Cass. pen., sez. II 23-02-2009 (05-02-2009), n. 8015 Sentenza di estinzione del reato – Appello dell’imputato – Rigetto – Soccombenza – Condanna alle spese sostenute dalla parte civile costituita

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
Con sentenza del 26.11.2004, la Corte di Appello di Roma confermò la sentenza del Tribunale di Latina del 10.3.2003, che aveva dichiarato estinti per prescrizione i reati di usura ascritti a P. F., condannando l’imputato, che con l’atto di impugnazione aveva invocato il proscioglimento nel merito, al pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute dalla parte civile costituita.
Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo con il primo motivo, sviluppato con ampia ricostruzione di tutti i fatti di causa, il difetto di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata pronuncia di proscioglimento nel merito ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2; e con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in ordine alla statuizione sulle spese di parte civile.
Per quel che riguarda il motivo principale, si deve rilevare che censure attinenti al difetto di motivazione della sentenza del giudice di merito sotto il profilo della mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità quanto al ritenuto raggiungimento della prova di responsabilità, mai potrebbero essere dedotte nel giudizio di legittimità per far valere la violazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2, (cfr. Cassazione penale, sez. 6, 26 marzo 2007, n. 22205). Il rinvio al giudice del merito per il rilevato difetto di motivazione, tendente alla assoluzione ex art. 530 c.p.p., comma 2, sarebbe infatti incompatibile con l’obbligo di immediata declaratoria della causa di estinzione oltre che incompatibile con il principio in base al quale, in presenza di causa estintiva del reato, la prova incompleta in ordine alla responsabilità dell’imputato non viene equiparata alla mancanza di prova e prevale la formula di proscioglimento per la causa di estinzione (Sez. 6^, 25 marzo 2004).
Al riguardo, si è ulteriormente precisato che la regola di giudizio di cui all’art. 530 c.p.p., comma 2, – cioè il dovere per il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità – è dettata esclusivamente, per il normale esito del processo sfociante in una sentenza emessa dal giudice al compimento dell’attività dibattimentale con piena valutazione di tutto il complesso probatorio acquisitosi in atti. Tale regola non può trovare applicazione in presenza di causa estintiva di reato; in una situazione del genere vale la regola di cui all’art. 129 c.p.p. in base alla quale in presenza di causa estintiva del reato, l’inizio di prova ovvero la prova incompleta in ordine alla responsabilità dell’imputato non viene equiparata alla mancanza di prova, ma, per pervenire a un proscioglimento nel merito, soccorre la diversa regola di giudizio, per la quale deve "positivamente" (".. risulta evidente.." art. 129 c.p.p., comma 2) emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato per quanto contestatogli (Sez. 1^, 30 giugno 1993, dep. 28 settembre 1993, n. 8859, rv. 197012; Sez. 5^, 2 dicembre 1997, dep. 6 febbraio 1998, n. 1460, rv. 209802). Dati i rigorosi limiti dell’accertamento, in sede di legittimità, delle condizioni per un proscioglimento nel merito a preferenza della dichiarazione di una causa estintiva, il ricorso potrebbe essere accolto sotto il profilo in esame, soltanto in presenza delle condizioni per un annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per la manifesta evidenza delle prove dell’innocenza dell’imputata e per l’altrettanto manifesta incongruità della motivazione del giudice di merito, tali da escludere la necessità di qualunque altro approfondimento.
Ma al riguardo, il ricorrente formula inammissibili deduzioni di merito "alternative", che pretende di sovrapporre alle argomentazioni della Corte territoriale, congruamente fondate in punto di prevalenza della causa estintiva, su una adeguata revisione critica del materiale istruttorio acquisito agli atti, con puntuali riferimenti alle deposizioni testimoniali, alle risultanze documentali e all’esito di una c.t.u. dalla quale risultò che nel periodo dal 1990 al 1993 il P. aveva erogato alle persone offese la somma complessiva di L. 937 milioni, ricevendone quella di L. due miliardi seicentocinque milioni novecento sedicimila.. Ma se pure lacune e incongruenze fossero ravvisabili nella motivazione della sentenza, l’approfondimento che occorrerebbe, potrebbe essere effettuato soltanto in sede di rinvio, in contrasto con l’immediata operatività della causa estintiva ormai definitivamente accertata. Manifestamente infondato è anche il motivo concernente il capo della sentenza impugnata relativo alla condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili. Il ricorrente rileva che "i giudici del Tribunale di Latina, correttamente, in assenza di soccombenza, avendo dichiarato estinti i reati per prescrizione, non avevano liquidato le spese del giudizio di primo grado in favore delle stesse parti civili, e tale decisione non è stata impugnata" La Corte di appello avrebbe quindi derogato al principio della soccombenza dell’imputato, come necessario presupposto della statuizione censurata. Sotto altro profilo, l’esercizio del potere del giudice di regolare il pagamento delle spese del giudizio tra le parti private, sarebbe assolutamente discrezionale senza alcun automatismo a favore della parte civile.
Per quanto il ricorrente non formuli espliciti riferimenti alla disposizione dell’art. 578 c.p.p., sembra piuttosto evidente che abbia di mira i limiti in cui la suddetta norma ammette che il giudice dell’impugnazione si pronunci sugli interessi civili in presenza di una causa di estinzione del reato sopravvenuta ad una prima sentenza di condanna. Si tratta, peraltro, di norma diretta a regolare un’ipotesi specifica, non l’intero ambito delle situazioni processuali, e dei corrispondenti esiti, in cui possa articolarsi la dialettica tra le parti private del processo penale.
A questa stregua, ben può ravvisarsi soccombenza dell’imputato tutte le volte che egli non si veda accolte dal giudice dell’impugnazione deduzioni e richieste capaci comunque di interferire con gli interessi della parte civile, tanto potendo darsi anche in presenza di una causa di estinzione del reato già verificatasi e dichiarata nel giudizio di primo grado e, quindi, in assenza di una sentenza di condanna dell’imputato al risarcimento dei danni cagionati dal reato.
Nella specie, occorre considerare che con i motivi di appello l’imputato aveva sollecitato la riforma della sentenza del Tribunale di Latina invocando una più favorevole pronuncia nel merito, con la formula perchè il fatto non sussiste o non costituisce reato, in luogo della dichiarazione di prescrizione.
L’accoglimento del gravame, oltretutto nei termini di evidenza supposti dall’art. 129 c.p.p., avrebbe quindi potuto comportare l’esclusione della fondatezza della pretese risarcitorie delle parti civili, determinando lo specifico interesse delle stesse parti a resistere all’impugnazione dell’imputato.
Ma, se così è, il rigetto dell’appello dell’imputato determinò senz’altro la sua soccombenza, giustificando la censurata statuizione sulle spese processuali a favore delle parti civili, peraltro correttamente limitata dalla Corte territoriale a quelle del grado di appello (vedi, in senso conforme, Cass Sez. 5,23/09/1998 Cucumazzo, secondo cui nel processo penale l’onere della rifusione delle spese giudiziali sostenute dalla parte civile è collegato alla soccombenza e pertanto, nel giudizio di impugnazione, all’interesse della persona offesa o danneggiata a far valere i propri diritti in contrasto con i motivi proposti dall’imputato; interesse che va ravvisato in funzione del pregiudizio che possa derivare alla parte civile dall’accoglimento del gravame; in generale, nel senso che nel processo penale l’onere della rifusione delle spese giudiziali sostenute dalla parte civile è collegato alla soccombenza cfr. Cass. Sez. 6, 06/12/1985 Tripodi).
Quanto alla discrezionalità concessa al giudice nel regolamento delle spese tra le parti private, se essa fosse "assoluta", come deduce lo stesso ricorrente, non vi sarebbero margini per sindacarne l’esercizio in concreto, come contraddittoriamente pretenderebbe allora il ricorrente.
In realtà, come si desume chiaramente dall’art. 541 c.p.p. (ma anche dalla fondamentale disposizione dell’art. 91 c.p.c.), la regola della soccombenza, ai fini del regolamento delle spese, è criterio generale, preferenziale e "autosufficiente", derogabile solo in presenza di giusti motivi, richiedendosi quindi al giudice uno specifico obbligo di motivazione solo quando egli intenda discostarsene.
Senza dire che nemmeno il ricorrente indica quali sarebbero in concreto i giusti motivi per la compensazione delle spese, essendosi limitato ad invocare in termini assolutamente generici un principio astratto, non importa sotto questo profilo quanto correttamente formulato.
Le medesime considerazioni valgono, infine, per quel che riguarda il regolamento delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio di legittimità, che devono ancora una volta essere poste a carico dell’imputato.
Alla stregua delle precedenti considerazioni, il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità, oltre alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalle parti civili, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, liquidate in Euro 2.000,00 per ciascuna, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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