Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 03-02-2011) 30-03-2011, n. 13110 Incompatibiltà

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Gli odierni ricorrenti sono stati condannati con sentenza del Tribunale di Catania in quanto ritenuti responsabili, tutti, del delitto continuato di detenzione illegale e cessione in concorso di sostanze stupefacenti (capo C) e il solo B. anche del reato di usura aggravata ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito in L. n. 203 del 1991.

Il Tribunale ha inflitto agli imputati le pene come segue:

B.: tre anni di reclusione e 4.000,00 Euro di multa per il capo A) e due anni di reclusione e 4.000,00 Euro di multa per il capo C);

ha condannato, altresì, l’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituitasi in relazione al capo A);

G. e R.: ciascuno alla pena di due anni di reclusione e 4.000,00 Euro di multa per il capo C).

La Corte di Appello di Catania con la sentenza 2 Marzo 2010 ha respinto tutti i motivi a sostegno dell’impugnazione proposta dagli odierni ricorrenti e confermato la prima decisione. In particolare la Corte ha, con riferimento al reato D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ex art. 73, ritenuto sussistere le prove della penale responsabilità degli imputati in ordine alla detenzione illegale e cessione delle sostanze come contestate ed escluso la richiesta applicazione dell’ipotesi attenuata prevista dal quinto comma della disposizione citata e delle circostanze attenuanti generiche. Quanto al reato sub A), confermata la responsabilità del Sig. B., ha respinto i motivi volti ad escludere l’applicazione della circostanza prevista dal citato art. 7 e a ottenere ex art. 444 c.p.p. l’applicazione della pena come proposta in primo grado.

Avverso tale decisione i Sigg. B., G. e R. propongono separati ricorsi.

Il Sig. B. lamenta:

a) vizio di motivazione e travisamento del fatto ex art. 606 c.p.p., lett. e) in relazione alla condanna per il reato sub A). Le dichiarazioni della persona offesa, T.M.G., e le conversazioni telefoniche intercettate sono state in parte erroneamente valutate e in parte colpevolmente trascurate, con la conseguenza che si è attribuito al ricorrente una ipotesi di concorso con gli autori delle condotte usurarie che risulta smentita dalle prove in atti. Il ricorrente offre a tale proposito specifici riferimenti (pagg. 3-8 dei motivi) al compendio probatorio in atti e contesta (pag. 6) la lettura che i giudici di appello danno della conversazione telefonica n. 241 e la mancata considerazione (pag. 7) delle difficili condizioni economiche in cui il ricorrente stesso versava. A ciò si aggiunga che il Tribunale ha assolto il ricorrente dal reato sub B), ipotesi di estorsione aggravata, con decisione che mal si concilia con la condanna per l’ipotesi di usura aggravata;

b) vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) in relazione all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 con riferimento alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia, B.M.D., che non sono state sottoposte al necessario vaglio critico, nè con riferimento alla credibilità intrinseca nè con riferimento alla sussistenza dei presupposti specifici di applicazione dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7;

c) vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) in relazione alla condanna per il reato contestato al capo C). In particolare, il ricorrente lamenta l’assoluta incertezza circa il contenuto delle conversazioni intercettate, posto che gli stessi verbalizzanti nel corso dell’udienza dibattimentale del 4 ottobre 2002 hanno affermato l’esistenza di un "mero sospetto" sulla circostanza che nelle telefonate si parlasse di sostanze stupefacenti. Si è così in presenza di contenuti equivoci che non possono fondare un giudizio di responsabilità penale;

d) violazione di legge in relazione al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5 e art. 157 c.p. per essere stata omessa la dichiarazione di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione;

l’applicazione dell’ipotesi attenuata ex art. 73, comma 5, citato, comporta la fissazione di un termine prescrizionale massimo di sette anni e mezzo, maturato anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado;

e) violazione dell’art. 34 c.p.p. e nullità conseguente della decisione per avere uno dei magistrati componenti del Collegio svolto le funzioni di Giudice dell’udienza preliminare ed emesso il decreto che dispone il giudizio nei confronti del ricorrente.

La Sig.ra G. lamenta:

a) violazione di legge in relazione all’art. 157 c.p.p. per la mancata dichiarazione di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, essendo il termine massimo di sette anni e mezzo, conseguente alla qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73 citato, comma 5, maturato anteriormente al giudizio di primo grado.

La pena prevista per il reato ritenuto in sentenza era, all’epoca dei fatti (anno 1999) fissata in sei anni di reclusione, con la conseguenza che il regime più favorevole introdotto con la L. n. 251 del 2005 determina in sette anni e mezzo il maggior termine di prescrizione;

b) violazione dell’art. 34 c.p.p. e nullità conseguente della decisione per avere uno dei magistrati componenti del Collegio svolto le funzioni di Giudice dell’udienza preliminare ed emesso il decreto che dispone il giudizio nei confronti della ricorrente. c) Vizio di motivazione e travisamento della prova ex art. 606 c.p.p., lett. e) avendo i giudici di merito pronunciato sentenza di condanna nonostante l’assoluta incertezza circa il contenuto delle conversazioni intercettate, posto che gli stessi verbalizzanti nel corso dell’udienza dibattimentale del 4 ottobre 2002 hanno affermato l’esistenza di un "mero sospetto" sulla circostanza che nelle telefonate si parlasse di sostanze stupefacenti. Si è così in presenza di contenuti equivoci che non possono fondare un giudizio di responsabilità penale;

d) Vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio.

Il Sig. R. lamenta:

a) violazione dell’art. 34 c.p.p. e nullità conseguente della decisione per avere uno dei magistrati componenti del Collegio svolto le funzioni di Giudice dell’udienza preliminare ed emesso il decreto che dispone il giudizio nei confronti del ricorrente;

b) vizio di motivazione e violazione dell’art. 157 c.p.p. in relazione al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 per avere erroneamente i giudici di appello considerato la disposizione prevista dal citato art. 73, comma 5 come disciplinante una ipotesi attenuata e non, come invece è, una fattispecie autonoma di reato, e per avere respinto il motivo di appello in tema di prescrizione con un mero rinvio alle pagine 17-19 della sentenza di primo grado che, invece, si riferiscono al reato di usura contestato ad altro coimputato;

c) vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) per essere stato travisato il contenuto delle due uniche intercettazioni telefoniche concernenti il ricorrente (pag. 3 del ricorso);

d) vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) per difettare del tutto la prova che gli accertamenti si riferissero a sostanza stupefacente;

e) vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, non sussistendo in atti prove di un’attività illecita prolungata nel tempo (a tal proposito il ricorrente allega le pagg. 34 e ss della motivazione della sentenza di primo grado) e risultando del tutto pretermessa l’incensuratezza de ricorrente.
Motivi della decisione

1. La Corte ritiene di dover preliminarmente esaminare i motivi concernenti la mancata astensione di uno dei giudici componenti il collegio giudicante (quinto motivo del ricorso B., secondo del ricorso G., primo del ricorso R.).

Si tratta di motivi manifestamente infondati. La Corte rileva, innanzitutto, che le parti processuali non hanno attivato la procedura di ricusazione del giudice, pur sussistendone in astratto i presupposti, e richiama la condivisibile giurisprudenza che esclude che la mancata astensione del giudice possa costituire motivo di nullità della sentenza. In tale senso si è espressa (con argomenti confermati ancora recentemente dalla sentenza n. 13593 del 2010 della Quinta Sezione Penale, ric. Bonaventura e altro, rv 246716) l’ampia sentenza della Seconda Sezione penale, n. 30448 del 2003, Bova, rv 226572, così massimata: "L’incompatibilità ex art. 34 c.p.p., comma 2 non attiene alla capacità del giudice, intesa quale capacità ad esercitare la funzione giudiziaria, in difetto della quale e soltanto per tale causa, opera utilmente la nullità assoluta di cui all’art. 178 c.p.p., lett. a). Ed invero il difetto di capacità del giudice va inteso come mancanza dei requisiti occorrenti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali e non anche in relazione al difetto delle condizioni specifiche per l’esercizio di tale funzione in un determinato procedimento. Ne consegue che, non incidendo sui requisiti della capacità, la incompatibilità ex art. 34 cod. proc. pen. non determina, comunque la nullità del provvedimento ex artt. 178 e 179 cod. proc. pen., ma costituisce soltanto motivo di possibile astensione, ovvero di ricusazione dello stesso giudice, da far tempestivamente valere con la procedura di rito ex art. 37 e ss., cod. proc. pen.". 2. Procedendo all’esame degli ulteriori motivi di ricorso, la Corte ritiene opportuno formulare una premessa di ordine generale che concerne la quasi totalità delle censure mosse alla decisione impugnata.

Il giudizio di legittimità rappresenta lo strumento di controllo della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale e non può costituire un terzo grado di giudizio volto alla ricostruzione dei fatti oggetto di contestazione. Si tratta di principio affermato in modo condivisibile dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n. 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv 203767) e quindi dalla decisione con cui le Sezioni Unite hanno definito i concetti di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (n. 47289 del 2003, Petrella, rv 226074). Una dimostrazione della sostanziale differenza esistente tra i due giudizi può essere ricavata, tra l’altro, dalla motivazione della sentenza n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, che (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica introdotta dalla L. n. 46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la esclusione della possibilità di ricorso in sede di appello costituisce una limitazione effettiva degli spazi di controllo sulle decisioni giudiziali in quanto il giudizio avanti la Corte di cassazione è "rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito (invece) dall’appello".

Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha "la pienezza del riesame di merito" che è propria del controllo operato dalle corti di appello, ben si comprende come il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., lett. e) non autorizzi affatto il ricorso a fondare la richiesta di annullamento della sentenza di merito chiedendo al giudice di legittimità di ripercorrere l’intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.

Tale impostazione è stata ribadita, anche dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e) apportata dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, comma 1, lett. b), dalle sentenze della Seconda Sezione Penale, n. 23419 del 23 maggio-14 giugno 2007, PG in proc. Vignaroli (rv 236893) e della Prima Sezione Penale, n. 24667 del 15-21 giugno 2007, Musumeci (rv 237207). Appare, dunque, del tutto convincente la costante affermazione giurisprudenziale del principio secondo cui è "preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti" (fra tutte: Sezione Sesta Penale, sentenza n. 22256 del 26 aprile-23 giugno 2006, Bosco, rv 234148).

3. L’applicazione di tali principi impone, in primo luogo, di ritenere infondati i motivi di ricorso concernenti asseriti vizi di valutazione della prova (motivi primo, secondo e terzo del ricorso B.; terzo e quarto motivo del ricorso G.; terzo, quarto e quinto motivo del ricorso R.). In effetti la motivazione della sentenza impugnata affronta in modo puntuale e privo di vizi logici i singoli temi oggetto delle censure degli appellanti.

A tale conclusione deve giungersi, in primo luogo, con riferimento alla motivazione dedicata (pagg. 4-6) alle censure mosse alla condanna per il reato di usura e all’applicazione dell’aggravante prevista dal citato art. 7.

La Corte ritiene necessario sgombrare il campo dalla pretesa insussistenza dell’aggravante citata e richiamare a tale proposito il principio giurisprudenziale, messo invece in dubbio nel ricorso, secondo il quale anche la persona non aderente ad un’associazione mafiosa può essere destinataria della contestazione della circostanza aggravante prevista dalla L. n. 151 del 1992, citato art. 7. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha chiarito che l’aggravante non opera esclusivamente nei confronti di chi faccia parte dell’associazione criminale, essendo richiesto dalla norma o la consapevolezza e volontà di favorire il sodalizio oppure la semplice utilizzazione del "metodo" mafioso (da ultimo esaminato nella motivazione della sentenza della Quinta Sezione Penale, n. 35925, Ventura, massimata in rv 248165). Devono, dunque, ritenersi corretti i passaggi motivazionali coi quali la sentenza impugnata (pag. 6) giustifica la reiezione dello specifico motivo di appello.

Venendo alla motivazione in ordine alla sussistenza del reato di usura, questa Corte ritiene che le ragioni esposte dalla Corte di Appello alle pagine da 3 a 7 della sentenza a sostegno della conferma della condanna non incorrano nei vizi di contraddittorietà e manifesta illogicità. Le censure del ricorrente si fondano su una diversa lettura del dato probatorio, che come si è visto non può trovare ingresso in questa sede, ma non comportano di ritenere esistenti gli estremi di quei radicali vizi motivazionali che, disarticolando il ragionamento adottato dai giudicanti, potrebbero condurre ad una pronuncia di annullamento.

Deve, di conseguenza, ritenersi immune da vizi logici anche la decisione (pag. 7) in ordine al rigetto del motivo di appello concernente la mancata applicazione della pena su richiesta.

4. Quanto affermato al punto 2 che precede in ordine ai limiti del giudizio di legittimità impone alla Corte di ritenere non accoglibili i motivi di ricorso concernenti l’affermazione di responsabilità per i reati D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ex art. 73. Anche in questo caso, infatti, le censure mosse alla sentenza si fondano su una diversa lettura del dato probatorio e concernono la sussistenza di elementi concludenti ai fini della ricostruzione dei fatti. La lettura della motivazione della sentenza impugnata (in particolare, pagg. 8-10) evidenzia l’esistenza di una ricostruzione logica, fondata sul contenuto di conversazioni telefoniche che i giudici di appello hanno esaminato in dettaglio e con coerenza interna, non emergendo (si veda la seconda parte di pag. 9) elementi dubbi in punto interpretazione che giustifichino la prospettazione difensiva di non univocità di significato delle conversazioni.

5. Nell’esaminare i motivi concernenti la omessa dichiarazione di estinzione dei reati in materia di stupefacenti per intervenuta prescrizione (quarto motivo del ricorso B., primo del ricorso G. e secondo del ricorso R.), la Corte ritiene che i ricorrenti abbiano proposto una non condivisibile interpretazione delle disposizioni contenute negli artt. 157 e ss. c.p..

Nel caso in esame si versa in ipotesi di reato commessa anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, con la conseguenza che debbono applicarsi i termini prescrizionali vigenti al momento del fatto in quanto più favorevoli; inoltre, il riconoscimento del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5 non comporta l’applicazione di una fattispecie di reato autonoma rispetto a quella prevista dai commi 1 e 1-bis, medesimo art., bensì di una circostanza attenuante ad effetto speciale. Ciò comporta che il termine di prescrizione non venga determinato, sulla base della pena edittale prevista dal citato comma 5, bensì in dieci anni, calcolati sulla pena per il reato base in relazione a quanto previsto dall’art. 157 c.p.p., comma 2, aumentabili a quindici.

In conclusione, il termine massimo prescrizionale applicabile al reato in esame, consumato il 30 aprile 1999, spirerà soltanto nel mese di aprile 2014. 6. Infine, la Corte ritiene che i motivi di ricorso concernenti la disciplina delle circostanze attenuanti e la determinazione del regime sanzionatorio siano generici e manifestamente infondati se esaminati alla luce della specifica e coerente motivazione fornita dalla Corte di Appello alle pagine 10 e 11 della sentenza.

Tutti i motivi di ricorso debbono essere respinti, con conseguente condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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