Cass. pen., sez. I 16-12-2008 (04-12-2008), n. 46290 Padre con prole inferiore ai tre anni – Madre lavoratrice – Impedimento assoluto della madre

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
Con ordinanza in data 24 luglio 2008 il Tribunale di Palermo, costituito ai sensi dell’art. 310 c.p.p., in accoglimento dell’appello presentato dal Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale contro la ordinanza 26 giugno 2008 del GIP del Tribunale di Agrigento, che aveva sostituito nei confronti di C.S. la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, ha ripristinato la misura della custodia in carcere.
Il C. era stato sottoposto alla massima misura con provvedimento del GIP del 29 novembre 2007 nell’ambito del procedimento n. 2093 RGNR e n. 4782/05 RG Gip per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e per altre otto fattispecie di reato ex citato D.P.R., art. 73. Il GIP aveva in seguito accolto la istanza dell’indagato di sostituzione della misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari, basata sul rilievo che si trattava di padre di una figlia di età inferiore ai tre anni, la cui madre, unico soggetto abile del nucleo familiare, era impossibilitata a prestare assistenza alla piccola poichè era stata assunta da una ditta di (OMISSIS) con orario di lavoro dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19 dal lunedì al venerdì e dalle 9 alle tre il sabato e non esistevano in (OMISSIS) asili pubblici, mentre il costo di quelli privati (Euro 200,00 mensili) non era compatibile con i redditi del nucleo familiare.
Il Tribunale, investito dall’appello del Pubblico Ministero che aveva dedotto la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza alla stregua dei gravi e numerosi fatti di reato contestati all’indagato e del suo ruolo di organizzatore e finanziatore del gruppo criminale, nonchè la insussistenza di impedimento assoluto della madre della minore, ai sensi dell’art. 275 c.p.p., comma 4, ha invece ritenuto che non fosse provata l’assenza di strutture pubbliche che avrebbero potuto accogliere la minore durante la attività lavorativa della madre, che non fosse provata neppure la totale assenza di prossimi congiunti disponibili e che in ogni caso il costo di un asilo provato fosse compatibile con il reddito del nucleo familiare.
Contro tale ordinanza ha proposto ricorso per Cassazione la difesa del C. deducendo: violazione dell’art. 275 c.p.p., comma 4, poichè, anche a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 215 del 1990 e della modifica di cui alla L. n. 332 del 1995 al padre era attribuita la stessa funzione assistenziale spettante alla madre qualora la madre fosse impedita ad assicurare tale assistenza alla prole, come nel caso in esame in cui, pur non volendo ritenere che la sola attività lavorativa della madre valga ad integrare un assoluto impedimento, peraltro nessuno dei membri delle famiglie paterna e materna era nelle condizioni di potere accudire in modo continuativo e costante la bimba, che aveva solo un anno, in quanto le nonne della piccola erano ammalate, i nonni svolgevano attività manageriali di notevole impegno ed anche le zie lavoravano o studiavano e nel contempo a (OMISSIS) non esistevano asili nido statali mentre l’asilo privato di (OMISSIS) richiedeva una retta di Euro 200,00 mensili che la famiglia C. non era in grado di sostenere;
violazione dell’art. 275 c.p.p., comma 3, e difetto di motivazione del provvedimento impugnato poichè non sussistevano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, come aveva velatamente assunto il provvedimento, non potendo queste identificarsi con quelle presunte per legge derivanti dal titolo del reato, bensì postulavano la esistenza di puntuali e specifici elementi indicativi di un allarmante pericolo sociale. Il ricorso, ad avviso del Collegio, è infondato.
Questa Corte ha ripetutamente affrontato la questione della applicabilità del divieto di custodia in carcere di uno dei genitori di un bambino di età inferiore ai tre anni, di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4, qualora l’impedimento addotto dall’altro genitore consista nella attività lavorativa e la ha ripetutamente risolta nel senso che la attività lavorativa del genitore non è di per sè automaticamente impeditiva della possibilità di assicurare assistenza al figlio, anche piccolissimo, poichè la attività lavorativa dell’unico genitore o di entrambi i genitori non impedisce in via generale di prendersi cura dei figli, anche eventualmente con l’aiuto di familiari disponibili o con il ricorso a strutture pubbliche o private abilitate (v. Cass. N. 47073 del 2003, rv.
226978; n. 20233 del 2006, rv. 234659; n. 33850 del 2006, rv. 235194;
n. 38067 del 2006, rv. 235757; n. 5664 del 2007, rv. 236128).
Il suddetto orientamento giurisprudenziale si basa sul rilievo che ormai una rilevante percentuale di famiglie italiane è composta da un solo genitore ovvero da entrambi i genitori che lavorano ma non per questo trascurano i figli o li privano di assistenza, considerata anche le provvidenze legislative a favore del genitore che lavora (riduzione dell’orario di lavoro, possibilità di assentarsi dal lavoro in caso di malattia del bambino) e gli istituti sostitutivi ed economici (nidi, scuole dell’infanzia pubbliche e private ecc.) a sostegno della genitorialità. Non è invero sufficiente il lavoro della madre per fare ritenere che la stessa sia assolutamente impedita a prestare assistenza al figlio minore di tre anni, dovendosi altrimenti escludere che tutte le madri di figli in tenera età possano lavorare, occorrendo invece altri e più gravi presupposti per fare ritenere che la madre sia assolutamente impossibilitata a prestare assistenza al figlio. Ed anzi proprio l’uso dell’avverbio "assolutamente" da parte della norma fa riferimento a situazioni gravi ben diverse dalla attività lavorativa ordinaria.
La sentenza Capizzi (n. 47473 del 2004, rv. 230802), impropriamente citata dal provvedimento impugnato a sostegno della tesi seguita, è in realtà l’unica che si è posta in consapevole contrasto con il diverso orientamento, sia pure sotto il limitato profilo che il mero richiamo alla possibilità di ricorrere ad istituti pubblici o a parenti non sarebbe, da solo, sufficiente ad escludere la assolutezza dell’impedimento materno, ed ha per questo annullato con rinvio il provvedimento impugnato – motivato sotto il profilo che la attività lavorativa della madre non integrasse un impedimento alla assistenza del figlio "potendo la stessa farvi fronte attraverso altri componenti della famiglia" -pur con il rilievo che poi il giudice del rinvio avrebbe dovuto tenere conto del fatto che la garanzia di educazione, presenza ed assistenza dei figli non è incompatibile con lo svolgimento di una normale attività lavorativa, come peraltro avviene nelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano e che inoltre la funzione assistenziale del padre, ove risulti impossibile quella della madre, è subordinata alla stessa condizione prevista per l’assistenza materna e cioè alla convivenza con prole di età inferiore ai tre anni.
Ciò posto, è evidente che l’improprio richiamo di un precedente giurisprudenziale non completamente in linea con la motivazione seguita dal Tribunale non può inficiare la correttezza della sentenza impugnata la quale ha esattamente rilevato che la sola attività lavorativa dipendente della madre non appare inconciliabile con la assistenza della prole, in assenza di qualsiasi allegazione in merito a particolari caratteristiche di tale attività, idonee a fare apparire la attività particolarmente gravosa, non dedotte dall’interessato davanti al Tribunale e neppure in sede di ricorso con cui si allega soltanto che la attività lavorativa della madre sarebbe dimore giornaliere, il che costituisce la ordinaria durata della attività lavorativa dipendente in Italia. La motivazione del provvedimento impugnato appare in sostanza ineccepibile e conforme al parametro normativo di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4, mentre il ricorrente muove censure di mero fatto (quali la rilevante onerosità della retta per un asilo privato, peraltro indicata in appena Euro 200,00 mensili, ovvero la attività manageriale dei nonni, fonte di redditi che devono per legge essere destinate al sostegno della nipote qualora i genitori non fossero in grado di provvedervi) che sono già state prese in esame dal giudice di merito e che non possono comunque trovare ingresso in sede di legittimità in presenza di una motivazione del provvedimento impugnato priva di contraddizioni o di salti logici e che ha fatto corretta applicazione delle disposizioni di legge.
Correttamente poi il provvedimento impugnato non ha preso in esame nella parte motivazionale le esigenze cautelari di eccezionali rilevanza (peraltro rappresentate nella prima parte del provvedimento), poichè ha escluso che esistesse la condizione di assoluta impossibilità della madre di dare assistenza alla figlia, la cui sussistenza avrebbe imposto la valutazione delle esigenze cautelari.
Il ricorso deve essere pertanto respinto perchè infondato sotto tutti i profili addotti con le conseguenze di legge in punto di spese (art. 616 c.p.p.).
Poichè la presente decisione determina la definitività del provvedimento del Tribunale, si deve disporre la trasmissione della presente sentenza all’organo che deve disporre la esecuzione, a norma dell’art. 92 disp. att. c.p.p..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmesso al competente Tribunale del riesame di Palermo perchè provveda a quanto stabilito nell’art. 92 disp. att. c.p.p..
Manda alla Cancelleria per gli immediati adempimenti a mezzo fax.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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