CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 21 giugno 2010, n.14921 DATIO IN SOLUTUM

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente le due impugnazioni vengono riunite in un solo processo, in applicazione dell’art. 335 c.p.c.

I primi tre motivi del ricorso principale possono essere presi in considerazione congiuntamente, poiché vi sono formulate censure tra loro connesse, tutte relative al capo della sentenza impugnata con cui è stato confermato il rigetto della domanda di M. P. diretta a ottenere la dichiarazione di nullità del contratto oggetto della causa.

La Corte d’appello è pervenuta a tale decisione osservando che: – con sentenza del 15 giugno 1996 il Pretore di Fasano aveva condannato G. R. a nove mesi di reclusione e 900.000 lire di multa per il reato di usura, commesso per aver ottenuto la cessione degli immobili in questione, nonché al risarcimento dei danni, da liquidare in separata sede, in favore di M. P., costituitasi parte civile; – quest’ultima pronuncia era stata confermata con sentenza del 14 ottobre 1998 dalla Corte d’appello di Lecce, la quale aveva dichiarato estinto per prescrizione il reato; – la decisione era passata in giudicato, in seguito al rigetto del ricorso per cassazione proposto dall’imputato; – l’efficacia di tale sentenza in sede civile era regolata dall’art. 654 c.p.p.; – i fatti materiali accertati dal giudice penale consistevano sia nello stato di bisogno in cui all’epoca versava M. P., in conseguenza di una procedura concorsuale instaurata nei suoi confronti, sia nella consapevolezza di G. R. di tale situazione, sia nella natura usuraria degli interessi pretesi dallo stesso Russi, dopo che aveva soddisfatto i crediti di coloro che si erano insinuati nel fallimento; – per la dichiarazione di nullità della datio in solutum non era però sufficiente l’approfittamento dello stato di bisogno del soggetto passivo, essendo anche necessario, secondo la giurisprudenza di legittimità, che il contraente avvantaggiato avesse tenuto un comportamento diretto ad incidere sulla altrui determinazione negoziale; – di ciò non era stata data né offerta alcuna prova dall’originaria attrice.

Le critiche rivolte da M. P. a queste argomentazioni sono fondate, nel loro nucleo essenziale.

L’efficacia “esterna” delle sentenze penali dibattimentali irrevocabili, nei confronti dell’imputato e della parte civile, è limitata a quelle «di condanna o di assoluzione», che fanno stato nel giudizio civile nel quale si controverte intorno a un diritto il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale (art. 654 c.p.p.). Restano dunque escluse, di regola, le pronunce di non doversi procedere per estinzione del reato, che non implicano una decisione di merito, presupponendo soltanto che dagli atti non risulti già evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato (art. 531 e 129 c.p.p.). In tal caso, pertanto, «il giudice civile, pur tenendo conto di tutti gli elementi di prova acquisiti in sede penale, e pur potendo ripercorrere lo stesso iter argomentativo del giudice penale e giungere alle medesime conclusioni, deve tuttavia interamente e autonomamente rivalutare il fatto» (Cass. s.u. 27 maggio 2009 n. 12243).

Diversa è però l’ipotesi in cui, come nella specie, in primo o in secondo grado «è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile», poiché allora «il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili» (art. 578 c.p.p.). Tale decisione, se la condanna alle restituzioni o al risarcimento ne resta confermata, comporta necessariamente, come suo indispensabile presupposto, l’affermazione della sussistenza del reato e della sua commissione da parte dell’imputato. Dà luogo quindi a un giudicato civile, come tale vincolante in ogni altro giudizio tra le stesse parti, nel quale si verta sulle conseguenze, anche diverse dalle restituzioni o dal risarcimento, derivanti dal fatto, la cui illiceità, ormai definitivamente stabilita, non può più venire in questione.

Tale illiceità la Corte d’appello ha finito invece per negare, mentre essa stessa in sede penale – ma come giudice civile – l’aveva affermata, con effetto di giudicato, confermando la condanna di Giulio Russi al risarcimento dei danni in favore di M. P., in quanto persona offesa dal reato di usura.

In proposito, nella sentenza impugnata, è stata richiamata la massima tratta da Cass. 22 gennaio 1997 n. 628, secondo cui «affinché un contratto, definitivo o anche preliminare, il quale importi il trasferimento di diritti o l’assunzione di obblighi verso un determinato corrispettivo in denaro, beni o servizi, possa essere considerato il mezzo in concreto utilizzato dall’agente per commettere il reato di cui all’art. 644, 1° comma, c.p., facendosi dare o promettere in corrispettivo di una somma di denaro o di altra cosa mobile interessi o vantaggi usurari, ed incorra quindi nella sanzione di nullità è necessario – a differenza della contigua ipotesi di rescindibilità del contratto per lesione – che il contraente avvantaggiato abbia tenuto un comportamento diretto ad incidere sulla determinazione della volontà contrattuale del soggetto passivo (ad es. provocando o sollecitando la formulazione di una proposta contrattuale particolarmente svantaggiosa per il proponente) non essendo sufficiente (diversamente dalla menzionata ipotesi di rescindibilità) che egli, nella consapevolezza dello stato di bisogno della controparte, si sia limitato a trarne profitto».

Il richiamo di questo precedente non è però pertinente perché in quel caso era mancato, diversamente che nella specie, un previo giudizio civile inserito in quello penale: giudizio all’esito del quale non è stata semplicemente delibata, ai sensi degli art. 531 e 129 c.p.p., la non evidenza dell’innocenza dell’imputato, ma è stata accertata ai fini civili, in applicazione dell’art. 578 c.p.p., la commissione del reato di usura da parte di G. R.

È alla luce di questo definitivo accertamento che la Corte d’appello, senza rimetterlo in discussione, avrebbe dovuto vagliare la domanda di nullità proposta da M. P.

Accolti pertanto i primi tre motivi del ricorso principale, nei limiti risultanti da quanto si è prima esposto, resta assorbito il quarto, che attiene al rigetto della domanda di rescissione, inizialmente formulata dall’attrice in via principale, ma riproposta in appello come subordinata.

Questo stesso capo della sentenza impugnata forma oggetto anche del ricorso incidentale, che va dichiarato inammissibile, poiché sul punto G. R. è rimasto pienamente vittorioso, anche se in base a un calcolo a suo dire inficiato da errori.

La sentenza impugnata deve quindi essere cassata con rinvio ad altro giudice, che si designa in una diversa sezione della Corte d’appello di Lecce, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie i primi tre motivi del ricorso principale; dichiara assorbito il quarto; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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