CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 25 gennaio 2010, n.1296 PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA E POSSESSO DELL’IMMOBILE PRIMA DELLA STIPULA DEL DEFINITIVO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte violazione ed errata applicazione degli artt. 112, 132, 272, 273, 274 c.p.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c.

Le doglianze premettono l’ingiustificata omessa pronunzia, da parte del giudice di primo grado, sulle richieste, segnatamente di quella di riunione con l’altra causa connessa, diretta ad evitare contrasto di giudicati, proposte dall’interventrice autonoma Baccillieri.

Tale omissione, pur essendo stata rilevata da parte del giudice di appello, previa declaratoria di ammissibilità dell’intervento e corretta qualificazione dello stesso, in quanto diretto a far valere un diritto incompatibile con quello tra le altre parti controverso, contraddittoriamente non avrebbe dato luogo alla declaratoria di nullità della prima sentenza, ma ad indebita equiparazione dell’omessa pronunzia ad un implicito rigetto nel merito dell’intervento, ingiustamente confermato, come censurato nel successivo mezzo d’impugnazione.

Si sostiene che in tal modo il giudice di secondo grado sarebbe anch’egli incorso nel vizio di omessa pronunzia, in ordine alla richiesta di tale declaratoria, ed in quello di omessa o carente motivazione in ordine alle richieste istruttorie dell’odierna ricorrente, essendosi basato sulle sole risultanze dedotte dalle controparti, in un contesto caratterizzato da violazione del contraddittorio nel precedente grado, con conseguente convincimento fondato su esame parziale dei fatti. Il messo d’impugnazione si conclude con la formulazione, ex art. 366 bis c.p.c., di quattro quesiti di diritto, nei primi tre dei quali si chiede, rispettivamente, se il giudice adito sia obbligato a pronunziarsi in ordine ad un proposto intervento volontario, se, venuto a conoscenza della pendenza di altro processo connesso pendente davanti al medesimo ufficio sia obbligato o meno ad adottare i provvedimenti finalizzati all’eventuale riunione, se la mancata adozione dei provvedimenti suddetti costituisca o meno motivo di nullità della sentenza; con il quarto quesito si chiede stabilirsi se l’omessa pronunzia, da parte del giudice di appello, della nullità della sentenza di primo grado, a cagione delle omissioni di cui sopra, integri o meno i vizi di cui all’art. 360 co. I n. 5 o 4 c.p.c.

Al primo dei tre quesiti deve darsi risposta positiva, considerata la chiarezza ed inderogabilità dell’art. 272 c.p.c., che impone al giudice di provvedere sulle questioni relative all’intervento insieme al merito della causa, a meno che non ritenga di doverle decidere separatamente ai sensi dell’art. 187 c.p.c.; conseguentemente positiva è la risposta al terzo quesito, nella parte concernente l’intervento, configurandosi, nel caso in cui siano state del tutto ignorate, come nella specie, le richieste dell’interveniente, la violazione del principio processuale di cui all’art. 112 c.p.c., imponente al giudice di pronunziarsi su tutte le domande proposte dalle parti in causa, tali dovendo considerarsi anche gli intervenienti.

Non altrettanto deve ritenersi – e pertanto si fornisce risposta negativa al secondo quesito e alla conseguente residua parte del terzo – quanto alla mancata riunione dei giudizi connessi, attesa la discrezionalità dei relativi provvedimenti ordinatori rimessi all’insindacabile valutazione del giudice di merito, a termini della costante giurisprudenza di legittimità, in considerazione della quale l’omessa riunione, non risolvendosi nella violazione delle garanzie del contraddittorio o della difesa, ma solo comportando eventuali inconvenienti derivanti dalla possibilità di eventuali pronunzie contrastanti, in relazione alle quali il sistema appresta adeguati rimedi (come quello della sospensione del giudizio, che nella specie risulta essere stata disposta nell’altra causa connessa alla presente), non dà luogo a nullità della decisione (v. tra le altre, S.U. 5210/94, Cass. 4695/99, 9638/99, 778/01); ne consegue ulteriormente, quanto al quarto quesito nella parte relativa alla questione della connessione, che da nessun vizio è affetta la sentenza di appello che non abbia, come nella specie, dichiarato la nullità della sentenza di primo grado.

Il giudice di appello è invece tenuto – ed in tali limiti si fornisce risposta positiva al quarto quesito – a rilevare il vizio di omessa pronunzia in ordine alle domande proposte dall’interveniente, la cui sussistenza comporta la nullità in parte de qua per violazione del sopra citato principio di cui all’art. 112 c.p.c., della sentenza di primo grado. Ma tale nullità, non integrando alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 354 c.p.c., in cospetto delle quali è prevista la regressione del processo in primo grado, comporta soltanto che il giudice di secondo sia tenuto a pronunziarsi nel merito sulle relative questioni, come nella specie è avvenuto. Conseguentemente del tutto irrilevante deve ritenersi nel caso in esame la mancata espressa declaratoria, da parte del tribunale, della nullità della sentenza pretorile appellata, nella parte in cui aveva omesso di pronunziarsi sull’intervento, posto che il secondo giudice, dopo aver puntualmente rilevato che il primo era incorso in tale omissione, pur non dichiarando expressis verbis la relativa nullità, è correttamente passato all’esame del merito della domanda proposta dall’intervenuta, dichiarandola infondata sulla base non solo delle risultanze istruttorie acquisite direttamente, ma anche di quelle (evidentemente prodotte in copia da tale parte) provenienti dalla causa connessa (poi sospesa); quest’ultima valutazione evidenzia anche l’infondatezza del profilo di censura secondo cui il convincimento del giudice sarebbe stato fondato su esame parziale dei fatti di causa, non tenendo conto delle prove addotte a sostegno della domanda dell’intervenuta.

Il motivo d’impugnazione va, conclusivamente e per le considerazioni che precedono, respinto.

Con il secondo motivo di ricorso vengono dedotte violazione ed errata applicazione degli artt. 1140, 1141, 1158 e 2164 c.c., nonché dei “canoni legali di interpretazione del contratto”, oltre a contraddittorietà di motivazione, censurandosi la conferma dell’accoglimento della domanda degli Evoli e, per converso, il rigetto della domanda dell’intervenuta Baccillieri.

Tale decisione partirebbe dall’erroneo presupposto che il Barbaro, con il compromesso del 28.6.1956, avrebbe acquisito il possesso dei fondi, sì da poterlo poi trasferire alla moglie ed al cognato, mentre invece con tale atto egli aveva soltanto ricevuto la detenzione dei beni in questione quale promissario acquirente, peraltro per conto di Filippa e Domenico Evoli, comunque esercitando sugli stessi un potere di fatto soltanto nomine alieno, cui non aveva fatto seguito alcun atto d’interversione, idoneo a mutare il titolo ai sensi dell’art. 1142 co. 2 c.c., punto sul quale la motivazione sarebbe carente e contraddittoria.

Viceversa sarebbe stata la Baccillieri, la cui qualità di colona era risultata sfornita di prove, a manifestare la propria inequivocabile intenzione di possedere il fondo da lei goduto, la particella n. 17, coltivandolo, recintandolo e costruendo sullo stesso anche una casa di abitazione, attività quest’ultima che, pur nell’ipotesi di originaria detenzione, avrebbe comunque integrato gli estremi dell’interversione della stessa in possesso; tali circostanze immotivatamente non sarebbero state prese in considerazione dal giudice di appello. Il motivo, che si conclude con la formulazione di tre pertinenti quesiti di diritto in ordine, rispettivamente, alla qualificazione del potere di fatto esercitato dal promissario acquirente sul bene ricevuto dal promittente venditore, alla conseguente necessità di individuare, ai fini della configurabilità del possesso, un successivo atto d’interversione, all’idoneità, a tal fine, dell’attività costruttiva posta in essere da altro autonomo detentore, è fondato nei limiti di seguito precisati e va accolto per quanto di ragione.

In conformità, anzitutto, al principio enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 7930 del 27.3.2008, dal quale questo collegio non ravvisa ragioni per doversi discostare, la decisione impugnata deve essere cassata nella parte in cui ha ritenuto che la consegna del fondo, avvenuta nell’anno 1956, in occasione di un contratto preliminare di compravendita, stipulato per sé o per persona da nominare, da tale Paolo Barbaro, dante causa degli Evoli, potesse di per sé integrare l’attribuzione di un possesso (poi trasmesso agli attori, odierni resistenti), come tale utile alla successiva acquisizione della proprietà per usucapione. La sopra citata pronunzia, dirimendo un contrasto da tempo insorto nella giurisprudenza di legittimità, ha chiarito come la disponibilità del bene oggetto di compromesso, in virtù della consegna avvenuta in occasione della stipulazione del contratto preliminare, sia qualificabile detenzione, poiché il promissario acquirente esercita tale godimento in virtù di un titolo meramente obbligatorio, non ancora traslativo del diritto reale corrispondente, in funzione ed in previsione del futuro trasferimento, implicante il necessario riconoscimento (tale da escludere la sussistenza dell’elemento psicologico del possesso) dell’appartenenza del bene, fino al momento della prevista stipulazione del contratto definitivo, alla controparte promittente venditrice.

Dalla risposta, nei termini sopra precisati, al primo quesito, deriva quella positiva al secondo, posto che la disponibilità materiale del bene compromesso, quand’anche protratta nel tempo, continua a considerarsi detenzione, ove non intervengano fatti nuovi idonei ex art. 1141 co. 2 c.c. a determinare, per fatto proveniente dal terzo o per opposizione espressa nei confronti del possessore, il mutamento della stessa in possesso, con la conseguenza che in difetto di siffatta interversione non sussiste la possibilità di avvalersene ai fini dell’usucapione. Nella sentenza impugnata, che ha dichiarato gli Evoli proprietari di parti distinte del fondo, per averne i medesimi conseguito la disponibilità da parte del Barbaro, promissario acquirente che l’aveva a sua volta ricevuto nel 1956 dai proprietari Guggino-Assumma, non vi è alcun cenno ad atti d’interversione, tali da palesare da parte degli uni o degli altri nei confronti dei promittenti venditori o dei loro aventi causa, l’intenzione di possedere esclusivamente uti domini e non più in previsione della prevista stipulazione del contratto definitivo, il bene in questione o parti dello stesso; non correttamente, pertanto, è stata dichiarata, sulla base di tale mera situazione di fatto, l’usucapione ad oggetto del fondo.

Passando all’esame dei rimanenti profili di censura, attinenti alla natura del potere di fatto esercitato dalla Baccillieri su una parte del fondo (quella censita in catasto quale particella n. 17), le doglianze vanno disattese, nella parte in cui lamentano l’indebita ed immotivata qualificazione in termini di colonia agraria dell’iniziale titolo in base al quale la suddetta ne godeva. Le censure al riguardo attengono ad un accertamento di fatto, adeguatamente motivato dal giudice di merito, il quale si è attenuto alle risultanze testimoniali acquisite, non solo nel giudizio di primo grado,ma anche in quello, parallelo e poi sospeso, instaurato dalla Baccillieri contro i Guggino-Assumma, univocamente convergenti nel senso di un godimento originariamente concesso dai suddetti proprietari ad una stretta congiunta dell’odierna ricorrente (tale “zia Peppina”, detta “a mangarusa”),e successivamente da quest’ultima proseguito, la cui natura, poco o punto rilevando l’esatta qualificazione giuridica (se di affitto o colonia o di semplice comodato) del rapporto (che si lamenta non accertata dal giudice di merito), comunque non avrebbe potuto integrare gli estremi del possesso, costituendo invece una detenzione, al più qualificata, promanando il potere di fatto esercitato sul bene da concessione dei proprietari; ed altrettanto incensurabile, in quanto basata su una ragionevole presunzione di continuità derivante dal rapporto di stretta parentela e di convivenza, deve ritenersi la qualificazione in termini analoghi del potere di fatto esercitato, sempre con il consenso dei proprietari, sul medesimo bene dalla Baccillieri successivamente alla morte della suddetta congiunta.

Fondato invece, nei sensi di seguito precisati, è il profilo di censura con il quale si lamenta la mancata valutazione, quale atto idoneo a mutare la detenzione in possesso, dell’attività edificatoria compiuta sul fondo dalla Baccillieri.

Ribadito, a tal proposito, il principio più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale “la interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di attività materiali, se esse manifestino in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente “nomine proprio”, vantando per sé il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa” (v. Cass. 2ª, n. 12968/06, in fattispecie nella quale l’originario detentore aveva realizzato una costruzione sul fondo ed il giudice di merito non aveva apprezzato, ai suddetti fini, tale attività, nonché, tra le altre precedenti, Cass. 2ª n. 1802/95, in fattispecie relativa alla realizzazione di una strada sul fondo detenuto), deve rilevarsi che a tal riguardo non appagante, alla luce del suddetto principio, risulta la sbrigativa affermazione, non ulteriormente motivata dal giudice d’appello, secondo cui “rilevanza alcuna sembra poi assumere la circostanza che al limite del terreno in questione vi era una casetta coperta a tegole abitata dalla zia Peppina e che la stessa demolita dalla Baccillieri sia stata poi ricostruita in cemento armato”. Tale intervento, ove comportante la costruzione di un organismo edilizio nuovo, rispetto a quello preesistente, e posto in essere di esclusiva iniziativa della detentrice, senza il consenso, quanto meno tacito, dei proprietari, i soli legittimati al compimento di attività edificatorie sul fondo, quand’anche concesso in affitto o colonia (titoli abilitanti a soli interventi connessi allo sfruttamento agricolo del predio), si risolverebbe infatti nell’inequivoca e palese esternazione di pretese dominicali sul bene, trascendenti i limiti della detenzione, sia pur qualificata, ed incompatibili con il possesso del titolare del diritto reale, come tali idonee ad integrare gli estremi di un atto d’interversione, comportante il mutamento della detenzione in possesso ai sensi dell’art. 1141 co. 2 cod. civ.

In tali limiti e con le suddette precisazioni, dunque, si fornisce risposta positiva al terzo quesito.

La sentenza impugnata va, conclusivamente, cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio per nuovo esame alla Corte d’Appello di Reggio Calabria, giudice di secondo grado attualmente competente, cui si demanda anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, ne accoglie nei limiti di cui in motivazione il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Reggio Calabria.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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