Cass. pen., sez. III 30-03-2009 (12-03-2009), n. 13734 Riduzione o mantenimento in stato di soggezione – Forme alternative di consumazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza impugnata la Corte di Assise di Appello di Trento ha confermato la pronuncia di colpevolezza di D.J. in ordine ai reati: a) di cui all’art. 600 c.p.; b) di cui all’art. 81 cpv. c.p., e art. 609 bis c.p., a lui ascritti per avere assoggettato al suo potere M.D., annullandone la soggettività e capacità di determinazione e costringendola a prestazioni sessuali, nonchè per avere costretto la M. con percosse ed abusando dello stato di soggezione in cui versava, anche a causa della sua condizione di clandestina, a subire atti sessuali, consistiti nella congiunzione carnale.
Secondo la ricostruzione fattuale della vicenda riportata nella sentenza la M., cittadina romena, era stata indotta da I.I., condannato per analoghe imputazioni, non ricorrente, a venire in (OMISSIS), con la prospettiva che lo I., anche egli cittadino (OMISSIS), le avrebbe trovato lavoro. Una volta raggiunto il predetto I.I., questi aveva manifestato, però, ben altre intenzioni, in quanto l’aveva tenuta segregata in una stanza, la cui porta sì apriva solo dall’esterno, e l’aveva costretta con percosse a reiterati rapporti sessuali. Nel corso della segregazione l’I. aveva costretto la M. anche ad avere rapporti sessuali con un’altra persona, tale P.C., minacciandola di morte se si fosse rifiutata. Dopo circa due settimane l’I. aveva consegnato la parte lesa ad un amico, Z.I. perchè la conducesse dal gestore di un ristorante in località (OMISSIS), dove avrebbe potuto lavorare. Lo Z. aveva prima condotto la M. nella propria abitazione, dove l’aveva indotta ad un rapporto sessuale, e, quindi, aveva proseguito il viaggio, giungendo a (OMISSIS), dove aveva consegnato la parte lesa al gestore del ristorante, identificato in D.I., detto (OMISSIS), attuale ricorrente. Questi aveva fatto alloggiare la ragazza per due giorni in casa di uno slavo, tale Z.B., e qui la aveva violentata ripetutamente. Successivamente aveva portato la M. in un agriturismo dove aveva proseguito nelle violenze sessuali. Dopo cinque giorni la ragazza, superato ogni limite di sopportazione, era esplosa in una terribile crisi e tale fatto aveva indotto lo D. a liberarsene, riconsegnandola allo I. tramite un altro cittadino romeno, tale Ma., che abitava nello stesso stabile dello I.I.. Dopo due giorni di permanenza presso la famiglia del Ma., nel corso dei quali l’I. aveva ulteriormente picchiato la ragazza con estrema violenza, lo stesso Ma. aveva aiutato la parte lesa a fuggire, accompagnandola dai Carabinieri.
I giudici di merito hanno ritenuto assolutamente credibile la parte lesa, sia per la coerenza interna delle sue dichiarazioni, sia per resistenza di ampi e continui riscontri, quali le ammissioni del P. in ordine al rapporto sessuale con la ragazza verificatosi nell’albergo dove lo aveva accompagnato lo I., suo dipendente, la descrizione dei luoghi in cui si erano verificati i fatti e le dichiarazioni rese dagli stessi imputati, anche se riferite ad un contesto di rapporti di natura diversa.
La sentenza impugnata in particolare ha rigettato i motivi di gravame con i quali l’odierno ricorrente aveva contestato la sussistenza dei reati ascrittigli, deducendo che la M. era stata sempre libera di muoversi, agire e comunicare e che i rapporti sessuali erano stati consensuali. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso i difensori dell’imputato, che la denunciano per violazione di legge e vizi della motivazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo mezzo di annullamento il ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 600 c.p. e carenza o contraddittorietà della motivazione della sentenza in ordine alla citata fattispecie criminosa.
Si osserva, in premessa, che lo D. non è stato imputato di detto reato in concorso con lo I., sicchè la condotta accertata a carico di quest’ultimo non poteva essere valutata al fine di ritenere integrata anche la fattispecie criminosa ascritta al ricorrente.
Questi, invece, era stato imputato del reato di cui all’art. 600 c.p. in concorso con I.Z. e Z.B., e, cioè la persona che aveva accompagnato la M. e quella che l’aveva ospitata in (OMISSIS) per due giorni, i quali erano stati assolti dal tribunale per non aver commesso il fatto.
Si osserva, quindi, che al fine di ritenere integrata la fattispecie descritta dall’art. 600 c.p., così come modificato dalla L. 11 agosto 2003, n. 228, art. 1, e contestata in imputazione sostanzialmente quale ipotesi di privazione della soggettività e libertà di determinazione della vittima ad opera dell’imputato a fini di sfruttamento sessuale, deve essere esaminata esclusivamente la autonoma condotta attribuita allo D..
Si deduce sul punto che i giudici di merito avrebbero dovuto tener conto:
1) del brevissimo lasso di tempo in cui si sarebbe realizzata la condotta;
2) della libertà di movimento e di comunicazione, anche telefonica, lasciata alla persona offesa;
3) del luogo, costituito dall’immediato hinterland vicentino, in cui si è verificato il fatto;
4) delle dichiarazioni della stessa M. riportate in modo acritico nella sentenza;
5) dell’assenza di minacce o violenze finalizzate alla realizzazione del reato;
6) dell’epilogo del rapporto tra le parti;
Si sostiene che i giudici di merito hanno totalmente omesso di valutare le indicate circostanze, tenuto conto del fatto che, escluso il concorso del ricorrente con lo I., non poteva affermarsi che lo stato di soggezione in cui versava la parte lesa era una prosecuzione dell’attività criminosa posta in essere da detto imputato, considerato anche che il soggetto che aveva fatto da tramite tra i due era stato assolto.
Si ribadisce in particolare sul punto che il luogo in cui venne condotta la M. era tutt’altro che isolato, trattandosi di un paese, peraltro situato a breve distanza da Vicenza; che la M. aveva goduto di una certa libertà di movimento, come riconosciuto dalla stessa sentenza impugnata, e, cioè, poteva muoversi liberamente con e senza lo D.; che la stessa non ignorava affatto la lingua italiana e, comunque, era in grado di relazionarsi con i cittadini italiani, secondo quanto emerso dalle dichiarazioni rese dalla stessa M. in dibattimento; che lo Z. non aveva ingannato o imposto il proprio volere con (a forza alla M., nè risultava che lo stesso avesse pagato un eventuale compenso allo I.; che l’affermazione, secondo la quale l’imputato è un uomo violento, sia fisicamente che sessualmente, privo di compassione e di scrupoli, contrasta logicamente con la circostanza che fu sufficiente una improvvisa crisi isterica della parte lesa ad indurlo a liberarsene, mentre è stato accertato che lo I., a differenza dello D., di fronte alla ribellione della ragazza, aveva risposto con violenza, picchiandola selvaggiamente.
Con il secondo mezzo di annullamento si denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 192 c.p.p. e carenza o contraddittorietà della motivazione della sentenza con riferimento alla affermazione di colpevolezza dell’imputato per il reato di violenza sessuale.
Il ricorrente deduce che in ordine alla affermazione di colpevolezza dello D. per detto reato la valutazione dei giudici di merito in ordine alla attendibilità della parte lesa risulta contraddittoria.
Si osserva, in sintesi, che la M. aveva utilizzato le stesse espressioni a proposito del rapporto al quale era stata costretta dallo Z., affermando che questi l’aveva presa con la forza e (a aveva anche picchiata, ma che tali dichiarazioni non sono state ritenute attendibili dai giudici di merito e comunque inidonee a superare il contrasto con la diversa versione dei fatti fornita dallo Z., che è stato assolto.
Accuse del tutto analoghe della M. sono state, invece, poste a fondamento della affermazione di colpevolezza dello Z..
Il ricorso non è fondato.
A seguito delle modifiche apportate all’art. 600 c.p. dalla L. 11 agosto 2003, n. 228, art. 1, recante misure contro la tratta delle persone, è stato precisato da questa Suprema Corte, in sede di interpretazione della nuova formulazione della norma, che il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù si configura quale fattispecie plurima, integrata alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.
Quest’ultima fattispecie (art. 600 c.p., comma 2) configura un reato di evento a forma vincolata in cui l’evento, consistente nello stato di soggezione continuativa in cui la vittima è costretta a svolgere date prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente alternativamente, tra l’altro, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità ovvero approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità.
Ne deriva che, perchè sussista la costrizione a prestazioni (nella specie sessuali) – in presenza dello stato di necessità che è un presupposto della condotta approfittatrice dell’agente e che deve essere inteso come situazione di debolezza o mancanza materiale o morale atta a condizionare la volontà della persona – è sufficiente l’approfittamento di tale situazione da parte dell’autore; mentre la costrizione alla prestazione deve essere esercitata con violenza o minaccia, inganno o abuso di autorità nei confronti di colui che non si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità, (cfr. sez. 5, 200604012, Lazri ed altri, RV 233600).
E’ stato, poi, ulteriormente precisato da questa Corte sul punto che "In tema di riduzione in schiavitù o in servitù, la situazione di necessità della vittima costituisce il presupposto della condotta apprafittatrice dell’agente e, pertanto, tale nozione non può essere posta a paragone con 10 stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., ma va piuttosto posta in relazione alla nozione di bisogno indicata nel delitto di usura aggravata (art. 644 c.p., comma 4, n. 3) o allo stato di bisogno utilizzato nell’istituto della rescissione del contratto (art. 1418 c.c.).
La situazione di necessità va, quindi, intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale: in altri termini, coincide con la definizione di "posizione di vulnerabilità" indicata nella decisione quadro" (sez. 3, 26.10.2006 n. 2841 del 2007, Djordjevic ed altri, RV 236022; conf. sez. 3, 20.12.2004 n. 3368 del 2005, Galceanu ed altri, RV 231113).
Orbene, la sentenza impugnata, la cui motivazione peraltro è integrata da quella della pronuncia di primo grado per l’uniformità della decisione, ha correttamente applicato gli enunciati principi di diritto, avendo evidenziato che la M., nell’ambito della descritta situazione fattuale, era stata passata di mano in mano tra i vari protagonisti della vicenda, come un pacco postale, vale a dire come un oggetto, fino allo D., che l’aveva tenuta a sua disposizione abusandone sessualmente.
Il ricorrente, in particolare, la aveva tenuta in uno stato di totale soggiogazione, indotto dallo approfittamento dell’evidente stato di bisogno in cui versava la M., sia perchè priva di mezzi di sostentamento, sia per essersi trovata, clandestina, in un paese straniero, di cui ignorava sostanzialmente la lingua.
Alla luce di tale accertamento di fatto i giudici di merito hanno ritenuto irrilevanti le deduzioni dell’imputato, afferenti al fatto che la M. in effetti godeva di una certa libertà di movimento ed avrebbe potuto approfittarne per sottrarsi allo sfruttamento sessuale impostole dallo D., avendo evidenziato – con motivazione giuridicamente corretta – che la situazione di necessità in cui versava la vittima ha reso del tutto fittizio lo spazio di libertà attribuitole, non potendone fare la stessa alcun uso, in quanto priva di qualsiasi risorsa economica ed essendo stata anche privata dei propri documenti.
Sul punto, peraltro, era stato già correttamente osservato dalla sentenza di primo grado che “una certa libertà di movimento non esclude il reato di riduzione in schiavitù, la cui aggettività giuridica non richiede, come condizione, l’annullamento della libertà di locomozione, perchè altrimenti il responsabile risponderebbe anche del reato di sequestro di persona".
Alla luce delle enunciate osservazioni è del tutto irrilevante il fatto che la condotta attribuita all’imputato sia stata configurata quale autonoma fattispecie di soggiogazione della ragazza da parte dello Z., mediante l’approfittamento della situazione di necessità in cui la stessa versava, rispetto all’analoga ipotesi criminosa posta in essere in precedenza dall’ I.I., peraltro condannato ad una pena pia grave, così come è irrilevante la durata del mantenimento della riduzione in servitù, che, in ogni caso, si palesa significativa ai fini della configurazione del reato.
Del tutto inconferente è, infine, la circostanza che l’imputato, di fronte alla reazione della parte lesa, ormai esasperata dal continuo sfruttamento sessuale, temendo evidentemente le conseguenze negative del fatto, abbia desistito dal perseverare nella condotta posta in essere, restituendo, però, la parte lesa a chi la aveva tenuta soggiogata in precedenza anche mediante l’uso della violenza.
Il secondo motivo di gravame è manifestamente infondato.
La valutazione della attendibilità della parte lesa ha formato oggetto di motivazione assolutamente esaustiva ed immune da vizi logici, sia nella sentenza impugnata che in quella di primo grado, avendo i giudici di merito evidenziato oltre alla solidità e coerenza della esposizione narrativa dei fatti da parte della M. resistenza di innumerevoli riscontri che ne attestano la veridicità.
Nè le incertezze ritenute dai giudici di primo grado in ordine alle effettive modalità che hanno contraddistinto il rapporto sessuale preteso dallo Z.I. durante il viaggio in macchina fino al vicentino possono essere rivalutate in sede di legittimità per pervenire a conclusioni diverse da quelle formulate dai giudici di merito in ordine alla attendibilità della parte lesa.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone che in caso di diffusione della sentenza vengano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di M.D..

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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