Cass. pen., sez. I 27-11-2008 (18-11-2008), n. 44332 Procedimento di prevenzione patrimoniale già definito

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

IN FATTO ED IN DIRITTO
con sentenza del 3.4.2001 A.S. veniva condannato dalla Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria perchè giudicato colpevole del reato di cui all’art. 416 bis c.p. ed è allo stato in espiazione della pena dell’ergastolo in seguito al provvedimento di cumulo adottato il 7.6.2002.
In seguito agli esperiti accertamenti, in data (OMISSIS) il Procuratore Generale presso la Corte di Appello reggina chiedeva al giudice dell’esecuzione il sequestro e la confisca dei beni del predetto condannato, invocando l’applicazione della disciplina di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies.
Il giudice adito, con procedura de plano, rigettava la domanda, che veniva impugnata con ricorso di legittimità da questa Corte qualificato quale opposizione. Gli atti venivano pertanto restituiti per l’espletamento della fase camerale, all’esito della quale, in data 15.2.2008, il giudice di merito replicava, motivatamente, il precedente rigetto.
Assumeva il giudice a qua che sugli stessi beni di cui alla richiesta della pubblica accusa risultavano prodotte due richieste di misura di prevenzione patrimoniale, l’una del 1985 e l’altra del 1997 e che entrambe le domande erano state rigettate perchè accertata la lecita provenienza dei beni. Su tale dato di fatto lo stesso giudice rilevava la formazione di una preclusione processuale, che soltanto l’accertamento ovvero l’allegazione di fatti nuovi poteva superare.
Si faceva carico altresì il giudice dell’esecuzione del rilievo che la fonte normativa a sostegno delle domande di prevenzione, quella in esame, fondata sul D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies e quelle innanzi richiamate, è diversa, ma ne sottolineava, a confutazione dell’argomento, la identità della quaestio decidendo data dalla liceità o meno della provenienza dei beni.
Avverso detto provvedimento propone ricorso per cassazione il P.G. presso la Corte distrettuale del capoluogo calabrese chiedendone l’annullamento perchè viziato, a suo avviso, da violazione di legge e difetto di motivazione.
Deduce in particolare il procuratore ricorrente, sotto il profilo della violazione di legge, che la disciplina applicata nell’ambito delle procedure passate e precisamente quella portata dalla L. n. 575 del 1965, art. 2 ter e quella la cui applicazione viene invocata con la domanda rigettata, regolata dal D.L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies sono discipline del tutto diverse, dappoichè distinte nella qualità del sostegno probatorio richiesto, nei requisiti necessari per l’adozione dei provvedimenti di prevenzione patrimoniale contemplati e nelle autorità giudiziarie funzionalmente competenti (Tribunale di prevenzione e Giudice dell’esecuzione).
Con un secondo motivo di doglianza denuncia il procuratore ricorrente il difetto di motivazione del provvedimento impugnato laddove omette, secondo prospettazione della parte, di dare conto delle risorse utilizzate dal condannato per l’acquisto dei beni oggetto della richiesta di confisca.
Con motivata requisitoria scritta il P.G. presso questa Corte ha concluso per il rigetto del ricorso, sostanzialmente aderendo alle conclusioni impugnate, peraltro sostenute con più adeguata ed apprezzabile motivazione.
Il ricorso non può essere condiviso.
Ritiene il Collegio, infatti, di aderire alla tesi giuridica con coerenza argomentativa illustrata dal P.G. in sede.
Ed invero la doglianza in esame pone la questione di diritto circa la compatibilità processuale ed i rapporti tra pronunce di prevenzione patrimoniale adottate nell’ambito del processo di prevenzione ovvero del processo di esecuzione, eppertanto tra le discipline di cui alla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter da una parte e di cui al D.L. 08 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, convertito con modificazioni nella L. 07 agosto 1992, n. 356, dall’altra.
Al fine di enucleare sul punto la giusta regola di diritto, giova prendere le mosse, ripercorrendo l’iter logico proposto dal rappresentante della pubblica accusa in sede, dalla nozione di "preclusione processuale", così come essa risulta enucleata dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha autorevolmente affermato che una questione già decisa, per le esigenze di certezza del diritto e di funzionalità della giurisdizione, non può formare oggetto di nuova cognizione, salva l’ipotesi di deduzione di fatti nuovi modificativi della situazione già in precedenza delibata (Cass., Sez. Un. 31.03.1999, Liddi) pur dovendosi escludere la sovrapponibilità del concetto di preclusione processuale con l’istituto del "giudicato", dappoichè munita la prima di una efficacia più ristretta rispetto al secondo (sul punto dissente il Collegio dalle contrarie affermazioni del P.G.).
Alla preclusione pertanto occorre far riferimento in tema di misure di prevenzione nella ipotesi di loro reiterate applicazioni su medesimi beni, stante "la natura della decisione che le applica, inidonea a determinare un giudicato in senso proprio (Cass., Sez. Un., 13.12.2000, n. 36, est. Gemelli).
Nella fattispecie in esame peraltro viene rappresentata l’ipotesi di misure inserite nell’ambito di procedimenti giudiziari diversi, l’uno riferito al processo di prevenzione e l’altro al processo di esecuzione, di guisa che pregiudiziale per la decisione del Collegio si appalesa la questione se la preclusione processuale possa legittimamente essere invocata anche in tali casi.
Al pari del giudicato, di cui appare un cerchio concentrico di dimensioni minori, la prevenzione non può non avere natura di principio generale dell’ordinamento processuale, di guisa che legittima appare la sua applicazione anche in ipotesi di moduli procedimentali non identici (opportunamente il P.G. in sede ha al riguardo richiamato gli effetti preclusivi del procedimento di cognizione su quello esecutivo, ovvero gli effetti preclusivi del procedimento incidentale in materia di libertà personale sul procedimento principale ai sensi dell’art. 405 c.p.p., comma 1 bis).
La concreta operatività dell’effetto preclusivo nella particolare ipotesi di cui si discetta, va però connessa alla ricorrenza di particolari condizioni: i processi devono coinvolgere le stesse parti e gli stessi beni, i contenuti della cognizione devono essere omogenei, le finalità giuridiche comuni (ciò che il P.G. in sede ha sintetizzato nella formula della eadem ratio) identico il thema decidendum.
Ad avviso del Collegio le indicate condizioni ricorrono tutte.
In entrambe le procedure qui esaminate le parti sono identiche ed identici sono i beni immobili oggetto dei procedimenti.
In entrambe le procedure, poi, il provvedimento finale è dato dalla confisca dei beni, collegato al dato fattuale della mancanza di giustificazione in ordine alla loro legittima provenienza.
Il confronto tra due pronunce di questa Corte, l’una riferita alla L. n. 575 del 1965, art. 2 ter e l’altro al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies dimostrano all’evidenza la fondatezza di questa identità strutturale; con riferimento, all’art. 2 ter citato, infatti: "Ai fini dell’applicabilità della misura della confisca di beni patrimoniali nella disponibilità di persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, è sufficiente che sussistano una sproporzione tra le disponibilità e i redditi denunciati dal proposto ovvero indizi idonei a lasciar desumere in modo fondato che i beni dei quali si chiede la confisca costituiscano il reimpiego dei proventi di attività illecite e che il proposto non sia riuscito a dimostrare la legittima provenienza del danaro utilizzato per l’acquisto di tali beni. Ne deriva che al riguardo non si verifica alcuna inversione dell’onere della prova, perchè la legge ricollega a fatti sintomatici la presunzione di illecita provenienza dei beni e non alla mancata allegazione della loro lecita provenienza, la cui dimostrazione è idonea a superare quella presunzione " (Cass. pen., Sez. 5, 12/12/2007, n. 228).
Per l’art. 12 sexies citato, del tutto analogamente: " La condanna per uno dei reati indicali nel D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, commi 1 e 2, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 1992, n. 356 (modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa) comporta la confisca dei beni nella disponibilità del condannato, allorchè, da un lato, sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e il valore economico di detti beni e, dall’altro, non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi. Di talchè, essendo irrilevante il requisito della "pertinenzialità" del bene rispetto al reato per cui si è proceduto, la confisca dei singoli beni non è esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna o che il loro valore superi il provento del medesimo reato" (Cass., Sez. Un., 17/12/2003, n. 920).
Tanto premesso, può allora affermarsi il principio che, in presenza di provvedimento di confisca adottato in forza della L. n. 575 del 1965, art. 2 ter opera il principio della preclusione processuale allorchè per gli stessi beni ed in danno della stessa persona si dia corso al procedimento per la confisca disciplinato dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies convertito in L. n. 356 del 1992, in mancanza di deduzione di fatti nuovi modificativi della situazione definita. Nel caso in esame dappoichè tale ultimo dato e cioè che rispetto all’accertamento della legittima provenienza dei beni dell’ A., accertamento eseguito nell’ambito dei procedimenti di prevenzione attivati ai sensi dell’art. 2 ter citato negli anni 1983 e 1985, non è intervenuto alcun fatto nuovo (il dato è incontroverso) in applicazione del predetto principio di diritto deve ritenersi giuridicamente corretta la pronuncia impugnata.
Il ricorso va pertanto rigettato.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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