Cass. pen., sez. V 15-04-2009 (01-04-2009), n. 15771 PROVE – Utilizzazione delle dichiarazioni della persona offesa in sede di giudizio cautelare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

RILEVATO IN FATTO
– che con l’impugnata ordinanza il tribunale di Messina, in funzione di giudice del riesame, confermò, per quanto qui interessa, l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere disposta dal locale giudice per indagini preliminari nei confronti di C.M. e P.F., ritenuti gravemente indiziati, unitamente a B.S., del reato di estorsione aggravata in danno dell’imprenditore edile M.T., sulla base, essenzialmente, delle dichiarazioni rese in veste di persona informata dei fatti dallo stesso M.; dichiarazioni di cui si affermava, oltre che l’attendibilità, anche l’utilizzabilità, nonostante le eccezioni che, specialmente a tale ultimo riguardo, erano state sollevate dalla difesa;
– che avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per Cassazione la difesa degl’indagati, denunciando:
1) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione agli artt. 63 e 191 c.p.p., per non essere stata riconosciuta l’inutilizzabilità delle dichiarazioni della persona offesa, quale derivante: 1/a) dalla mancata osservanza delle disposizioni di cui al citato art. 63 c.p.p., atteso che il M. risultava indiziato, in separato procedimento, del reato di partecipazione alla stessa associazione di tipo mafioso (quella facente capo alla famiglia Bontempo Scavo) cui appartenevano gli attuali ricorrenti, tanto che il reato ad essi attribuito era stato contestato con l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7; 1/b) dal fatto che le dichiarazioni in questione risultavano da un colloquio tra agenti di p.g. e persona offesa, registrato dai primi ad insaputa della seconda;
2) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione agli artt. 405 e 407 c.p.p., unitamente a vizio di motivazione in ordine all’eccezione che, sul punto, era stata dedotta nel corso della procedura di riesame, sull’assunto che il tribunale, per un verso, avrebbe attribuito carattere non decisivo alle dichiarazioni del M. verbalizzate in data 13 marzo 2008, dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari (così ritenendo di superare la suddetta accezione) e, per altro verso, le avrebbe invece utilizzate mediante il sostanziale rinvio, a pag. 3 dell’ordinanza impugnata, al provvedimento applicativo della misura cautelare nel quale – si afferma – "vengono riportate solo ed esclusivamente le dichiarazioni del marzo 2008";
3) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 273 c.p.p., per essere stata attribuita valenza gravemente indiziaria alle dichiarazioni del M., pur essendo queste prive dei necessari elementi di riscontro ed avendo anzi trovato smentita in altre emergenza investigative, con riguardo ad altri pretesi fatti di estorsione riferiti dallo stesso M. come commessi in danno di diversi soggetti tra cui, in particolare, tale D.N.P., tanto che lo stesso tribunale del riesame aveva annullato, relativamente al fatto di cui quest’ultimo sarebbe stato vittima, l’ordinanza applicativa della custodia in carcere che anche per tale fatto era stata emessa nei confronti degli attuali ricorrenti;
4) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, per essere stata ritenuta la sussistenza dell’aggravante prevista da detta ultima norma nonostante la posizione di indagato per associazione di tipo mafioso in cui si trovava la persona offesa e nonostante il fatto che la stessa non si fosse mostrata per nulla intimorita, avendo minacciato i ricorrenti di denuncia ai Carabinieri ed avendo strappato in loro presenza una fattura che essi avevano predisposto a fittizia giustificazione del pagamento che pretendevano dal M., nulla rilevando, poi, che il medesimo M. avesse manifestato iniziale reticenza nel collaborare con le forze dell’ordine, atteso che tale atteggiamento – si afferma – poteva anche avere una "spiegazione alternativa" e cioè quella di "non accusare i propri sodali e non fornire dichiarazioni autoindizianti".
CONSIDERATO IN DIRITTO
– Che il ricorso non appare meritevole di accoglimento, atteso che:
a) con riguardo al primo motivo:
a/1) pur volendosi prescindere dal richiamo, operato nell’impugnata ordinanza, al principio affermato da Cass. 3, 15 novembre 2007 – 8 gennaio 2008 n. 357, Bulica, RV 238696, circa la prevalenza della qualità di testimone-persona offesa su quella di imputato di reato connesso o interprobatoriamente collegato, avuto riguardo al diverso orientamento espresso in altre pronunce della Corte (ad es., Cass. 5, 25 settembre – 23 ottobre 2007 n. 39050, Costanza ed altro, RV 238188), appare decisivo ed assorbente il rilievo che dal solo fatto che l’estorsione in danno del M. sia stata contestata come aggravata ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. con modif. in L. n. 203 del 1991 non risulta per nulla desumibile, contrariamente a quanto si sostiene, in modo del tutto apodittico, nel ricorso, l’esistenza di un collegamento interprobatorio tra il suddetto reato, come sopra circostanziato, e quello di cui all’art. 416 bis c.p. del quale, in altro procedimento, sarebbe indiziato lo stesso M.; e ciò in quanto, per un verso, la comune appartenenza di più soggetti ad un medesimo sodalizio criminoso (quale prospettata nel caso di specie) non esclude certo, di per sè, la possibilità che taluni di essi commettano reati in danno degli altri, anche avvalendosi di condizioni favorevoli riconducibili proprio a quell’appartenenza; per altro verso, il fatto che quest’ultima risulti, per avventura, comprovata nei confronti di alcuni, non significa che la relativa prova debba valere o debba comunque avere concreta influenza anche per altri;
a/2) le dichiarazioni registrate ad iniziativa della polizia giudiziaria in occasione di colloqui investigativi tra la stessa e la persona offesa di un reato o altra persona informata dei fatti, ancorchè inutilizzabili come prova in sede propriamente processuale (come affermato da Cass. S.U. 28 maggio – 24 settembre 2003 n. 36747, Torcasio, RV 225467) non costituiscono, tuttavia, prova vietata in assoluto (Cass. 3, 6 luglio – 4 dicembre 2007 n. 36390, Alberti ed altro, RV 237564) e sono pertanto pienamente utilizzabili in altra sede quale, in particolare, il giudizio abbreviato (in tal senso, Cass. 2, 15 dicembre 2005 – 24 gennaio 2006 n. 2829, Pistorio, RV 233331) e, a maggior ragione, quindi, in sede cautelare;
b) con riguardo al secondo motivo, risulta dalla lettura dell’impugnata ordinanza che il tribunale ha fatto essenzialmente riferimento, nel motivare la ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dei ricorrenti, alle dichiarazioni rese dal M. all’atto di una prima richiesta orale di intervento rivolta ai Carabinieri il 25 ottobre 2006, nonchè a quelle, dettagliatamente illustrate, che erano state poi rese, a seguito di convocazione, dallo stesso M. il 14 novembre 2006 (da lui non sottoscritte ma di cui era stata effettuata la registrazione), richiamando poi, solo a titolo di cronaca, il fatto che esistevano anche le successive dichiarazioni, regolarmente verbalizzate e sottoscritte, rese dal M. il 13 marzo 2008, a proposito delle quali si è limitato ad affermare che esse erano riportate nell’ordinanza applicativa della custodia cautelare "cui si rinvia"; espressione, quest’ultima, che, nella sua genericità, non può certo significare che con essa il tribunale abbia attribuito alle dichiarazioni in questione il decisivo rilievo che in precedenza aveva escluso, a fronte della valorizzazione di quelle (di per sè esaustive), del 25 ottobre e del 14 novembre 2006;
c) con riguardo al terzo motivo:
c/1) la segnalata mancanza di elementi di riscontro alle dichiarazioni del M. perde ogni rilievo, una volta escluso, per le ragioni in precedenza illustrate, che lo stesso M. dovesse essere ritenuto soggetto sottoposto a indagine per reato connesso o interprobatoriamente collegato a quello di cui egli figurava come persona offesa;
c/2) l’intervenuto annullamento dell’ordinanza cautelare relativamente all’addebito di estorsione in danno del D.N. risulta dovuto, secondo quanto si legge nell’impugnata ordinanza, non all’avvenuta acquisizione di elementi che smentissero quanto al riguardo riferito dal M. ma essenzialmente al fatto che era stato proprio quest’ultimo a prospettare "l’assoggettamento del D. N. ad estorsione in forma induttiva e dubitativa";
d) con riguardo al quarto motivo, il fatto che il M. figurasse, in separato procedimento, indiziato di appartenenza allo stesso sodalizio di tipo mafioso cui sarebbero appartenuti i ricorrenti non significa (avuto anche riguardo a quanto già osservato in precedenza, al punto a/1) che dovesse escludersi, in presenza delle obiettive connotazioni mafiose dell’intimidazione di cui egli sarebbe stato oggetto, quali ampiamente illustrate nell’impugnata ordinanza, la sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7; nè, d’altra parte, può assumere decisivo rilievo, ai fini dell’esclusione di tale aggravante, il fatto che il M. potesse essersi mostrato non particolarmente intimidito, atteso che (analogamente a quanto si verifica, secondo il costante insegnamento giurisprudenziale, con riguardo al reato di minaccia) quello che conta, in tema di c.d. "metodo mafioso" applicato al reato di estorsione, è solo l’astratta idoneità della condotta posta in essere a produrre nel soggetto passivo il convincimento della ineluttabilità della sottomissione alla pretesa estorsiva, nulla rilevando quindi che, in concreto, tale, risultato non sia poi raggiunto per la particolare capacità di resistenza dello stesso soggetto passivo o per altre cause indipendenti dalla volontà degli agenti; e ciò a prescindere dall’ulteriore rilievo che, comunque, nella specie, come giustamente osservato nell’impugnata ordinanza, il M. si era inizialmente rifiutato, proprio per gli allegati timori di ritorsioni mafiose, di sottoscrivere le sue dichiarazioni del 14 novembre 2006; comportamento, questo, alla cui valenza sintomatica non può certo contrapporsi, in questa sede, la spiegazione dichiaratamente alternativa proposta nel ricorso, da riguardarsi, peraltro, come ben poco plausibile, a fronte del fatto indiscusso che era stato lo stesso M., come già ricordato, a chiedere l’immediato intervento dei Carabinieri a seguito delle condotte estorsive di era stato oggetto a dichiarata opera degli attuali ricorrenti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *