Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-06-2011, n. 13570 Condotta antisindacale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Giudice del lavoro di Verona, su ricorso proposto da COBAS P.T. – CUB Coordinamento di base delegati P.T. aderente alla confederazione unitaria di Base nei confronti di Poste Italiane spa, dichiarava antisindacale il diniego dell’aspettativa ex art. 31 dello Statuto dei lavoratori opposto a S.P., condannando il datore di lavoro al pagamento delle spese di giudizio.

2. Avverso tale statuizione, Poste Italiane spa proponeva opposizione, deducendo che la richiesta di aspettativa sindacale per il periodo dal 28 giugno al 31 agosto 2004 era stata respinta in ragione dell’assenza dei requisiti di legge. Affermava che il decreto doveva essere revocato per mancanza di legittimazione attiva del Sindacato e per l’insussistenza della condotta antisindacale.

3. Il Tribunale di Verona accoglieva l’opposizione e revocava il decreto con la sentenza n. 714 del 2004. 4. Detta pronuncia veniva impugnata dinanzi alla Corte d’Appello di Venezia da COBAS P.T. nei confronti di Poste Italiane spa.

4.1. Poste Italiane spa proponeva appello incidentale avente ad oggetto il difetto di legittimazione attiva della parte ricorrente.

5. La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 285 del 2006, rigettato l’appello incidentale, in parziale riforma della sentenza appellata ed in accoglimento dell’appello principale, dichiarato il difetto di legittimazione della struttura nazionale del sindacato ricorrente, dichiarava l’antisindacalità del comportamento della società oggetto di causa e, per l’effetto condannava l’appellata a riconoscere la richiesta aspettativa e la legittimità dell’assenza come dalla stessa derivante.

6. Ricorre per la cassazione della suddetta sentenza, resa in grado d’appello, Poste Italiane spa, prospettando quattro motivi di ricorso.

7. Resiste con controricorso COBAS P.T. Coordinamento di Base dei delegato P.T. aderenti a CUB di Verona e Provincia.

8. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso, Poste Italiane spa deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 28 e degli artt. 75 e 100 c.p.c., prospettando la carenza di legittimazione attiva in capo alle Organizzazioni sindacali COBAS P.T., già eccepita nei precedenti gradi di giudizio.

Ad avviso della ricorrente, la statuizione della Corte d’Appello di ritenere sussistente la legittimazione attiva del sindacato ricorrente, in ragione della proclamazione del carattere nazionale dell’organismo, accompagnato dalla sua effettiva diffusione su gran parte del territorio nazionale (come documentato da elenco strutture territoriali, numerosi precedenti giurisprudenziali, convocazione presso la Commissione nazionale), sarebbe basata su valutazioni presuntive o astratte o su fatti concreti ma svincolati dall’attività effettivamente espletata dalla O.S. in questione.

Ed infatti, non sarebbe emerso dal giudizio che il Sindacato in questione abbia svolto sul territorio effettivamente la propria attività sindacale, dato quest’ultimo che deve accompagnare la dimensione territoriale.

In ordine al suddetto motivo, veniva articolato il seguente quesito di diritto:

se un Sindacato che non ha operato (o, quantomeno, non ha dimostrato di aver operato) su buona parte del territorio nazionale possa agire in giudizio ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, sempre con riguardo al difetto di legittimazione attiva, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 28 e degli artt. 70 e 100 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.; omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione.

Espone la ricorrente che il giudice d’appello ha ritenuto sussistente l’esistenza di un organismo locale a Verona senza prendere in considerazione, o male interpretando, la circostanza, risultante dalla documentazione prodotta da COBAS, che a Verona esisteva soltanto un riferimento territoriale (ovvero il nome della persona l’ufficio postale, o la casella postale di riferimento), e senza valutare le ulteriori risultanze processuali da cui emergeva che il responsabile territoriale per la Provincia di Verona, avente il compito di organizzare e coordinare l’attività sindacale, utilizzava a tal fine la propria abitazione come ufficio.

Il quesito di diritto ha il seguente tenore:

se, ai sensi della legittimazione attiva L. n. 300 del 1970, ex art. 28 sia sufficiente a far ritenere sussistente l’organismo locale di associazione sindacale nazionale, l’attività di un iscritto (presso la propria abitazione) in carenza di una minima struttura organizzativa di locali, mezzi e persone; se possono ritenersi violati gli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè l’art. 2697 c.c., laddove il giudice pervenga all’accoglimento delle pretese di un parte in assenza i qualsivoglia prova a sostegno delle medesime ed anzi in presenza di significativi elementi di prova che depongano in senso contrario.

3. I primi due motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.

3.1. Va rilevato che, benchè entrambi denuncino la violazione di norme di diritto da parte della Corte d’Appello, le relative censure attengono in realtà alla motivazione della sentenza.

Questa viene, infatti, valutata come carente in quanto non avrebbe desunto dalle risultanze istruttorie, i significati ritenuti dalla ricorrente evidenti o comunque desumibili dalle stesse, anzichè quelli di fatto da esse tratti e avrebbe ritenuto erroneamente sufficienti le deduzioni di controparte.

Controprova del fatto che i motivi non attengono propriamente alla violazione di legge, si rinviene nell’analisi del contenuto dei quesiti con i quali essi si concludono e che, riguardati come quesiti di diritto, presentano profili di inammissibilità.

Ciò non solo perchè, con riguardo al secondo, il motivo viene frammentato in una pluralità di quesiti, in quanto tale frammentazione di per sè potrebbe comportare rischi di equivocità (Cass. 21 settembre 2007 n. 19560), quanto piuttosto in ragione del fatto che tutti i quesiti, sia del primo che del secondo motivo di ricorso, si risolvono nel caso di specie, nella mera istanza di una decisione in ordine alla esistenza della regula iuris da applicare nel tipo di giudizi cui è riconducibile quello censurato, nonchè nella prospettazione di censure alla motivazione della sentenza.

Viceversa, il quesito di diritto deve essere formulato in maniera tale che la Corte di legittimità possa comprendere dalla lettura dello stesso, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamene compiuto dal giudice di merito nel caso in esame e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. S.U. 14 febbraio 2008 n. 3515).

Nel caso in esame, viceversa, l’esistenza di una erronea regula iuris applicata dalla Corte d’Appello è meramente presupposta e la sua affermazione appare unicamente funzionale a censurare i modi con i quali la Corte territoriale ha proceduto alla valutazione delle prove e quindi ad una valutazione di fatto, su cui vertono ambedue i motivi di ricorso.

3.2. Tanto premesso, va ribadito che il controllo di legittimità sulla motivazione delle sentenze riguarda unicamente (attraverso il filtro delle censure mosse con il ricorso) il profilo della coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte, in base all’individuazione, che compete esclusivamente al giudice di merito, delle fonti del proprio convincimento, raggiunto attraverso la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, scegliendo tra di esse quelle ritenute idonee a sostenerlo all’interno di un quadro valutativo complessivo privo di errori, di contraddizioni e di evidenti fratture sul piano logico, nel suo interno tessuto ricostruttivo della vicenda (cfr., ex multis, Cass., n. 9477 del 2009).

Nè appare sufficiente, sul piano considerato, a contrastare le valutazioni del giudice di merito il fatto che alcuni elementi emergenti nel processo e invocati dal ricorrente siano in contrasto con alcuni accertamenti e valutazioni del giudice o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti.

Ogni giudizio implica infatti l’analisi di una più o meno ampia mole di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra di loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, compete al giudice nei due gradi di merito in cui si articola la giurisdizione.

Il controllo in sede di legittimità sul giudizio di fatto del giudice di merito non può infatti spingersi fino alla rielaborazione dello stesso alla ricerca di una soluzione alternativa rispetto a quella ragionevolmente raggiunta, da sovrapporre, quasi a formare un terzo grado di giudizio di merito, a quella operata nei due gradi precedenti, magari perchè ritenuta la migliore possibile, dovendosi viceversa muovere esclusivamente nei limiti segnati dall’art. 360 c.p.c., n. 5, (citata Cass., n. 9477 del 2009).

Occorre pertanto che gli specifici dati della controversia, dedotti per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante o determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.

3.3. Ciò premesso, in via di principio, ritiene questa Corte, di ribadire quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 28269 del 2005, circa la sussistenza della legittimazione attiva di organismi locali di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, nè intercategoriali o aderenti a confederazioni, essendo determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che basta lo svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale. La medesima sentenza ha ritenuto che soluzione positiva dovesse avere anche la questione della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una sola, predeterminata, categoria professionale il fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere (fattispecie relativa a SIN COBAS).

In proposito, si è affermato che, con riguardo ai sindacati intercategoriali, ai fini della legittimazione di un organismo sindacale locale, è necessario che lo stesso sia effettivamente un’articolazione di associazione nazionale. Affinchè si possa ritenere sussistente, al di là dei variabili moduli organizzativi, un rapporto di tale genere, l’associazione nazionale deve svolgere effettivamente un’azione sindacale per la promozione degli interessi dei lavoratori in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l’azione dei singoli organismi territoriali. In altre parole, non può rilevare qualunque associazione tra organismi sindacali meramente locali, ancorchè in qualche modo funzionale al perseguimento dei fini sindacali dei singoli gruppi, perchè in questo caso sarebbe chiaramente eluso il requisito dell’esistenza di un’associazione sindacale adeguatamente rappresentativa in quanto nazionale, e non si verificherebbero i presupposti per quella selezione degli interessi garantita da un’organizzazione non meramente locale.

L’individuazione degli organismi locali delle associazioni nazionali legittimati ad agire per il procedimento di repressione della condotta sindacale deve desumersi dagli statuti interni delle associazioni stesse, dovendosi fare riferimento alle strutture che detti statuti ritengono maggiormente idonei alla tutela degli interessi locali.

3.4. la L. n. 300 del 1970, art. 28 riconosce, dunque, legittimazione ad agire agli "organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse". Deve trattarsi pertanto di organismo locale di una "associazione sindacale nazionale" che sia diffusa su gran parte del territorio.

La sentenza della Corte di Venezia afferma correttamente il suddetto principio di diritto secondo il quale un sindacato ha legittimazione ad agire, ai fini dell’art. 28 cit., a condizione del carattere nazionale dell’organismo sindacale accompagnato dalla sua effettiva diffusione su gran parte del territorio nazionale.

Nell’applicare tale principio di diritto, con motivazione logica e congruente, il Giudice d’appello, escludendo la legittimazione attiva della struttura nazionale, a favore di quella della struttura territoriale, ha valutato il quadro probatorio, costituito dalla documentazione prodotta dal sindacato e, in particolare dall’elenco delle strutture territoriali, dai precedenti giudiziari e dalla convocazione presso la Commissione nazionale per la proclamazione di uno sciopero generale che attestano sussistenza ed attività di sue strutture sulla maggior parte del territorio nazionale (semplificativamente, a Reggio Calabria, in Puglia, in Basilicata, Roma, Trieste, Lombardia, Piemonte).

Nel dare positivo rilievo a tale risultanze istruttorie, la Corte d’Appello ha espressamente motivato il mancato accoglimento delle eccezioni di Poste Italiane spa sulla mancanza di sede e di stabile organizzazione m loco da parte dell’associazione sindacale, in ragione della possibilità che l’organismo locale in questione fosse costituito da una persona fisica, individuabile nella persona qualificabile come responsabile territoriale.

La Corte ha dedotto, in proposito, che quanto accennato sulla sede era irrilevante essendo la stessa elemento dell’associazione che, ove non diversamente stabilito a livello statutario, ai sensi dell’art. 36 c.c. e segg., coincide con il luogo dell’attività, mentre la dedotta monocraticità dell’organismo era smentita dallo stesso richiamo informativo effettuato dalla società appellata, ove si riferiva di attività espletate "con l’aiuto di quegli iscritti che possono farlo" (come, peraltro, ribadito da Poste Italiane, a pag. 16 del ricorso in esame, nel richiamare la deposizione della responsabile territoriale per la Provincia di Verona, senza deduzioni, in merito, idonee ad incrinare l’iter motivazionale della Corte d’Appello).

La valutazione operata dalla sentenza resa in esito al secondo grado di giudizio, si basa, pertanto, sull’applicazione di un criterio che tiene conto non solo dell’articolazione strutturale, ma anche dell’attività del sindacato. Riscontrata una diffusione nazionale tanto sul piano della organizzazione, quanto sul piano dinamico dell’attività, la Corte ha ritenuto integrato il requisito del carattere nazionale dell’associazione.

Il principio di diritto affermato dalla Corte, come si è detto, è conforme alla norma; la valutazione in concreto concerne il merito e, in assenza di vizi della motivazione, per le ragioni sopra esposte, non può essere oggetto di nuova formulazione in sede di giudizio di legittimità. 4. Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, in relazione all’art. 2697 c.c. e agli artt. 115 e 116 c.p.c. Secondo la ricorrente non è provato che la S. ricoprisse una carica sindacale elettiva, provinciale o nazionale, e su detta carenza di prova nulla veniva affermato dalla Corte d’Appello, con un conseguente vizio di motivazione della sentenza che, pertanto, non giustificava il proprio convincimento in ordine alla risultanze processuali e, in particolare, alla sussistenza delle condizioni di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 31 necessari a giustificare la concessione della aspettativa in questione.

Il quesito di diritto veniva così formulato:

se possa ritenersi carica sindacale, L. n. 300 del 1970, ex art. 31 l’attivazione di una funzione nell’ambito di un ufficio con compiti amministrativi, promozionali etc, che non sia elettiva e non comporti funzioni di rappresentanza del sindacato; se possano ritenersi violati gli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè l’art. 2697 c.c., laddove il giudice pervenga all’accoglimento delle pretese di una parte in assenza di qualsivoglia prova a sostegno delle medesime.

4.1. Il motivo non è fondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, con orientamento che si intende ribadire (Cass. n. 3705 del 2006, con riguardo in tema di contribuzione figurativa per lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali), la L. n. 300 del 1970, art. 31, che disciplina l’aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali, dopo aver previsto che i lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale o del Parlamento europeo o di assemblee regionali ovvero siano chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato, estende tale prerogativa ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali, senza operare una tipizzazione in merito.

Pertanto, facendo corretta applicazione dei suddetti principi di diritto, e con congrua motivazione, la Corte d’Appello ha ritenuto sussistenti le condizioni per l’applicazione dell’art. 31 cit., in ragione della comunicazione dell’associazione sindacale del maggio 2004 che informava che la S., membro dell’Ufficio sindacale nazionale, sarebbe stata utilizzata da essa associazione per iniziative di carattere organizzativo dal 28 giugno al 31 agosto 2004. 5. Con l’ultimo motivo di ricorso, è prospettata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 (recte: 564) del 1996, art. 3 in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 31.

Deduce Poste Italiane che, erroneamente, la Corte d’Appello ha escluso che detta norma possa essere utilizzata ai fini della individuazione dei requisiti necessari per la concessione dell’aspettativa di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 31.

Il quesito di diritto è il seguente:

se ai sensi del D.Lgs. n. 546 (recte: 564) del 1996, art. 3 in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 31 – e quindi non solo ai fini della determinazione della contribuzione figurativa – le cariche sindacali di cui all’art. 31, comma 2 della suddetta L. n. 300 del 1970 sono quelle previste dalle norme statutarie e formalmente attribuite per lo svolgimento di funzioni rappresentative e dirigenziali a livello, regionale provinciale o di comprensorio, anche in qualità di componenti di organi collegiali dell’organizzazione sindacale.

5.1. Anche tale motivo di ricorso non è fondato.

Nel richiamare anche quanto dedotto in ordine al terzo motivo di ricorso, va osservato che la norma del D.Lgs. n. 564 del 1996 di cui si assume la violazione prevede ai commi 1 e 2:

"A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, e senza pregiudizio per le situazioni in atto, i provvedimenti di collocamento in aspettativa non retribuita dei lavoratori chiamati a ricoprire funzioni pubbliche elettive o cariche sindacali sono efficaci, ai fini dell’accreditamento della contribuzione figurativa ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 31 se assunti con atto scritto e per i lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali dopo che sia decorso il periodo di prova previsto dai contratti collettivi e comunque un periodo non inferiore a sei mesi".

"Le cariche sindacali di cui alla citata L. n. 300 del 1970, art. 31, comma 2 sono quelle previste dalle norme statuarie e formalmente attribuite per lo svolgimento di funzioni rappresentative e dirigenziali a livello nazionale, regionale e provinciale o di comprensorio, anche in qualità di componenti di organi collegiali dell’organizzazione sindacale".

In ordine al D.Lgs. n. 564 del 1996, art. 3 (con riguardo alla disciplina dei contributi figurativi) è intervenuta la sentenza Cass., n. 3705 del 2006 che ha stabilito che ciò rileva, ai fini dell’applicazione della suddetta disposizione, è che vi sia la formale investitura di una carica sindacale conforme all’art. 3, comma 2; invece quanto poi in concreto faccia il sindacalista in aspettativa è irrilevante; ed in ciò sta l’errore della sentenza impugnata che è scesa a valutare in concreto le "mansioni" del sindacalista, che non rilevano in chiave limitativa della prerogativa sindacale, così come non rileva l’attività in concreto svolta dal membro del Parlamento in aspettativa. La pronuncia da ultimo richiamata, ricorda Corte costituzionale 10 maggio 2002 n. 171 che – nel dichiarare incostituzionali, D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 4 e 9, nella parte in cui non prevedono, tra i beneficiari della tutela assicurativa contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e tra gli obbligati alle relative contribuzioni, rispettivamente, i lavoratori in aspettativa perchè chiamati a ricoprire cariche sindacali e le organizzazioni sindacali per conto delle quali essi svolgano attività previste dal medesimo D.P.R., art. 1 – parla di "attività che i lavoratori in aspettativa ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 31 svolgono – sotto le direttive e per le finalità dell’organizzazione sindacale, presso cui ricoprono cariche provinciali o nazionali – con esposizione ad un rischio obiettivamente riferibile alle lavorazioni protette dal D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 1", senza quindi distinguere tra attività riconducibili ad una funzione rappresentativa del sindacalista in aspettativa ed attività meramente interne riconducibili invece ad una funzione impiegatizia.

La prospettata lettura delle suddette disposizioni offerta dalla ricorrente tende ad isolare il contenuto del comma 2 da quello del comma 1, mentre come si evince anche dai principi enunciati nella sentenza n. 3705 del 2006, sopra richiamata, le suddette disposizioni formano un combinato disposto, funzionale alla disciplina dell’accreditamento della contribuzione figurativa come si evince, altresì, da successive disposizioni (cfr. D.L. n. 411 del 2001, art. 8 bis conv. in legge dalla L. n. 275 del 2001, la cui rubrica reca "Proroga dei termini per la domanda di accredito della contribuzione figurativa") che al suddetto art. 3 fanno riferimento – e pertanto non possono essere invocate a sostegno delle deduzioni di parte ricorrente, in quanto non pertinenti alla fattispecie in esame.

6. Il ricorso, pertanto deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 23,00 per esborsi, Euro 2000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 30 marzo 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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