Cass. pen., sez. I 19-03-2009 (03-03-2009), n. 12453 Condanna a pena illegale – Possibilità di rettificazione in sede esecutiva

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
1. Con ordinanza in data 06.02.2008 la Corte d’assise d’appello di Napoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, in accoglimento delle istanze avanzate da A.C.: a) rideterminava in anni 20 di reclusione la pena inflitta al predetto dalla Corte d’assise d’appello di Salerno con sentenza definitiva 14.11.1997 per il reato di omicidio (così assumendo di riportarla entro il limite di legge, in presenza della riconosciuta attenuante L. n. 203 del 1991, ex art. 8) e, quindi, con la continuazione come già determinata per gli altri reati di cui alla stessa sentenza, fissava la pena complessiva in anni 23 e mesi 6 di reclusione; b) annullava di conseguenza il provvedimento di unificazione pene concorrenti emesso dal P.G. di Napoli il 15.11.2007. In particolare detta Corte rilevava come la pena concretamente inflitta dalla Corte d’assise d’appello di Salerno per il delitto di omicidio volontario, in anni 24 di reclusione, fosse illegale, in presenza dell’anzidetta diminuente speciale che, per consolidata giurisprudenza, non era soggetta a giudizio di bilanciamento, ma a considerazione autonoma, e come fosse non solo consentito, ma dovuto – in sede esecutiva – correggere una determinazione di pena effettuata oltre i limiti di legge.
2. Avverso tale ordinanza, chiedendone l’annullamento, proponeva ricorso per cassazione il P.G. presso la Corte d’appello di Napoli che motivava il gravame formulando le seguenti deduzioni: la pena inflitta dalla Corte d’assise d’appello di Salerno non era abnorme nè illegale, ma solo frutto di un’errata valutazione; essa configurava un error in iudicando che poteva essere corretto solo con ricorso per cassazione, ora coperto da giudicato.
3. La difesa del predetto condannato depositava quindi in data 21.01.2009 memoria di replica a tale impugnazione.
4. Il Procuratore generale presso questa Corte depositava quindi requisitoria con la quale richiedeva annullamento con rinvio dell’impugna ordinanza sul rilievo che l’attenuante L. n. 203 del 1991, ex art. 8 si sottrae a giudizio di bilanciamento solo rispetto all’aggravante di cui all’art. 7, s.l., ma non in relazione ad altre circostanze.
In data 02.03.2009 lo stesso Procuratore generale presso questa Corte depositava ulteriore memoria con cui ribadiva le proprie tesi (allegando anche copia – nella parte d’interesse – della sentenza 04.12.1998 della Corte di cassazione che dichiarava inammissibile, sul punto, il ricorso dell’ A.).
5. Il ricorso, fondato nei termini di cui alle seguenti argomentazioni, deve essere accolto.
Il gravame del Procuratore generale territoriale – avverso un’ordinanza che interviene sul giudicato, riformandolo in punto pena sul rilievo della sua illegalità – introduce, prima ancora della fondatezza nel merito di tale operazione (questione circa l’assoggettabilità dell’attenuante L. n. 203 del 1991, ex art. 8 al giudizio di bilanciamento), la quaestio in ordine alla liceità stessa di siffatto intervento del giudice dell’esecuzione e, comunque, dei limiti in cui eventualmente ciò sia possibile. Su tale delicatissimo argomento (sul quale non si ignorano alcuni precedenti positivi di questa Corte), certamente va posta una prima ineludibile riflessione. Punto di partenza è il dato che, seppure il "mito" del giudicato invincibile come tale (come è stato detto) sia superato nella vigente disciplina processual-penalistica, è pur tuttavia vero che esso giudicato possa essere infranto (totalmente o parzialmente) solo nei casi normativamente previsti (cfr., quale tipico esempio, l’art. 671 c.p.p.), non come principio – per così dire – generale.
Il primo punto di riflessione di cui appena sopra si è detto, dunque, pretende – anzitutto – un dato normativo di riferimento. Nel caso in parola, nella pacifica mancanza di una specifica disciplina in proposito nel Libro Decimo del c.p.p., sembrerebbe che il sistema codicistico affidi l’osservanza della regola fondamentale dell’art. 1 c.p. al solo processo di cognizione ed in particolare alla possibilità di correzione di un eventuale siffatto errore con i rimedi dati dalle esperibili impugnazioni. Ma il principio della legalità della pena, che è valore di rango costituzionale che permea di sè l’intero sistema, e che per certi aspetti può dirsi la legittimazione culturale – in senso laico – del processo, non sopporta di essere costretto in tali limiti, nè di essere sacrificato sull’altare del giudicato. Tale profonda valenza costituzionale, pertanto, in mancanza di una norma specifica per il processo di esecuzione, presuppone pertanto – ed anzi impone – l’immediata operatività della norma superiore, da attivare ex art. 670 c.p.p., (art. 25 Cost., comma 2, in particolare, ovvero art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: "Non può essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso"), come opzione interpretativa necessaria rispetto all’invocazione alla Corte Costituzionale di un intervento additivo, in tal caso, per la fase esecutiva del processo penale. Ed invero il dato di sistema, che pure è canone interpretativo, consente di ritenere direttamente ineseguibile (ad esempio) la sentenza emessa a non judice, ma ciò – all’evidenza – è caso diverso da quello in cui la sentenza è in sè valida ed irrevocabile, ed irroghi pena – in ipotesi – superiore al limite massimo di legge o di specie diversa da quella prevista.
Dunque questo primo profilo qui in esame può essere ancorato solo all’immediata operatività di tali norme di rango superiore, a prescindere dalla mancanza di una disciplina codicistica specifica, principio che questa Corte ha già – del resto – ammesso (v. decisione sul cd. caso Somogy). Ciò posto, va poi affrontato il nucleo del problema che successivamente di necessità si affaccia, e cioè se la violazione della pena legale sia emendabile in fase esecutiva sempre e comunque, per qualsivoglia via il giudice della cognizioni vi arrivi, ovvero solo in determinati casi. E questa, invero, la questione posta dal caso specifico. Ritiene in proposito la Corte che in materia si imponga un’insuperabile barriera rinvenibile nel sistema e coerente ad esso. Tralasciando le varie ipotesi possibili, che non interessano la presente decisione, si ritiene di poter comunque affermare che si debba doverosamente distinguere tra la pena illegale irrogata senza alcuna giustificazione rinvenibile nella sentenza (per mero ed esclusivo errore macroscopico), e quella cui si pervenga in esito ad un (per quanto discutibile) apparato argomentativo. Solo la prima ipotesi – in sè intrinsecamente inammissibile: ergastolo per una contravvenzione – ricade nell’errore non sopportato dal sistema, dunque emendabile come sopra anche in executivis. Per la seconda, invece, deve ritenersi che il giudicato copra, come tradizionalmente si afferma, il dedotto ed il deducibile. Il dato di sistema che conforta tale soluzione si rinviene nella disciplina del riconoscimento della continuazione in sede esecutiva, laddove l’art. 671 c.p.p. l’ammette "sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione", ovvero nella revisione (che può anche essere qualificata un incidente cognitivo in fase esecutiva, con efficacia risolutiva) nella quale la prova nuova non deve essere stata esaminata dal giudice della cognizione. Insomma, il dato di sistema è – secondo del resto consolidato orientamento – che il giudice dell’esecuzione trova un limite nell’avvenuto esame della questione da parte del giudice della cognizione. Nel caso presente, dunque, non ci si trova di fronte (come emerge dalla sentenza in questione) ad un errore macroscopico di pena illegale, senza alcuna giustificazione che non sia l’applicazione immediatamente errata della norma, ma ad un percorso motivazionale che peraltro faceva riferimento all’orientamento giurisprudenziale dell’epoca, tanto che ebbe l’avallo della Corte di cassazione (sentenza 04.12.1998). In definitiva, riferendo dunque al caso specifico le suesposte considerazioni, la pena inflitta all’ A. non può dirsi immediatamente illegale, ma applicata nella misura suddetta (peraltro nei limiti di legge per la sua categoria, quella detentiva) coerente rispetto alla decisione ed in esito ad un percorso motivazionale che implicava una valutazione giuridica in allora giudicata corretta anche dalla Corte di cassazione. L’errore del giudice dell’esecuzione, in sostanza, nell’impugnata ordinanza, è stato quello di valutare la pena come illegale (per ritenuto superamento dei limiti di legge) solo in funzione di una diversa successiva giurisprudenza (sulla possibilità del giudizio di bilanciamento dell’attenuante L. n. 203 del 1991, ex art. 8) e non per l’illegalità in sè della pena, e per non avere considerato che la specifica questione risultava, per essere stata già risolta dal giudice della cognizione, non più recuperabile dal giudice dell’esecuzione.
Si impone pertanto annullamento della gravata ordinanza con rinvio alla Corte d’assise d’appello di Napoli, giudice dell’esecuzione, per nuovo esame nel quale si tenga conto dei principi qui affermati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte d’assise d’appello di Napoli.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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