Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 14-01-2011) 29-03-2011, n. 12777 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il GIP presso il Tribunale di Milano, con ordinanza del 05 luglio 2010, applicava la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di R.F.T. perchè indagato per il reato di associazione per delinquere ex art. 416 bis c.p., commi 1, 2, 3 e 4, per avere fatto parte con altri dell’associazione mafiosa denominata ‘"ndrangheta", operante sul territorio di Milano e province limitrofe, e costituita da numerosi "locali", di cui 15 individuate, coordinate da un organo denominato "la Lombardia" in cui hanno rivestito un ruolo di vertice, nel corso del tempo, B. C., N.C., Z.P.; associazione finalizzata alla consumazione di vari reati-fine, nel campo delle armi, contro il patrimonio, contro la vita e l’incolumità individuale, nonchè nel campo delle usure, degli stupefacenti ed altro; in particolare, il R.F., per avere fatto parte della "Locale" di Erba unitamente a: V.P.G., avente il ruolo di direzione, e C.E., C.F., ed altri soggetti, con il ruolo di partecipante, favorendo l’attività di trafficanti albanesi, in concorso con V.L., V.F. e V.P., procurando l’appoggio delle "’ndrine" di Gioia Tauro; il R.F. risulta indagato anche per i reati ascritti ai capi: 46) artt. 110 e 81 c.p., L. n. 497 del 1974, artt. 10, 12 e 14, D.L. n. 152 del 1991, art. 7. Fatti accertati fino al (OMISSIS) ed attualmente permanente;

Il Tribunale per il riesame di Milano, con ordinanza del 30 luglio 2010, respingeva il reclamo proposto dall’indagato e confermava il provvedimento impugnato.

Avverso tale decisione, ricorre per cassazione il difensore, deducendo:

a) Violazione ed erronea applicazione di legge e mancanza di motivazione circa i gravi indizi di colpevolezza ex art. 606 c.p.p.m comma 1, lett. e).

Il ricorrente censura la decisione impugnata per omessa ed illogica motivazione,essendo stati ricavati i gravi indizi da un castello accusatorio in realtà inconsistente, peraltro senza valutare gli elementi di segno contrario offerti dalla difesa; in particolare il coinvolgimento del R.F. sarebbe stato frutto di supposizioni, fondate sulla frequentazione di soggetti mafiosi, giustificate nella specie dai rapporti di affinità ed amicizia, in particolare con il V.P.; al medesimo non era contestato di essersi informato circa la pendenza di procedimenti a suo carico e nè che avesse fornito assistenza ai detenuti ed alle loro famiglie;

il medesimo non aveva avuto la disponibilità di armi, tanto che mai gliene era stata sequestrata alcuna, nè vi erano elementi che lo stesso fosse coinvolto in tale traffico insieme al V.; al medesimo è contestata la tentata importazione di un ingente quantitativo di cocaina, peraltro mai pervenuta, e mai sequestrata in suo danno; il R. è estraneo alla vicenda dei latitanti L. e M.; l’unico elemento a carico del R. è la sua presenza al maneggio di Erba, circostanza di per sè neutra ai fini della sussistenza dei gravi indizi di responsabilità a suo carico per i reati contestati. b) Violazione ed erronea applicazione di legge e mancanza o carenza e illogicità di motivazione circa la sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

Secondo il ricorrente l’ordinanza sarebbe illogica e carente sotto il profilo motivazionale nella parte in cui ha ritenuto l’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, senza dimostrare che la condotta contestata sia stata determinata, sotto il profilo soggettivo, dalla precisa volontà di facilitare con il delitto posto in essere l’attività del gruppo;

c) Violazione di legge – vizio di motivazione circa le ritenute esigenze cautelari.

Secondo il ricorrente l’ordinanza sarebbe illogica, per avere ritenuto le esigenze cautelari con motivazione apodittica, priva del vaglio della effettività e senza considerare la giovane età dell’indagato e la mancanza di pericolo di fuga, attesa la sua situazione familiare e lo stato di incensuratezza.

Ha chiesto pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Motivi della decisione

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati.

Le doglianze mosse dal ricorrente non tengono conto del fatto che il provvedimento impugnato, contiene una serie di valutazioni ancorate a precisi dati fattuali ed appaiono immuni da vizi logici o giuridici.

In proposito va ricordato che, in tema di misure cautelari personali, il controllo di legittimità è circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità.

In particolare dovrà essere verificato:

1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;

2) l’assenza di illogicità evidenti, risultanti "prima facie" dal testo del provvedimento impugnato, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (vedi Cass., sez. 4^, 6 luglio 2007 n. 37878).

Orbene, per quanto riguarda il primo motivo, il Tribunale, ha ampiamente, congruamente e logicamente motivato in ordine alle ragioni, in punto di fatto, per le quali ha ritenuto raggiunti i gravi indizi di colpevolezza, osservando: con riferimento all’imputazione ex art. 416 bis c.p.:

– che dagli elementi raccolti nel corso delle indagini era emersa la "riproduzione" in Lombardia della struttura criminale calabrese, denominata: ‘"ndrangheta", organizzata con varie "locali" in Milano e province limitrofe;

– che a tali conclusioni si era pervenuti sulla scorta di articolate indagini, effettuate dall’Arma dei Carabinieri, mediante attività di osservazione ed intercettazione; il Tribunale enumera la serie di osservazioni ed accertamenti relativi all’evoluzione della ‘ndrangheta" in Lombardia, con il succedersi dei vari responsabili, culminate con la registrazione della riunione del 20 gennaio 2009, tenuta presso il ristorante della pista di motocross di Cardano al Campo, gestita da P.G.;

– che dalle predette indagini, e segnatamente dalle intercettazioni anche ambientali, erano scaturiti elementi importanti indicativi delle modalità mafiose dell’organizzazione; che la Locale di Erba aveva avuto fondazione recente ed era "certificata" a far tempo dal maggio 2008, con a capo V.P., con il quale aveva collaborato in operazioni relative al traffico di sostanze stupefacenti, partecipando ad alcune fasi organizzative, partecipando alle riunioni all’interno del maneggio di Erba, partecipando attivamente alle operazioni relative al traffico di mezzi d’opera con la Tunisia, pur non essendo coinvolto nella vicenda del favoreggiamento dei latitanti L. e M., ne era a conoscenza come emerge dalla conversazione intercettata in data 20 maggio 2009 ove l’indagato parla mentre era in compagnia di P. A., con V.L. di tale vicenda;

– contrariamente a quanto sostenuto nei motivi di ricorso, il Tribunale motiva riguardo sia alla partecipazione all’associazione criminosa come pure in riferimento alla ricorrenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, sottolineando che tali vicende dimostrano come il R. sia "pienamente inserito nel contesto del futuro suocero V.P., insieme a affini e parenti, pienamente disponibile "alle esigenze del gruppo" adottando cautele nei comportamenti e nel linguaggio tipiche di "chi appartiene ad un contesto criminale"; uguale disponibilità il Tribunale ricava dalla vicenda della mancata consegna del carico di cocaina sbarcato dal porto di Gioia Tauro; l’ordinanza sottolinea come, in tale occasione, il R. svolga opera di "messaggero" tra le cosche di riferimento; si tratta di un passaggio motivazionale di grande rilievo, perchè idoneo a dimostrare lo stabile inserimento del prevenuto nei gangli vitali dell’organizzazione mafiosa nonchè l’importanza del ruolo rivestito, in una vicenda di traffico di sostanze stupefacenti di ingentissime proporzioni (v. pagg. 28, 29 dell’ordinanza).

C’è da aggiungere infine che dalle intercettazioni emerge anche la disponibilità di armi della cosca, da parte del R. (v. p. 25 dell’ordinanza).

Le deduzioni svolte dal ricorrente in senso contrario sono dunque manifestamente infondate, in quanto la motivazione risulta aderente alla giurisprudenza consolidata e trae il carattere distintivo dell’associazione per delinquere di stampo mafioso dalla tipicità della condotta di partecipazione, che è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno "status" di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato "prende parte" al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. (Cass., sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748). Il Tribunale compie così una valutazione di puro fatto, in ordine alla sussistenza dei gravi indizi, che appare congruamente motivata, con richiami a specifici rilievi fattuali apriva di illogicità. Il ricorrente lamenta l’insufficienza di tali elementi indiziari ma occorre sottolineare come in materia di misure cautelari personali, il requisito della gravità degli indizi di colpevolezza non può essere ritenuto insussistente sulla base di una valutazione separata dei vari dati probatori, dovendosi invece verificare se gli stessi, coordinati e apprezzati globalmente secondo logica comune, assumano la valenza richiesta dall’art. 273 c.p.p.. Ciò in considerazione della natura stessa degli indizi, quali circostanze collegate o collegabili a un determinato fatto che non rivelano, se esaminate singolarmente, un’apprezzabile inerenza al fatto da provare, essendo ciascuno suscettibile di spiegazioni alternative, ma che si dimostrano idonee a dimostrare il fatto se coordinate organicamente (Cass., sez. 4^, 4 marzo 2008, n. 15198).

Del pari infondati sono i motivi con i quali il ricorrente propone una valutazione alternativa delle prove in quanto in tema di misure cautelari personali, la valutazione del peso probatorio degli indizi è compito riservato al giudice di merito e, in sede di legittimità, tale valutazione può essere contestata unicamente sotto il profilo della sussistenza, adeguatezza, completezza e logicità della motivazione, mentre sono inammissibili, viceversa, le censure che, pure investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze già esaminate da detto giudice (Cassazione penale, sez. 4^, 6 luglio 2007, n. 37878). In questo senso il motivo di ricorso che contrasti con la previsioni dell’art. 606 c.p.p., lett. e) e manchi di evidenziare la "manifesta" illogicità della motivazione deve ritenersi inammissibile. Infatti quanto al vizio di "manifesta illogicità" il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico. Ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, appare ininfluente la deduzione secondo cui gli atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, ancorchè munita, in tesi, di eguale crisma di logicità. A ciò dovendosi aggiungere che l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è quella "evidente", cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi" senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., sez. 4^, 12 giugno 2008, n. 35318).

Queste considerazioni inducono a ritenere inammissibili anche i motivi relativi alla ricorrenza delle esigenze cautelari, in quanto sul punto il Tribunale ha richiamato la presunzione legale di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3 e, contrariamente alle censure mosse dal ricorrente, ha altresì valutato gli elementi acquisiti, quali la rilevante partecipazione ad attività criminose del sodalizio, sopra richiamate, per evidenziare l’assenza di elementi utili a contrastare la presunzione legale citata, non essendo sufficienti i semplici dati dell’incensuratezza e dell’attività lavorativa.

Con separato ricorso il R. ha altresì lamentato l’erronea applicazione dell’art. 117 c.p.p., in base all’utilizzazione delle risultanze di numerosi atti d’indagine collegate, acquisite appunto ex art. 117 c.p.p., così come riportate nell’ordinanza del G.I.P., mentre tali elementi dovevano essere utilizzati esclusivamente al fine di preparare e promuovere l’attività di indagine.

Anche tale argomentazione è priva di fondamento. Le Sezioni unite hanno da tempo affermato che in tema di misure cautelari personali per gravi indizi di colpevolezza ai sensi dell’art. 273 cod. proc. pen. devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che, contenendo "in nuce" tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova, non valgono, di per sè, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Sez. un., 21 aprile 1995, n. 11, C.E.D. cass.,202002); e rientrano in tale nozione gli atti e i documenti acquisiti dal pubblico ministero ai sensi degli artt. 117 e 371 cod. proc. pen. e provenienti da indagini preliminari relative a differenti procedimenti penali (Cass., sez. 2^, 4 novembre 1999, n. 5169, C.E.D. cass., 214668).

Alla luce delle suesposte valutazioni consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle Ammende, della somma di Euro 1000,00, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende. Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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