CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO – SENTENZA 13 luglio 2010, n.16418 MOBBING: NECESSARIO IL COLLEGAMENTO CAUSALE TRA PATOLOGIA E RAPPORTO DI LAVORO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

1. Nel primo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta l’erronea interpretazione dell’art. 2087 c.c., per l’asserita irrilevanza di patologie di natura psicologica insorte da decisioni che rientravano in un limite organizzativo, e la contraddittorietà della motivazione.

Contesta che i comportamenti aziendali, dedotti nella loro oggettività, non potessero costituire fonte di danno ai sensi dell’art. 2087 c.c., quando – come nel caso di specie – non era stata dedotta e provata l’illegittimità del comportamento del datore di lavoro.

Quest’ultimo aveva il dovere di astenersi da comportamenti che risultassero lesivi dell’integrità psicofisica del lavoratore.

Né era possibile effettuare distinzioni tra integrità fisica e integrità psichica.

2. Nel secondo motivo di impugnazione il prof. D. C. denunzia la ritenuta legittimità delle condotte mobbizzanti poste in essere dalla X, e l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

Secondo il ricorrente, la motivazione espressa su questo punto dalla Corte d’Appello di Torino era contraddittoria perché lo stesso giudice aveva ritenuto che fossero legittime le dimissioni del dipendente in relazione al mutato clima aziendale.

3. Il ricorso non è fondato e non può trovare accoglimento.

I due motivi, connessi tra loro, possono essere trattati unitariamente.

Le censure proposte dal ricorrente sono parzialmente inammissibili, e, in ogni caso, infondate.

Sono inammissibili nelle parti in cui si risolvono nella riproposizione di questioni di fatto, relative in particolare alla valutazione dei fatti e alla interpretazione dei comportamenti delle parti, che, appunto perché attengono al fatto, non sono suscettibili di un nuovo esame in sede di legittimità.

I due motivi di impugnazione sono anche infondati.

L’effettuazione da parte della ditta di un comportamento tale da costituire mobbing è stata già esclusa in un precedente giudizio proposto dall’interessato nei confronti del datore di lavoro (cfr. pp. 12 e 13 della motivazione della sentenza impugnata, e p. 22 dello stesso ricorso, dove si precisa, peraltro, che la sentenza d’appello, sfavorevole al prof. D. C., era stata impugnata in cassazione).

Anche la sentenza d’appello qui impugnata è giunta alla medesima conclusione: si tratta di una valutazione di fatto, su cui la sentenza in esame ha motivato ampiamente, e con coerenza, e le cui argomentazioni non vengono scalfite dalle critiche generiche del ricorrente.

4. Secondo quanto risulta dalla sentenza, e sostanzialmente dallo stesso ricorso (dato che, per la verità, la materialità dei fatti non è contestata, ma lo è soltanto la loro valutazione) il prof. D. C. soffre per uno stato di prostrazione, con conseguente patologia di carattere psicologico, sia a causa del coinvolgimento in un processo penale, sia a causa del deteriorarsi del rapporto fiduciario tra lui ed i vertici aziendali, e della sua conseguente perdita di rango all’interno dell’impresa (con il ritiro delle carte di credito aziendali, la sostituzione della macchina a disposizione con altra ritenuta non adeguata, il mancato invito a partecipare ai consigli di amministrazione, ecc.).

Va premesso, per chiarezza, che non risulta dagli atti a disposizione di questa Corte se sussista, o meno, un rapporto tra i due fatti scatenanti (il coinvolgimento nel processo penale, e la perdita della fiducia dei vertici aziendali), ma, per verità, questa circostanza, soggettivamente rilevante, non rileva però ai fini di questa causa.

In ogni caso quella esposta dal ricorrente è una affezione di carattere psicologico che, già in prospettazione, non è legata causalmente al rapporto di lavoro, e neppure intervenuta in occasione di lavoro, ma semplicemente sopravvenuta, per fatti sostanzialmente personali, mentre era in corso il rapporto di lavoro.

Come giustamente ritenuto dalla Corte d’Appello di Torino, la mancanza di ogni collegamento causale con il rapporto di lavoro, neppure nella forma della semplice occasione di lavoro, esclude la risarcibilità di qualsiasi danno non solo da parte dell’Istituto assicurativo pubblico Inail, ma anche da parte dell’assicurazione privata Cattolica Assicurazioni per la copertura derivante dalla polizza assicurativa stipulata in suo favore dalla società datrice di lavoro, per i danni derivati dal rapporto di lavoro (e non per quelli derivati, pur in costanza di rapporto di lavoro, da fatti ad esso estranei).

Di conseguenza il ricorso non può che essere rigettato.

5. Tenuto conto della peculiarità della fattispecie sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese tra il ricorrente e la resistente società Cattolica Assicurazioni.

Nulla va disposto per le spese dell’altro resistente Inail.

Nei confronti di quest’ultimo il prof. D. C. ha richiesto, in qualità di assicurato, una prestazione di carattere previdenziale, e, dato che non risulta che il giudizio sia stato introdotto dopo che il testo dell’art. 152 disp. att. c.p.c. venisse modificato dall’art. 42 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con legge 24 novembre 2003, n. 326, la norma si applica nella sua precedente formulazione, e, di conseguenza, l’assicurato ora ricorrente non può essere assoggettato all’onere delle spese.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

Compensa le spese nei confronti della Cattolica Assicurazioni.

Nulla per le spese nei confronti dell’Inail.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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