Corte di Cassazione, sez. III Penale, Sentenza 19 Ottobre 2010 , n. 37197 Reati su soggetti deboli Molestie sessuali: la dipendente incastra il capo con immagini rubate

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 ottobre 2010, n. 37197
Motivi della decisione
Con querele del 9 agosto e 10 ottobre 2008, D.I. esponeva di essere oggetto di vessazioni, molestie, complimenti lascivi e costretta a subire atti sessuali da parte del proprio datore di lavoro, L.C., sotto la minaccia di perdere il posto.
In esito a tali querele, si instaurava un procedimento terminato con la sentenza 21 gennaio 2010 con la quale il Giudice per la udienza preliminare del Tribunale di Trani dichiarava non luogo a procedere nei confronti di L.C. (in relazione ai reati continuati di violenza privata aggravata a violenza sessuale) con la formula “perché i fatti non sussistono”.
A sostegno della conclusione il Giudice ha rilevato:
– che la videoregistrazione ambientale 4 ottobre 2007, effettuata dalla donna su accordo della Polizia, era inutilizzabile perché compiuta oltre il termine della autorizzazione e non considerabile come prova atipica;
– che ugualmente inutilizzabili erano le dichiarazioni di persone informate sui fatti ed il confronto tra l’imputato e la D. perché poste in essere dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari;
– che in base alla unica fonte di prova rimasta utilizzabile, le dichiarazioni della D., non era configurabile il reato previsto dall’art. 610 cp;
– che per i delitti sessuali la querela era tempestiva solo per l’episodio del 4 ottobre 2007 non inserito nel capo di imputazione.
Per l’annullamento della sentenza, ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica e la D. deducendo difetto di motivazione e violazione di legge.
Nei ricorsi, parzialmente di contenuto comune, è stato dedotto:
– che la inutilizzabilità degli atti disposti dopo la scadenza delle indagini non è rilevabile di ufficio e nessuna parte ha sollevato la relativa eccezione;
– che la videoregistrazione del 4 ottobre 2007, effettuata da un soggetto non estraneo al colloquio, è da considerarsi come prova documentale: comunque, l’accertamento del reato sessuale commesso in quel giorno è recuperabile dalle dichiarazioni della parte lesa;
– che il Pubblico Ministero ha promosso l’azione penale, a sensi degli artt. 405 e 447 cpp, per cui tutte le investigazioni effettuate erano utilizzabili;
– che, pur non dovuto, è stato dato all’imputato l’avviso di chiusura delle indagini e gli atti compiuti successivamente sono utilizzabili perché il Pubblico Ministero ha provveduto a rinnovare l’avviso ex art. 415 bis cpp;
– che le credibili dichiarazioni della donna corroborate da quelle di persone informate sui fatti, rendono necessario il rinvio alla fase dibattimentale;
– che, dal contenuto della querela, emergono gli estremi del reato di violenza privata, che rende procedibile di ufficio il connesso delitto previsto dall’art. 81 cpv, 609 bis cp.
Le conclusioni del Giudice non sono condivisibili pur se per ragioni parzialmente diverse da quelle prospettate negli atti di ricorso.
La udienza preliminare, nella configurazione assunta per effetto delle innovazioni introdotte con la L. 479/1999, ha modificato, ma non perduto, la sua originaria funzione di filtro; l’art. 425 c. 3 cpp prevede che il Giudice sia tenuto a pronunciare una sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori oppure non idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
A tale fine, deve essere effettuata una prognosi sulla superfluità del dibattimento avendo come referente non solo le emergenze agli atti, ma quelle presumibilmente acquisibili nella fase
dibattimentale e valutare se gli elementi probatori, insufficienti o contraddittori, dei quali si dispone, possano trasformarsi in piene prove all’esito della dialettica tra le parti processuali.
Se tale prognosi è negativa, per esigenze di tutela dell’imputato e per ragioni di economia processuale, deve essere pronunciata sentenza a sensi dell’art. 425 cpp.
Nel caso in esame, il Giudice ha articolato la sua motivazione non dando conto, in modo esaustivo e congruo, delle ragioni che rendevano inutilizzabile parte del compendio istruttorio acquisito e dei motivi che inibivano il vaglio della fase dibattimentale in relazione alla fonte di prova dichiarata utilizzabile. Di conseguenza, il Giudice non ha correttamente effettuato il ruolo di controllo che la legge gli demanda.
Innanzi tutto, contrariamente a quanto si legge nel gravato provvedimento, l’azione penale era procedibile perché esistevano le querele della parte lesa del 9 agosto e del 10 ottobre 2007 (relativa ad un episodio del 4 ottobre compreso nel capo di imputazione).
Le dichiarazioni della D. erano, sia pure parzialmente, confortate da quelle di persone informate sui fatti che il Giudice ha reputato inutilizzabili perché rese oltre il termine non prorogato delle indagini preliminari (che scadeva il 9 febbraio 2008).
La riferita conclusione del provvedimento impugnato non soddisfa per un duplice ordine di ragioni.
Il Giudice non ha tenuto conto che le persone informate sui fatti ben potevano essere sentite al dibattimento, trattandosi di prove dichiarative ripetibili, per cui il Tribunale ragionevolmente avrebbe potuto disporre di ulteriori elementi, oltre alle asserzioni della D., a favore delle dichiarazioni della stessa; inoltre, il Giudice non ha esplicitato le ragioni che rendevano inattendibile, anzi calunnioso, il racconto accusatorio della donna.
Sul tema, va ricordato che le asserzioni della parte lesa, se immuni da sospetti, possono da sole sorreggere una declaratoria di condanna non essendo richiesto per tale dichiarante il conforto di riscontri esterni.
La conclusione, inoltre, non è puntuale in fatto in quanto il Pubblico Ministero ha esercitato l’azione penale il 17 dicembre 2007, con uno dei mezzi tipici previsti, cioè, formulando l’imputazione e chiedendo l’applicazione di pena. Indi, ha inviato (in data 17 maggio 2008) un avviso di conclusione delle indagini che si erano già esaurite con l’inizio della irrettrattabile azione penale; l’atto non era dovuto e dal suo invio non possono trarsi le conclusioni evidenziate dai ricorrenti.
L’avviso a sensi dell’art. 415 bis cpp non è necessario se l’azione penale è esercitata con la richiesta del rito speciale pattizio della applicazione di pena su sollecitazione delle parti che impone cadenze processuali diverse da quelle poste alla base della disposizione dell’art. 415 bis cpp.
Ciò posto, necessita verificare l’utilizzabilità da parte del Giudice della istruzione probatoria effettuata dal Pubblico Ministero in epoca successiva al 17 dicembre 2007.
L’attività investigativa può non fermarsi con l’inizio della azione penale in quanto l’organo della accusa è facoltizzato a svolgere ulteriori indagini integrative dopo la richiesta di rinvio a giudizio come emerge dall’art. 419 c. 3 cpp; anche se la norma non lo esplicita, si deve ritenere, in applicazione analogica dell’art. 430 cpp, che tali investigazioni non siano espletabili per atti per i quali è necessaria la partecipazione dell’imputato o del suo Difensore.
Nel caso che ci occupa, il Pubblico Ministero ha trasmesso al Giudice documentazioni di indagini poste in essere anteriormente alla richiesta di rinvio a giudizio (del 4 febbraio 2009); questa irregolarità (per la quale non è prevista una specifica sanzione processuale) non dà luogo a inutilizzabilità dal momento che non è stato violato un espresso divieto probatorio.
Si potrebbe, tuttavia, ipotizzare una menomazione dei diritti della difesa nel caso fosse mancata la possibilità al Legale di avere una completa visione, necessaria per puntualizzare la strategia processuale, degli atti di indagine compresi i suppletivi (v. art. 419 c. 2 cpp); trattasi, comunque, di nullità non rilevabile di ufficio e non dedotta dall’imputato.
Pertanto, non è condivisibile la conclusione del censurato provvedimento secondo la quale tutte le attività investigative erano inutilizzabili; a parere della Corte, per quanto riferito, le dichiarazioni di persone informate sui fatti non erano affette da tale patologia processuale.
In merito alla videoregistrazione, le decisioni della Corte Costituzionale (n. 135/2002, n. 149/2008, n. 320/2009) e delle Sezioni Unite (n. 36747/2003, n. 26795/2006) forniscono i parametri ermeneutici per la risoluzione del caso.
Deve, innanzi tutto, puntualizzarsi che la registrazione – effettuata d’intesa con la Polizia non fuori, ma nell’ambito del procedimento ed in funzione dello stesso – non costituisce un documento a sensi dell’art. 234 cpp.
Per verificare se la registrazione contrasti con l’assetto normativo o con diritti fondamentali, necessita fondarsi sulla differenza tra riprese visive di atti non comunicativi e di atti comunicativi; questi ultimi sono finalizzati a trasmettere il contenuto di un pensiero con la parola, i gesti, le espressioni fisiognomiche o altri atteggiamenti idonei a manifestarlo.
Le riprese di comportamenti comunicativi costituiscono una forma di captazione di messaggi tra presenti e, pertanto, devono considerarsi intercettazioni e ne ricalcano analogicamente la relativa disciplina pena la elusione di formalità stabilite a garanzia di diritti costituzionalmente garantiti.
Le videoregistrazioni di immagini non comunicative (mere condotte) disposte dalla Polizia nel corso delle indagini in luoghi non fruenti di particolare protezione (pubblici, aperti o esposti al pubblico) devono essere qualificate come documentazione della attività investigativa, che non richiede un provvedimento della autorità giudiziaria, e sono utilizzabili come prove atipiche disciplinate dall’art. 189 cpp.
Tale conclusione non vale (per l’assenza di una normativa che lo consenta) per le videoregistrazioni effettuate in luoghi riconducibili al concetto di domicilio e meritevoli di tutela a sensi dell’art. 14 Cost.
Nella ipotesi concreta, vi è stata una ripresa di immagini comunicative (inutilizzabili per carenza del necessario provvedimento autorizzatorio) e non comunicative captate in un appartamento (adibito a studio professionale) dove si svolgevano manifestazioni di vita privata e che è ricompreso nell’ambito della nozione di domicilio. La singolarità che il caso introduce si incentra nella circostanza che le riprese sono state effettuate da persona che era protagonista dell’episodio, verso la quale il suo interlocutore non aveva lo jus excludendi, perché si trovava nel suo abituale ambiente di lavoro che costituiva il suo domicilio per un periodo di tempo limitato della giornata (nell’arco del quale sono stati commessi i fatti).
Con la ripresa visiva, sia pure eseguita furtivamente, la parte lesa non ha violato con interferenze indebite la intangibilità del domicilio né la necessaria riservatezza su attività che si devono mantenere nell’ambito privato essendo, si ripete, nel suo domicilio e riprendendo illeciti che la riguardavano.
La mancata violazione della tutela prevista dall’art. 14 Cost. supera la problematica, sulla quale esistono variegate opinioni, inerente alla necessità di un provvedimento autorizzatorio anche per le riprese visive di comportamenti non comunicativi in luoghi di privata dimora. Consegue che, nella specie, non essendo configurabile alcuna intrusione nell’altrui domicilio, la videoripresa, almeno per quanto concerne la fissazione degli atti non comunicativi, è da considerarsi prova atipica; la conclusione del gravato provvedimento sulla totale inutilizzabilità della videoregistrazione non è condivisibile.
Per le esposte considerazioni, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Trani perché il nuovo Giudice riconsideri se gli elementi probatori disponibili meritino l’approfondimento della fase dibattimentale; questa conclusione, per il suo carattere assorbente, esonera il Collegio dal prendere in considerazione le residue censure degli atti di ricorso.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Trani.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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