Cass. pen., sez. VI 21-05-2009 (07-05-2009), n. 21305 – Pres. DE ROBERTO Giovanni – A.P. REATI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA – Configurabilità del reato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO E DIRITTO
Con sentenza in data 13/7/05 il Tribunale di Torino dichiarava A.P. e P.N. colpevoli del reato di cui all’art. 388 c.p., comma 2, e li condannava alla pena di giustizia e il solo P. al risarcimento del danno in favore della parte civile, cui liquidava una provvisionale di Euro 10.000,00.
Si contestava agli imputati, l’A. nella qualità di socia accomandataria della società "Studio Properzi & C." con sede in (OMISSIS) e il P., quale socio accomandante e collaboratore dello Studio, di avere eluso l’esecuzione del provvedimento del Tribunale di Torino in data 25/5/02, che accogliendo il ricorso ex art. 700 c.p.c., promosso dalla società "Assicurazioni & Finanza s.r.l." aveva ordinato all’ A. e a chiunque fosse in collaborazione con quest’ultima, di astenersi dal continuare attività di sviamento della clientela nel confronti di detta società, persistendo in tale condotta, nonostante fosse cessato il contratto di mandato tra la Levante Norditalia Assicurazioni, di cui la "Assicurazioni & Finanza" era agente e lo studio Properzi, che ne gestiva l’Agenzia n. (OMISSIS), con il conseguente divieto di porre in essere comportamenti di concorrenza sleale.
In motivazione il Tribunale, rilevato preliminarmente che non competeva al giudice penale sindacare nel merito il provvedimento civile, peraltro pienamente condivisibile, e confermato in sede di reclamo, osservava che detto provvedimento era attinente alla tutela del diritto di credito, onde la prosecuzione delle condotte in esso individuate come illecite costituisse violazione dell’art. 388 c.p., non impedita dalla circostanza che le polizze erano state disdettate alla scadenza, avuto riguardo alla legittima aspettativa di un rinnovo, previsto in linea generale come automatico nei contratti di assicurazione. Riteneva poi che dal compendio probatorio era rimasto accertato il proseguimento dell’attività vietata da parte degli imputati, giacchè le disdette pervenute alla Levante dopo la misura cautelare erano state 102 per 122 polizze risolte e 56 trasferite all’Agenzia Russo, con cui l’A. aveva un contratto di subagenzia. Per il Tribunale era strana la coincidenza che numerose disdette fossero pervenute nel medesimo giorno, e non era certamente pensabile che 102 clienti avessero scelto lo stesso giorno per spedire la raccomandata, a meno di ritenere che avessero agito su impulso degli imputati, che con 56 di loro avevano poi stipulato nuove polizze. Osservava infine che benchè il destinatario della notifica della misura cautelare fosse l’A., concorrente non poteva che essere il coniuge P., che non solo aveva ammesso di aver avuto conoscenza del provvedimento, ma aveva anche contribuito a commettere le violazioni.
A seguito di gravame degli imputati, la Corte di Appello di Torino, con la sentenza indicata in epigrafe, confermava la decisione di primo grado e nel rispondere alle censure mosse nei motivi di appello, ribadiva, richiamando la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia, che per provvedimenti cautelari, la cui inottemperanza dolosa dava luogo a responsabilità penale, dovevano intendersi tutti i provvedimenti cautelari previsti dal Libro 4^ del codice civile e non solo quelli tipici predisposti a tutela della proprietà, del possesso o del credito, ma anche quelli a tutela di un credito potenziale, quale quello vantato dalla società querelante, che, con lo sviamento della clientela, che lo studio Properzi stava attuando, veniva a perdere il portafoglio della sua agenzia, che aveva un indubbio valore commerciale, nonchè il diritto alle provvigioni, direttamente dipendente dal numero delle polizze e quindi della clientela che restava legata alla Levante, un diritto di credito che certo la misura cautelare intendeva tutelare in via preventiva.
Contro tale decisione ricorrono gli imputati a mezzo del loro difensore, che a sostegno della richiesta di annullamento pone due motivi.
Con il primo motivo denunzia l’erronea applicazione dell’art. 388 c.p., comma 2, laddove sanziona l’elusione di un provvedimento del giudice civile a difesa della proprietà, del possesso o del credito.
Sostiene in particolare la difesa che, vietando l’ordinanza ex art. 700 c.p.c. gli atti di concorrenza sleale, quelli cioè intesi allo sviamento della clientela con modalità non conformi ai principi di correttezza professionale, che già di per sè costituiscono lesione del principio del "neminem ledere" ex art. 2043 c.c., indipendentemente da qualsiasi provvedimento cautelare, l’elusione di essa non poteva considerarsi sanzionabile penalmente, nè tanto meno in forza dell’art. 388 cit., che tutela altro bene giuridico.
Richiamando il principio di recente espresso da questa Corte a Sezioni Unite (sentenza n. 36692 del 27/9/07), a mente del quale l’interesse tutelato dalla norma penale de qua non è l’autorità in sè delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione, che si rivela più pregnante in quelle materie, come il credito, il possesso e la proprietà, in cui con maggiore evidenza e danno poteva vedersi frustrata l’esecuzione della misura in vista del giudizio di merito, rileva il difensore che nel caso in esame l’esecuzione o meno dell’ordinanza, emessa per prevenire ulteriori danni nel corso dell’azione di risarcimento intrapresa dalla parte civile, non avrebbe in alcun modo protetto il soddisfacimento in sede esecutiva di un eventuale ipotetico e ancor non realizzato credito, dovuto ai danni conseguenti la prosecuzione dell’attività illecita vietata. Il provvedimento di "non facere", emesso dal giudice civile non poteva in alcun modo ricondursi ad alcuna delle tre tassative categorie elencate dalla norma. L’azione proposta dal denunciante in sede civile era da qualificarsi come azione extra contrattuale, che crea, qualora provata, il sorgere di un obbligo al risarcimento del danno in capo ai responsabili, ma che non si fonda su di un diritto di credito, atteso che lo studio Properzi non aveva firmato alcun patto contrattuale con la Levante di non concorrenza, onde, cessato il rapporto di agenzia, il titolare ben poteva legittimamente continuare ad operare nel campo delle assicurazioni nell’interesse di altre compagnie, mettendo a frutto la scienza e l’esperienza precedentemente maturata. Ad avviso della difesa il diritto al risarcimento azionato dalla parte civile non poteva costituire, prima della sentenza, un diritto di credito tutelabile in sè in via cautelare, diversamente opinando, non vi poteva essere una sola materia esclusa dalle tre categorie elencate dall’art. 388 c.p., comma 2.
Con il secondo motivo eccepisce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 521 c.p.p., comma 2, e sostiene che trattandosi di un reato proprio, soggetto attivo doveva considerarsi solo la persona, quale parte del giudizio civile, nei cui confronti era diretto il provvedimento del giudice e a cui l’ordinanza era stata notificata, onde poichè il reato contestato non vedeva il P. imputato in concorso con l’A., ma come autonomo autore di reato, la condanna inflitta al P. era illegittima, perchè riferibile ad un fatto diverso da quello contestato.
Tanto premesso, osserva il collegio che il primo motivo dei ricorsi è fondato e va accolto, in esso assorbito anche il secondo. Ed invero la questione di diritto posta all’esame di questa Corte è se l’art. 388 c.p., comma 2, costituisca presidio penale esclusivamente per i provvedimenti cautelari emessi nelle materie tassativamente elencate e se possa trovare applicazione analogica o estensiva al di fuori di essi.
Orbene nel caso in esame ciò che l’ordinanza, resa ex art. 700 c.p.c., vietava alla A. e a chiunque fosse in rapporto di collaborazione con quest’ultima, non era la lecita concorrenza tra le parti, ma la concorrenza sleale, e cioè quella particolare manifestazione – frutto dell’interpretazione giurisprudenziale dell’ipotesi residuale di cui all’art. 2598 c.c., n. 3 – che è lo sviamento della clientela con danno dell’altrui azienda. Ciò che certamente l’A. e chiunque altro non poteva fare è realizzare atti di concorrenza sleale, cioè illecita, quale lo sviamento della clientela con modalità non conformi ai principi di correttezza professionale, idonei a danneggiare l’altrui azienda. In altri termini costituendo la concorrenza sleale una lesione del principio del "neminem ledere", il provvedimento adottato equivale ad imporre ciò che di per sè è già illecito.
L’interpretazione estensiva data dai giudici del merito, per cui qualsiasi provvedimento cautelare del giudice civile trova sanzione penale nell’elusione, rischia di trasformare l’art. 388 c.p., comma 2 in una sorta di norma tipicizzante qualsivoglia condotta contraria ad un provvedimento cautelare civile, laddove in realtà la ragione per cui solo alcuni provvedimenti sono sanzionati – e cioè solo tre tipologie di provvedimenti in materia di: proprietà, possesso e credito – trova fondamento proprio nella corretta individuazione dell’interesse tutelato dalla norma.
Se l’interesse tutelato dall’art. 388 c.p., comma 10 e 2, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte a Sezioni Unite (n. 36692 del 27/9/07), non è l’autorità in sè delle decisioni giurisdizionali, ma l’esigenza costituzionale di effettività di giurisdizione e la sanzione non segue una mera trasgressione all’ordine del giudice, bensì l’ostacolo all’effettiva possibilità di una sua esecuzione, nel caso in esame l’azione di risarcimento, intrapresa dalla parte civile, poteva certamente essere aggravata dal protrarsi della condotta, posta in essere dall’azienda convenuta, onde la legittimità dell’ordinanza, emessa per prevenire ulteriori danni, ma l’esecuzione o meno della stessa non avrebbe in alcun modo "protetto" il soddisfacimento in sede esecutiva dell’eventuale credito, dovuto ai danni conseguenti la prosecuzione dell’attività illecita. Nè a tanto può valere il richiamo operato dai giudici del merito alla norma di cui all’art. 669 duodeces c.p.c., che disciplina le modalità di esecuzione del provvedimento cautelare, quando, come nel caso in esame tale provvedimento non può nella sostanza che essere equiparato a un ordine di astenersi dal compiere atti di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c.. In tale ottica dunque va letta la tassativa elencazione dei provvedimenti cautelari, che possono dar luogo ad elusione. Il provvedimento del giudice civile costituisce un presupposto della condotta criminosa, e tra le misure cautelari è pacifico che rientrano anche i provvedimenti di urgenza emessi dall’art. 700 c.p.c., ma a condizione che tali provvedimenti attengano alla difesa della proprietà, del possesso e del credito.
Nel caso in esame il provvedimento di "non facere" emesso dal Tribunale Civile di Milano non può essere ricondotto ad alcuna delle tre tassative categorie, elencate dalla norma, giacchè le norme sulla concorrenza illecita rappresentano un’applicazione specifica del dovere generico di non cagionare ad altri un danno ingiusto (art. 2043 c.c.), tant’è che all’atto di concorrenza sleale si applicano le norme generali sull’illecito di cui al cit. art., salva l’integrazione della disciplina desumibile dall’art. 2598 c.c. e segg..
L’azione di concorrenza sleale proposta dal denunziante in sede civile trova ragione non nella cessazione del rapporto, ma nel principio del "neminem ledere", è azione extra contrattuale, giacchè non risulta provato alcun patto contrattuale di non concorrenza, e crea il sorgere di un obbligo al risarcimento dei danni in capo ai responsabili, ma che non si fonda su di un diritto di credito.
Si è quindi al di fuori dell’ambito di applicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 388 c.p., comma 2, onde si impone l’annullamento dell’impugnata sentenza senza rinvio perchè il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perchè il fatto non sussiste.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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