazione – chiamato a pronunciarsi sulla esportabilità della Commode pochi mesi dopo la pronuncia del Comitato Tecnico Scientifico che aveva indotto il Ministero a rimuovere il vincolo in contestazione a seguito di riesame ai sensi dell’art. 128 del d.lvo n. 42/2004 – ha espresso una valutazione divergente da quella dei competenti Uffici Ministeriali, sostanzialmente finendo con il sollecitare la revisione del loro giudizio.

Il contrasto tra le valutazioni effettuate dall’organo competente a pronunciarsi sulla sussistenza dell’interesse storicoartistico del mobile in questione e quelle demandate all’Ufficio Esportazione va risolto alla luce del riparto delle competenze degli organi in questione sancito dalle norme organizzatorie e dalle specifiche previsioni in materia di esportazione. Queste riservano in via esclusiva agli organi dell’Amministrazione centrale ogni valutazione in merito alla sussistenza dei caratteri per la dichiarazione dell’interesse storicoartistico di un bene nonché l’adozione del relativo provvedimento nonché una funzione consultiva – in merito, – nei confronti dell’Ufficio Esportazione e non viceversa. Con ciò confermando l’impostazione risalente sin dall’art. 8 co. 3 della legge 20 giugno 1909, n. 364 per le antichità e le belle arti, che stabiliva che in caso di dubbio sull’emissione del veto l’ufficio esportazione dovesse investire il Ministro al fine di acquisire il parere del Consiglio superiore – come richiamato all’art. 145 del r.d. 30.1.1913, Regolamento di esecuzione della predetta legge – parere avente per l’ufficio esportazione efficacia vincolante, riportato all’art. 36 della legge n. 1089/39.

In base all’attuale assetto delle competenze degli organi in parola, pertanto, all’Ufficio Esportazione è demandata una mera funzione di "filtro" consistente nella delibazione della sussistenza del preminente interesse storicoartistico della cosa di cui si chiede l’espatrio – che, appunto, consente a detto organo di promuovere l’avvio del procedimento di vincolo- ma non di sostituirsi all’autorità competente nell’adozione del provvedimento conclusivo dello stesso. Ne consegue che, in caso di divergente valutazione in merito alla sussistenza nell’oggetto di caratteri atti a qualificare una cosa come "bene culturale" l’Ufficio Esportazione non può né disattendere il parere appena espresso al riguardo dall’organo consultivo ministeriale né promuoverne il riesame senza addurre alcun nuovo elemento di valutazione atto a giustificare la richiesta di revisione, sulla sola base di una propria convinzione in merito al valore del bene difforme rispetto a quella dell’organo cui è istituzionalmente demandata la formulazione del giudizio sul valore storicoartistico del bene.

E’ quanto appunto si è verificato nel caso in esame, in cui gli elementi di giudizio sulla base del quale l’Ufficio Esportazione promuoveva l’avvio del procedimento di vincolo non presentavano alcun elemento di novità rispetto a quelli già attentamente considerati e valutati dal Comitato Tecnico scientifico in sede di riesame del vincolo ex art. 128 d.lvo n. 42/2004.

Ciò porta ad esaminare l’ulteriore e connessa questione della sorte del procedimento di autorizzazione all’esportazione dell’opera in conseguenza della conclusione negativa del procedimento di vincolo.

Secondo la prospettazione della ricorrente, mutuata dai primi commentatori della normativa, in tal caso l’Ufficio Esportazione sarebbe obbligato a rilasciare l’attestato di libera circolazione.

Invero proprio in virtù del richiamato parallelismo tra i due procedimenti – sebbene il Codice nulla disponga al riguardo- nel caso in cui il procedimento di vincolo avviato col diniego di esportazione si concluda – anziché con la dichiarazione dell’interesse storicoartistico particolarmente importante del bene, che confermi la delibazione al riguardo operata dall’Ufficio Esportazione, sancendo uno status di inesportabilità dell’opera – con il provvedimento di opposto tenore, si determinerebbe il venir meno del presupposto – appartenenza del bene al patrimonio culturale nazionale – sulla base del quale il procedimento volto all’autorizzazione dell’esportazione dell’opera s’era concluso negativamente, con la conseguenza logica, ancor prima che giuridica, di non poterne più precludere l’uscita, se non per motivi diversi (es. provenienza furtiva del bene). Tanto più nel caso in cui l’opera debba essere trasferita in uno Stato membro dell’Unione Europea, in cui l’impedimento alla circolazione del bene non risulterebbe giustificato nei confronti di cose che la stessa Amministrazione non ritiene meritevoli della dichiarazione di interesse culturale.

L’Avvocatura erariale, dal suo canto, ha opposto il rilievo che l’evenienza invocata dalla ricorrente sarebbe prevista dal Codice dei Beni Culturali solo per il caso di accoglimento del ricorso di cui all’art. 69 del d.lvo n. 42/2004.

In proposito il Collegio – che non può non concordare sulla difficoltà e logicità di configurare una categoria di beni dall’autorità ritenuti privi di interesse culturale e nonostante ciò sottratti alla circolazione internazionale, con conseguente incompatibilità con i principi e la normativa comunitaria- ritiene che l’assunto di parte possa essere condiviso con i temperamenti che seguono.

Va premesso che la normativa in materia di esportazione dei beni culturali ha subito un radicale mutamento di impostazione nel corso del tempo che non sempre si è riflesso in adeguate modifiche testuali, tant’è che nella stessa relazione illustrativa al D.lvo n. 62/2008 si dà atto di "equivoci interpretativi" a causa della riproduzione di "formule tralaticie".

Com’è noto, l’art. 8 co. 1 della legge 20 giugno 1909, n. 364, sostanzialmente riprodotto dall’art. 35 della legge 1 giugno 1939 n. 1089, prevedeva, quale condizione atta a giustificare restrizioni alla circolazione internazionale delle antichità e "cose d’arte" o di interesse storico che la loro esportazione costituisse un "danno grave" o "ingente" per il patrimonio culturale nazionale, sicchè, non essendovi coincidenza tra le due categorie, l’autorizzazione all’uscita di tali beni era subordinata ad un duplice ordine di valutazioni, dovendo l’autorità competente effettuare una valutazione preliminare dell’interesse di tipo artistico, storicoculturale etc.e, successivamente, valutare se l’allontanamento dal territorio nazionale potesse determinare un considerevole danno per il "patrimonio culturale".

In tal modo il legislatore sin dall’inizio del secolo ha affidato alla latissima discrezionalità dell’Amministrazione simile delicata valutazione, individuando quale contrappeso, sul piano organizzativo, quello della collegialità delle relative decisioni, sancito dall’art. 8 co. 3 della legge 20 giugno 1909, n. 364, prevedendo che l’ufficio di esportazione giudichi, in numero di tre funzionari, come ribadito dagli art. 136, 137 e 138 del r.d. 30.1.1913; regolamento tutt’ora vigente ai sensi dell’art. 130 del d.lvo n. 42/2004.

Successivamente, quale contrappeso sul piano procedimentale, l’art. 1 co. 2 del d.l. 5.7.1972 n. 288 conv. in legge 487 dell’8.8.1972 ha stabilito che nell’effettuare detta valutazione gli Uffici Esportazione si dovessero attenere ad indirizzi di carattere generale stabiliti dalla Direzione generale delle antichità e belle arti; ciò anche per compensare l’ampliamento della discrezionalità dovuta dall’eliminazione del carattere di "gravità" del danno per il patrimonio culturale nazionale operata dal comma 1 della predetta disposizione.

Tale impostazione è rimasta immutata nel tempo e, nonostante l’estensione del divieto ad opera dell’art. 17 della legge 88 del 1998, la ricostruzione delle decisioni in parola in termini di doppia valutazione (sull’interesse storicoculturale della cosa e sulla perdita in termini di depauperamento del patrimonio culturale nazionale in caso di esportazione) ha mantenuto alcuni autorevoli sostenitori fino al Testo Unico del 1999, che continuavano a ritenere il vincolo condizione necessaria, ma non sufficiente per restringerne la circolabilità, ritenendo che non ogni uscita di tali beni determini un danno al patrimonio nazionale e che fosse necessario a tal fine anche il rischio di perdita del (valore identitario) rappresentato dal bene di cui si chiedeva l’espatrio; impostazione che ha trovato un persistente riscontro normativo nel comma 3 dell’art. 1 della legge n. 84 del 19.4.1990, tant’è che l’eliminazione del criterio del "danno" nella recente modifica dell’art. 68 del Codice dei Beni Culturali operata dall’articolo 2, comma 1, del D.Lgs. 26 marzo 2008, n. 62, è stata disposta proprio al fine di chiarire l’equivoco interpretativo ingenerato dalla persistente vigenza di tale disposizione, di cui appunto il legislatore del 2008 proponeva contestualmente l’abrogazione (vedi Relazione illustrativa al d.lvo n. 62/2008 pag. 453).

Tale ricostruzione serve a comprendere come, nonostante il richiamato parallelismo tra il provvedimento di vincolo ed il diniego di uscita del bene vincolato, operato dal Codice del 2004, la sovrapposizione delle categorie in parola, non risolve automaticamente tutti i delicati problemi interpretativi derivati dall’innesto di tali previsioni in una disciplina normativa organica che risente dell’originaria impostazione nel senso sopra indicato.

Così, come il richiamo, operato dal 4 comma dell’art. 68 del Codice, come modificato dall’art. 2, comma 1 del D.Lgs. 62/2008 – introdotto dal legislatore del 2008 al dichiarato fine di rimediare ad un "errore tecnico" dei compilatori del Testo Unico – della norma che stabilisce che l’Ufficio Esportazione debba esprimersi in merito all’esportabilità o meno dell’opera sulla base degli "indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero, sentito il competente organo consultivo" richiama una norma che trova fondamento e significato in un sistema, appunto, incentrato sulla valutazione del danno determinato dal "depauperamento" che il patrimonio culturale nazionale subirebbe dall’allontanamento del bene.

Detti criteri sono ancora quelli indicati dal Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti nella seduta del 10 gennaio del 1974, presieduta dal Prof. Giulio Carlo Argan – il quale da giovane aveva partecipato insieme a Santi Romano alla Commissione che aveva elaborato la Legge Bottai – divulgati con circolare del Ministero della Pubblica Istruzione prot. 2718 del 13.5.1974, e confermati dalla CM 4261 del 17.7.1998, la quale al punto 5 precisa che "il verbale dovrà fare riferimento a tali criteri’, da ritenersi tuttora vigente come riconosciuto da giurisprudenza e dottrina (cfr.TAR Liguria 906 del 14.6.2005) e dallo stesso legislatore (vedi Relazione illustrativa al d.lvo n. 62/2008 pag. 455).

Ed è proprio nell’interpretazione ed applicazione di tali criteri, ed in particolare del rilievo del carattere di "italianità" nella decisione sul trasferimento all’estero dell’opera che si incentra la controversia in esame, che vede il Direttore dell’Ufficio Esportazione su posizioni contrapposte rispetto alla Commissione Tecnica presso lo stesso istituita che s’è pronunciata a seguito della valutazione prevista dagli artt. 136 e segg. del RD 363 del 30.1.1913 – tutt’ora vigente in virtù dell’art. 130 del d.lvo n. 42/2004 – sull’opportunità di autorizzare l’esportazione della Commode, nonché con la decisione del Comitato Tecnico Scientifico del Ministero di non appartenenza di questa al patrimonio culturale nazionale.

Com’è noto, tali criteri vanno interpretati ed applicati tenendo conto sia della specificità dell’oggetto sia dell’area di provenienza, in quanto, come cautamente avvertito dallo stesso Consiglio Superiore nelle premesse del citato atto di indirizzo, ove dà atto della "difficoltà di esprimere criteri generali in una materia vasta e diversa".

Sotto il primo profilo è stata riconosciuta dagli stessi autorevoli componenti la difficoltà di applicare alle diverse tipologie di beni culturali – ed in particolare ad esemplari di arte minore ed applicata – alcuni principi di carattere generale elaborati con riferimento all’opera d’arte e che sono strettamente collegati dalla stessa natura di questi, che ha indotto l’autorevole Consesso a formulare alcune specifiche previsioni che s’attagliano a tipologia di cose diverse, quali quelle oggetto di contestazione (es. criteri a, b, d e soprattutto f del primo gruppo, nonché c del secondo gruppo).

Sotto il secondo profilo, quello della provenienza dell’opera e della difficoltà di acquisizione, il criterio di cui al punto f) conferma che il valore di strumento culturale del bene è commisurato oltre che alla sua rarità, alla stessa difficoltà del suo reperimento, confermando quindi che il giudizio valutativo in parola ha carattere necessariamente comparativo, come evidenziato già da risalente dottrina, tant’è che è suscettibile di successive revisioni, anche in base alle variazioni nel frattempo intervenute nella consistenza di tale patrimonio, come si evince dalla stessa limitazione della validità temporale dell’attestato di libera circolazione, che, come unanimemente riconosciuto, costituisce espressione del principio di temporaneità e modificabilità delle valutazioni in parola sancito dall’art. 128 del Codice dei Beni Culturali.

In tale prospettiva, assume perciò particolare rilievo la circostanza che si tratti di un tipo di bene culturale il cui valore possa essere apprezzato anche in ciascuna opera isolatamente presa (es. dipinto) oppure un tipo di bene (es. mobile) in cui questo vari a seconda che sia o meno inserito nel "contesto ambientale", che può essere gravemente diminuito se isolato dall’insieme di arredo di cui fa parte, specie nel caso in cui abbia funzione sociale e di rappresentanza, tanto che la ricollocazione del bene possa porsi come condizione necessaria per assicurarne l’adeguata "lettura" e quindi per svolgere la funzione pubblica perseguita dalla PA mediante la sua tutela.

La finalità perseguita dall’intervento pubblico nel settore in esame, infatti, come solennemente enunciato dall’art. 1 del D.Lgs. 2212004 n. 42 Codice dei beni culturali, consiste nella duplice funzione di "preservare la memoria della comunità nazionale" e "di promuoverne lo sviluppo della cultura" ", funzione che il divieto di esportazione è inteso a salvaguardare.

Al riguardo va ricordato che la "causa" che giustifica il trattenimento di un bene culturale all’interno del Paese non attiene alla protezione dell’opera in sé considerata, quanto alla possibilità – ipotetica ed astratta – di assicurarne in futuro la fruizione sul proprio territorio, nel caso di un eventuale, futuro intervento dello Stato volto all’acquisto di tale bene, condizione che potrebbe magari mai avverarsi; fruizione che, com’è noto, non è assicurata dalla mera presenza dell’opera sul territorio nazionale, in quanto la destinazione alla pubblica fruizione è limitata, ai sensi degli art. 1, 2 e 3 del Codice, ai soli beni culturali di proprietà pubblica, mentre il bene culturale di proprietà di privati non è destinato alla fruizione collettiva salvo le ipotesi eccezionali tassativamente previste dalla legge.

Le considerazioni richiamate in merito alla funzione, alla natura ed ai caratteri dell’azione amministrativa nel settore hanno perciò immediato rilievo sui "motivi" che possono giustificare il divieto di esportazione di un’opera.

E’ noto che si oppongono al riguardo due diverse concezioni: una fortemente "nazionalistica" volta a trattenere nel territorio nazionale qualunque oggetto di interesse storico artistico sia comunque per ventura ivi presente – secondo una concezione dominicale che ha trovato il suo culmine nel modello napoleonico di museo come di una serie di opere, frutto di bottino, mostrate alla rinfusa per l’orgoglio della Patria – e l’opposta visione "cosmopolita" che è incentrata sulla funzione universale dell’arte e sul riconoscimento del diritto di tutti i Popoli anche degli altri Stati di poter fruire della possibilità di formazione estetica e culturale ed impone di instaurare forme di collaborazione a tale fine, anche mediante la rilocalizzazione di beni di particolare valore identitario per lo Stato richiedente, oltre che per l’equa distribuzione di "risorse culturali" che potrebbero anche avvantaggiare i Paesi di esportazione, liberati dall’onere di conservazione di inutili doppioni. Ciò anche al fine di evitare gli "effetti perversi" di una prassi applicativa volta a "vincolare tutto per non controllare nulla" che finirebbe per alimentare involontariamente il fenomeno del mercato clandestino delle opere d’arte e di tentare di concentrare le (limitate) risorse in un’opera di efficace tutela delle opere veramente significative.

Orbene, se la seconda concezione rappresenta una tendenza che non trova ancora completo riconoscimento normativo, tuttavia neppure la prima trova più alcun fondamento nell’ordinamento giuridico vigente e risulta, al riguardo, inconferente il richiamo operato dall’Ufficio Esportazione alla Convenzione Unesco del 14.11.1970, che, al fine di sancire la collaborazione internazionale per la restituzione di beni culturali illecitamente trafficati, riconosce la rilevanza dell’elemento "territoriale" e della "appartenenza" di bene culturale ad un determinato Stato – appunto perché finalizzata ad attivare gli obblighi di restituzione al Paese cui sia stata sottratta – ma non comporta certo l’imposizione agli Stati che vi abbiano aderito di attribuire la stessa rilevanza ai medesimi elementi ai fini della definizione delle condizioni di appartenenza di un bene al "patrimonio culturale" e delle modalità di tutela.

Queste vanno individuate alla luce dei principi richiamati dall’art. 1 del D.Lgs. 2212004 n. 42 Codice dei beni culturali e della finalità di "preservare la memoria della comunità nazionale" e "di promuoverne lo sviluppo della cultura" – funzioni che il divieto di esportazione è inteso a salvaguardare.

Ciò comporta che, se da un lato deve escludersi che il carattere di "italianità" dell’esemplare costituisca una condizione imprescindibile affinchè se ne possa imporre il trattenimento forzoso sul territorio nazionale – e che perciò sia ben possibile il divieto di esportazione di opere straniere la cui presenza nel patrimonio culturale nazionale sia necessaria per favorire la conoscenza delle culture di cui i beni in questione costituiscano "testimonianza di civiltà" – tuttavia, dall’altro non si può neppure ritenere comunque inesportabile qualunque bell’oggetto per qualsiasi motivo presente nel territorio dello Stato. Questo, infatti, per essere ritenuto elemento costituivo e parte imprescindibile del predetto "patrimonio", deve corrispondere funzioni sopra ricordate, in quanto il bene oggetto di tutela non è tanto la cosa in sé quanto piuttosto il valore culturale che questa rappresenta in quanto "testimonianza materiale di civiltà" e come "strumento" per la formazione e la crescita culturale della Comunità.

Ne consegue che l’esigenza di trattenere sul territorio nazionale le cose di interesse culturale va commisurata – secondo un giudizio che è necessariamente comparativo come sopra ricordato – alle predette funzioni sicchè deve essere assicurata la presenza di tali beni in misura sufficiente, sotto il profilo quantitativo, ed adeguatamente rappresentativa, sotto il profilo qualitativo della significatività dell’oggetto, in modo da consentire, anche in Patria, l’approfondimento della conoscenza delle civiltà straniere di cui sono testimonianza. Le relative decisioni dell’autorità amministrativa sono, com’è noto, frutto di una valutazione tecnicodiscrezionale, che implica anche una componente di discrezionalità amministrativa, che varia nel tempo, anche in considerazione dell’esigenza di approfondire i legami con diverse civiltà straniere che muta a seconda dei diversi momenti storici.

Con ciò ovviamente non si intende né sostenere una visione "nazionalistica" dell’arte né negare il carattere "universale" dell’arte, essendo noto anche all’uomo di media cultura che i capolavori dell’impressionismo fanno parte dell’identità culturale dell’uomo moderno e che i capolavori dell’arte antica hanno valore identitario per l’uomo occidentale, ma solo evidenziare l’ovvia considerazione che, nella valutazione comparativa (che in quanto tale si fonda su un concetto di "utilità marginale" di un’unità aggiuntiva rispetto a quelle già possedute) – com’è quella che deve essere effettuata al fine di decidere ad esempio sull’esportabilità di un dipinto, un conto è la perdita di un ulteriore ritratto di Boldini ed un conto di un’ulteriore Ninfea di Monet. Né tanto meno ignorare la possibile pluriappartenenza di un’opera a più culture contemporaneamente, ben potendo lo stesso quadro – ad esempio un paesaggio di Giotto – rivestire fortissimo valore identitario sia per l’ente locale in cui la scena si svolge o da cui l’artista proviene, sia per lo Stato di appartenenza di questo, sia per la Nazione con cui l’opera abbia un valore particolare in virtù di un’acquisizione storicizzata, sia per l’Umanità intera.

Tali considerazioni appunto inducono a confermare la natura ed il carattere delle relative scelte in quanto attengono all’individuazione della dimensione "territoriale" rilevante dell’interesse culturale e sono quindi mutabili nel tempo, soprattutto con riguardo alle opere della contemporaneità, e della "politica culturale" di cui sono espressione, che per quanto "aperta ad altre culture" non può comportare il disconoscimento del valore preminente dell’elemento identitario in questione. In altri termini, sembra ovvio che per quanto una maschera africana possa far parte della cultura universale e debba essere rappresentata nelle collezioni pubbliche italiane, non è necessaria la presenza di tanti esemplari quante sono le tribù africane, con l’altrettanto ovvia precisazione che il giudizio (comparativo) sulla sufficienza e rappresentatività degli esemplari già in possesso è frutto di valutazioni, come si è detto, riservate all’Autorità amministrativa competente; insindacabili dal giudice amministrativo salvo i limiti soprarichiamati.

Tali considerazioni, come s’è detto, hanno immediato rilievo sui "motivi" che possono giustificare il divieto di esportazione di un’opera.

In applicazione dei predetti criteri della rarità dell’opera e della sua rappresentatività come testimonianza di altre culture, indicati dalle lettere a) ed f) del primo gruppo e c) del secondo gruppo, l’autorità competente può addivenire a diverse valutazioni in merito all’esportabilità dell’opera a seconda che si tratti di oggetto avente forte valore identitario oppure che rivesta valore di "testimonianza di civiltà" diversa da quella nazionale e sia adeguatamente rappresentato da oggetti analoghi che siano già inclusi nelle collezioni nazionali oppure, al contrario, può riconoscerne l’imprescindibilità proprio in quanto unico pezzo mancante di una collezione.

E’ evidente, alla luce di quanto sopra esposto, che, sotto tale profilo, non può ritenersi irrilevante il carattere di "nazionalità" dell’opera, in quanto, in considerazione della finalità perseguita, l’autorità competente può ben sottoporre a regime discriminatorio l’opera a seconda che consideri questa una componente imprescindibile del patrimonio culturale nazionale – in virtù del suo valore identitario – oppure se consideri questa come "testimonianza di civiltà" di una cultura diversa per la conoscenza della quale potrebbe ritenere sufficienti analoghi esemplari, adeguatamente rappresentativi, già rappresentati nelle collezioni nazionali.

Ad esempio, se il forzoso trattenimento all’interno dei confini nazionali dell’ennesimo dipinto del Canaletto o del Vanvitelli (Van Wittel) può essere giustificata in quanto la competente autorità consideri di particolare valore identitario la veduta o il soggetto rappresentato – criterio considerato sub c) – e quindi possa ritenere rilevante anche la rappresentazione dello stesso luogo da diverso punto di vista (ad es. Castel Sant’Angelo visto dalla Piazza dei Fiorentini o da Sud), a diverse conclusioni il predetto organo può addivenire per quanto riguarda l’ennesima rappresentazione di ninfee di Monet di cui possa ritenere sufficienti gli esemplari già presenti nelle collezioni pubbliche italiane e magari invece del tutto mancante nelle istituzioni museali di altro Stato interessato.

Le relative decisioni dell’autorità amministrativa sono, com’è noto, frutto di una valutazione tecnicodiscrezionale, che implica anche una componente di discrezionalità amministrativa, che varia nel tempo – anche in considerazione dell’esigenza di approfondire i legami con diverse civiltà straniere che muta a seconda dei diversi momenti storici – e non sono sindacabili in questa sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’eccesso di potere, inteso sia nelle forme tradizionali sia in quelle evolute dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa, tanto più nel caso in cui la decisione sottoposta al sindacato di legittimità del giudice amministrativo riguardi valutazioni effettuate in occasione della richiesta di trasferimento all’estero di un bene che assuma un rilevantissimo valore identitario per un altro Paese e quindi comporti una valutazione comparativa degli interessi in gioco, in cui l’Autorità competente può anche ritenere prevalente, rispetto all’interesse al trattenimento forzoso di un "bell’oggetto" che sia per caso presente all’interno dello Stato, l’esigenza di una sua rilocalizzazione nello Stato di "appartenenza culturale" per il quale abbia forte valore identitario (anche l’interesse all’identità culturale nazionale dello Stato richiedente va comunque considerato trattandosi di valori fondanti riconosciuti di natura costituzionale anche a livello comunitario, come richiamato anche nelle premesse dell’atto impugnato).

In tale prospettiva nella specie l’operato dell’Ufficio esportazione s’appalesa illegittimo in quanto si fonda su una interpretazione della normativa in materia e dei criteri del 1974 che non è condivisibile, ponendosi in contrasto con le valutazioni sull’interesse storicoartistico appena effettuate dal competente organo consultivo del Ministero discostandosi immotivatamente dalla diversa posizione collegialmente assunta dalla Commissione Tecnica istituita presso lo stesso Ufficio.

Il contrasto, infatti, non pertiene alla ricostruzione dei fatti, sui quali vi è concordia tra i vari organi, quanto sul rilievo dell’appartenenza della Commode all’ambito culturale francese, anche sotto il profilo storico, e quindi sull’opportunità di consentirne la ricollocazione nel Museo di Versaielles.

La Commissione dell’Ufficio Esportazione aveva escluso che, alla luce delle incontestate circostanze di fatto, si potesse giustificare il trattenimento forzoso dell’esemplare sia sotto il profilo dell’insussistenza di un legame significativo con il nostro Paese tale da poter considerare la Commode come componente del nostro Patrimonio Culturale in virtù di un" "acquisizione storicizzata", sia sotto il profilo della ricorrenza di esemplari analoghi tanto in collezioni private – va ricordato che nel 1962 la Commode era pervenuta in Italia in coppia con analoga, ugualmente assoggettata a vincolo con decreto del 7.1.1986, ed aggiudicata all’asta del 4.3.1987 ad un privato – quanto in collezioni pubbliche in quanto un’analoga Commode è presente nel Palazzo del Quirinale; circostanze, queste ultime che assumono rilievo sotto il profilo dei criteri del 1974, in particolare quello indicato alla lett. f).

Per quanto riguarda invece il profilo dell’importanza sotto il profilo storico – addotta dall’Ufficio Esportazione come ulteriore ragione per vietarne l’esportazione – la circostanza, ricordata dalla stessa Amministrazione, che a seguito del matrimonio tra la figlia di Luigi XV e Filippo di Borbone, duca di Parma non è stato importato in Italia il mobile in questione, bensì una Commode analoga, vale ad escludere che l’esemplare in questione possa essere considerato come testimonianza storicamente significativa dell’evento storico indicato. Ed ugualmente a tale evento – e non già alla Commode in questione, giunta in Italia solo nel 1962 – è riconducibile l’influenza dello "stile francese" sulla storia del mobile piemontese del "700.

Stesse considerazioni valgono per quanto riguarda le ulteriori ragioni invocate dall’Ufficio Esportazione a fondamento dell’opposto diniego e cioè la richiesta da parte del Direttore del Museo del Louvre del pregiato esemplare di ebanisteria in contestazione, che, proprio in quanto indicativo del particolare significato del mobile per la storia e l’ebanisteria francese, avrebbe potuto ben essere considerato quale elemento atto a giustificare il rilascio della Commode, piuttosto che il suo trattenimento forzoso sul suolo nazionale.

In conclusione il provvedimento impugnato, con cui l’Ufficio Esportazione, fondandosi sui medesimi elementi di giudizio che hanno costituito oggetto di attente considerazioni sia da parte del Comitato Tecnicoscientifico – che dopo aver acquisito e confrontato le diverse posizioni di autorevoli esponenti della Comunità scientifica ed esperti ministeriali che si sono pronunciati sul "giudizio di valore" da esprimere sulla Commode sia sotto il profilo intrinseco del suo pregio sia sotto il profilo della rappresentatività si è s’è espresso nel senso della non appartenenza al patrimonio culturale nazionale – sia da parte della Commissione Tecnica istituita presso l’Ufficio Esportazione – che è giunta alle medesime conclusioni, evidenziando altresì la presenza di simili testimonianze nel Palazzo del Quirinale ed in collezioni privati – non suffragato da nuovi elementi di giudizio e tantomeno di diversi elementi probatori bensì unicamente sulla base di una differente interpretazione della normativa in materia, peraltro non condivisibile.

Per quanto attiene al merito della decisione assunta in merito all’esportabilità del bene in questione, ovviamente il Collegio non può certo, in questa sede di sindacato di legittimità, pronunciarsi, non potendo sostituire le proprie valutazioni a quelle collegialmente effettuate dagli Organi competenti, potendo solo osservare – incidenter tantum – che non pare ravvisabile alcuna giusta "causa" che avalli il forzoso trattenimento all’interno del Paese della Commode – richiesta da un Paese per il quale la Commode ha un particolare valore identitario come testimoniato dalla richiesta del Direttore del Louvre, che nel 1984 aveva sollecitato il rientro in Francia del mobile in questione al fine di destinarlo ad un’esposizione permanente nel Museo di Versailles (questione che ha costituito oggetto di colloquio tra l’Ambasciatore di Francia ed il Presidente della Repubblica Italiana) – e che la scelta di ricollocazione del bene non comporta alcun pregiudizio dell’interesse pubblico perseguito. Sotto tale profilo, infatti, vista anche la vicinanza della sede museale, qualunque visitatore italiano potrà ben apprezzare il pregiato pezzo di ebanisteria nel suo contesto naturale, inserito nell’ambiente di provenienza ed esposto alla vista di qualunque avventore, rispetto all’alternativa di trattenere lo stesso pezzo forzatamente in Italia, ma sottratto alla pubblica fruizione e visionabile semmai solo in virtù di eventuale, e non dovuta, "graziosa concessione" del proprietario a studiosi di suo gradimento.

In conclusione, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento, per l’effetto, dell’atto impugnato.

La domanda risarcitoria va invece respinta in quanto generica, non avendo la ricorrente dimostrato di aver subito un danno effettivo in conseguenza del divieto di esportazione del bene né che detta determinazione abbia in alcun modo impedito nelle more né il godimento né la disposizione (ovviamente all’interno del territorio nazionale) del bene in questione. Tantomeno la ricorrente può pretendere il rimborso delle spese sostenute in occasione della presentazione del bene all’Ufficio Esportazione per il prescritto parere, trattandosi di costi connessi al procedimento di esportazione e quindi che sarebbero rimasti naturalmente a carico dell’istante anche in caso di accoglimento della domanda di esportazione e non essendo in alcun modo configurabili come uscite non dovute determinate dall’illegittimo operato della PA). Da ultimo nemmeno può essere configurabile alcuna colpa a carico dell’autorità che ha assunto le determinazioni oggetto di contestazione vista l’oggettiva complessità delle questioni interpretative sollevate dalle modificazioni della normativa in materia nel tempo.

Sussistono perciò giusti motivi, vista la complessità della controversia, per disporre la compensazione integrale tra le parti delle spese di giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Sezione II quater, accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, e, per l’effetto, annulla l’atto impugnato. Respinge l’istanza risarcitoria.

Spese, diritti ed onorari compensati.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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