Cass. pen., sez. VI 29-04-2009 (09-04-2009), n. 17893 REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Responsabilità a titolo di concorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO E DIRITTO
Con sentenza in data 5 luglio 2004 il Tribunale di Genova dichiarava P.C.B.A., A.P. e Z. A., colpevoli del reato di cui all’art. 348 c.p. – per avere la P., cittadina extracomunitaria, esercitato l’attività di infermiera all’interno della casa di riposo (OMISSIS), essendo in possesso di un titolo abilitativo non riconosciuto dalla Stato Italiano, l’A., quale legale rappresentante della società fornitrice del personale alla predetta casa di riposo e la Z., quale titolare della medesima casa mantenuto in servizio la P. in assenza di un valido titolo abilitativo – e li condannava alla pena di giustizia. A seguito di gravame delle imputate, la Corte di Appello di Genova con la sentenza indicata in epigrafe, assolveva la P. e l’A. perchè il fatto non costituisce reato, e confermava nel resto la sentenza impugnata.
In motivazione la corte di merito riteneva, quanto alla P. e l’A. che non fosse stato adeguatamente provato il dolo, osservando che non risultava che la P. avesse consapevolmente svolto prestazioni professionali infermieristiche illegittime, non essendo documentato il titolo specifico dell’assegnazione al lavoro presso la casa di riposo, e avendo l’esercizio in concreto di compiti propri della professione infermieristica indotto costei all’affidamento sulla regolarità delle proprie prestazioni, e, quanto alla A., che non risultava che costei avesse cognizione delle attività concretamente svolte dalla P., non avendo sottoscritto il contratto di appalto di servizi con la casa di riposo. Condivideva invece i rilievi e le argomentazioni del giudice di primo grado a sostegno del giudizio di colpevolezza della Z., legale rappresentante della società proprietaria della casa di riposo, che aveva consapevolmente impiegato in attività proprie della professione infermieristica, quali praticare terapie e dispensare medicinali la P., priva di titolo abilitativo valido all’esercizio in Italia di tale professione, ritenendo che ricorressero sia la materialità del fatto contestato, sia il dolo, quanto meno indiretto dell’accettazione del rischio, se non probabilmente diretto, per la natura e il contenuto del contratto di appalto stipulato con la cooperativa di lavoro di cui la P. era socia, valorizzando altresì la documentazione acquisita agli atti, da cui emergeva che la P., unitamente ad altra extracomunitaria, che versava nelle stesse condizioni, erano state assunte, quali assistenti ausiliarie di due infermiere professioniste, e che a seguito del licenziamento di queste ultime, avevano preso il loro posto all’interno della struttura.
Contro tale decisione ricorre l’imputata personalmente e a sostegno della richiesta di annullamento, denuncia con il primo motivo l’erronea applicazione della norma incriminatrice, sostenendo che la condotta, così come contestata, non integrava ex se il delitto in questione, potendo rilevare solo a titolo di concorso, non oggetto di contestazione, con il secondo motivo la mancanza o manifesta illogicità della motivazione in riferimento all’elemento materiale del reato, sostenendo che l’art. 348 c.p. tutelava solo gli atti propri o tipici delle professioni e nella specie la corte di merito non si era minimamente soffermata sugli atti posti in concreto dalla P., con il terzo motivo la mancanza o manifesta illogicità della motivazione in riferimento all’elemento psicologico del reato, sostenendo che il giudice del gravame aveva fondato la sussistenza del dolo su valutazioni personali sulla scorta del solo accordo contrattuale che legava la casa di riposo con la cooperativa appaltatrice, erroneamente ritenuto preordinatamente stipulato per omettere i controlli sul personale della cooperativa, mentre invece proprio tale contratto per il principio dell’affidamento costituiva in realtà l’elemento comprovante l’assoluta mancanza di dolo in capo all’imputata, con il quarto motivo il vizio di motivazione in riferimento alla richiesta di diminuzione della pena, totalmente ignorata dal giudice del gravame.
Osserva il collegio che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per la manifesta infondatezza dei primi tre motivi e per difetto di specificità dell’ultimo motivo.
Ed invero in tema di contestazione dell’accusa la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all’indicazione delle norme di legge violate, con la conseguenza che non determina nullità del decreto che dispone il giudizio la mancata indicazione, in esso, degli articoli di legge violati, allorchè il fatto addebitato sia puntualmente e dettagliatamente esposto, sì che non possa insorgere equivoco sull’espletamento di una completa e integra difesa (ex multis Cass. Sez. 1^ 19/3 – 19/4/2009 n. 18027 Rv. 227972).
La norma incrimintarice di cui all’art. 348 c.p. punisce non solo chi esercita abusivamente una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, ma, a titolo di concorso, anche chi consenta o agevoli lo svolgimento di tale attività professionale da parte di persona non autorizzata (ex multis Cass. Sez. 6^ 16/1 – 20/3/1973 n. 2268 Rv. 123606). Nel caso in esame la mancata specificazione della condotta criminosa in concorso non pare abbia potuto determinare pregiudizio all’esercizio del diritto di difesa, posto che all’imputata è stato contestato comunque il mantenimento in servizio con le mansioni di infermiera di persona priva di idoneo titolo abilitativo, che in nulla differisce dall’ipotesi di concorso nel reato, e su tale accusa la stessa si è difesa.
Neppure colgono nel segno la seconda e la terza censura, che si rivelano anche non veritiere, in quanto, se è vero che per integrare il reato è necessario il compimento anche di un solo atto tipico o proprio dell’esercizio della professione, è anche vero che nel caso in esame i giudici del gravame non hanno mancato di soffermarsi sulla concreta attività posta in essere dalla P., consistita nell’avere praticato terapie e dispensato medicinali, la cui natura di atti tipici della professione di infermiere non si presta ad essere posta in discussione, anche ricordando come la P. e la C. – che versava nelle stesse condizioni – all’origine impiegate come assistenti – ausiliarie di due infermiere professioniste, abbiano poi finito con il sostituire queste ultime, che si erano licenziate, subentrando nella loro turnazione, con l’assenso e il beneplacito dell’imputata, legale rappresentante dell’Istituto a della sussistenza dell’elemento psicologico del reato.
Quanto all’ultimo motivo di ricorso, la genericità, con cui era stata prospettata la richiesta di rimodulazione della pena infitta in primo grado, rimane assorbita dalla conferma nel resto dell’impugnata sentenza da parte della corte territoriale.
Segue alla declaratoria di inammissibilità la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma, ritenuta di giustizia ex art. 616 c.p.p., di Euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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