Cassazione penale 34521/2010 Tutto su responsabilità del medico e consenso!

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Sezione prima: le sentenze di merito e i ricorsi.

1. La sentenza di primo grado. Il quadro generale.

La Corte d’assise di Roma, con sentenza 12 novembre 2007, ha dichiarato H.C. – primario e dirigente medico presso l’azienda ospedaliera (OMISSIS) – colpevole del delitto di omicidio colposo (così derubricata l’originaria imputazione di omicidio preterintenzionale) in danno di TO. F. deceduta in (OMISSIS) (capo A) e l’ha condannato alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione.

Con la medesima sentenza H.C., L.M.M. e M.A. sono stati dichiarati responsabili del delitto di omicidio colposo in danno di E.M., deceduta in (OMISSIS) (capo C), e condannati alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ( H.) e alla pena di mesi otto di reclusione ciascuno ( L. e M.).

I giudici di primo grado hanno inoltre assolto dal delitto di cui al già indicato capo C D.P. e I.D. per non aver commesso il fatto e condannato gli imputati dei quali è stata affermata la penale responsabilità al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili oltre alla rifusione delle spese in favore delle medesime.

I giudici di primo grado riferiscono della instaurazione di questo processo originato da una prima denunzia del dott. A. V., medico chirurgo presso la struttura ospedaliera indicata, cui aveva fatto seguito altra denuncia da parte di altri sedici chirurghi del medesimo ospedale.

In queste denunce si riferiva che il dott. H. avrebbe introdotto una pratica generalizzata di "trattamenti chirurgici assolutamente sproporzionati, se non inutili"; in particolare, secondo i denunzianti, l’imputato aveva assicurato ai reparti – non si comprende in base a quali basi prognostiche – un certo numero di duodenocefalopancreasectomie (DCPA), cioè dell’intervento più costoso, difficile e demolitivo della chirurgia gastroduodenale.

Si riferiva nella denunzia del dott. A. che gli interventi erano spesso inutili, che di essi non veniva fornita alcuna spiegazione e che in alcuni casi neppure erano stati richiesti, o eseguiti, gli esami istologici.

Il dott. H. spesso filmava i suoi interventi ricavandone videocassette che portava ai convegni e vendeva tramite Internet.

Il denunziante riferiva ancora che in sala operatoria era quasi sempre presente un rappresentante della società " (OMISSIS)" produttrice di costosi strumenti di chirurgia endoscopica di cui l’imputato era fautore.

Il denunziante ricordava, tra i casi di inutili interventi demolitivi, quelli della paziente AP.RI. operata di DCPA (con asportazione anche di parte dello stomaco e del fegato) malgrado in sala operatoria fosse pervenuto l’esito dell’esame istologico da cui risultava che la paziente non era affetta da cancro alla colecisti (come confermato da quasi tutti i medici sentiti come testimoni).

Quello della paziente P.M. operata per una neoplasia alla testa del pancreas malgrado fosse affetta da una banale calcolosi.

In entrambi i casi nelle cartelle cliniche era stato falsamente attestato che le pazienti erano affette da neoplasie.

Tra gli altri casi si indicavano ancora quello di una cittadina indiana, D.B., operata di DCPA malgrado non avesse alcun tumore e deceduta per le conseguenze dell’intervento (caso confermato da numerosi testimoni).

E così altri pazienti ( S.J., BR.FR., C.E., deceduto) operati di DCPA malgrado non fossero affetti da alcuna forma tumorale.

In altri casi erano stati eseguiti interventi inutilmente demolitivi ( AN.GI. e TO.FE., cui si riferisce il presente processo).

La Corte di primo grado riferisce poi delle dichiarazioni rese in dibattimento dai medici, chirurghi e anestesisti, dell’ospedale (OMISSIS) (anche non firmatari della denunzia) che hanno sostanzialmente confermato, per quanto era a conoscenza di ciascuno, le dichiarazioni di A. riferendo anche di casi per i quali non ricordavano i nomi dei pazienti ma nei confronti dei quali il dott. H. aveva proceduto in modo analogo.

Numerosi tra di loro avevano chiesto il trasferimento in altri reparti e riferivano che, duranti i turni di guardia (che venivano effettuati anche per i pazienti del dott. H.), riscontravano spesso discrepanze tra le patologie dei pazienti e gli interventi chirurgici praticati con la conseguenza che si erano resi necessari numerosi reinterventi.

I testimoni ricordavano anche il caso della "figlia di un urologo" deceduta a seguito dell’intervento (teste F.), di un ragazzo di circa 25 anni, operato in altro ospedale per un tumore al testicolo e rioperato da H. con l’asportazione dei linfonodi non indicata per questo tipo di tumori (testi CI., CO.), di un paziente non vedente affetto da una semplice pancreatite e sottoposto a DCPA (testi LA., CA., FR.), di una donna in età fertile che, pur avendo solo un’infiammazione all’ovaio, fu sottoposta ad asportazione di utero e ovaie (teste LA.), di una paziente ( T.F.) alla quale fu asportato parzialmente il fegato in assenza di qualunque necessità (testi CI., CA., ma., AN.).

Un testimone (il dott. LU.) ha riferito anche che il dott. H. si vantava di portare un budget più cospicuo alla direzione aziendale.

La sentenza di primo grado riferisce anche della deposizione di uno dei firmatari dell’esposto, il dott. B.B., che, in dibattimento, aveva smentito il contenuto della denuncia sottoscritta insieme ai colleghi per poi ammettere che gli era stata dettata da H. una lettera, dal contenuto non veritiero, con cui, in buona sostanza, ammetteva che nei confronti dell’imputato era stato progettato un "complotto".

Significative sono anche le dichiarazioni di medici anestesisti.

La dott. N.P. ha riferito che con il dott. H. accadeva molto più spesso che con gli altri chirurghi che i pazienti avessero una peritonite acuta e dovessero essere rioperati; ha ricordato il caso di una paziente rioperata nel suo stesso letto per morire poche ore dopo; ha ribadito che spesso si operavano persone senza gli esami preliminari e senza che venisse fatta la pulizia dell’intestino con le conseguenze che ne derivavano.

La dott. TO.AN. (che non aveva firmato l’esposto) riferiva invece del rifiuto di H., nel caso di pazienti rioperati, di trasferirli in terapia intensiva.

Del resto la sentenza riporta le dichiarazioni del prof. PU., primario presso altra divisione di chirurgia, che pretese che, in caso di necessità, i pazienti venissero rioperati dai chirurghi della medesima divisione e riferisce che H. era riuscito ad ottenere di utilizzare in via esclusiva un reparto di rianimazione e terapia intensiva.

La sentenza di primo grado ricorda ancora che nell’udienza preliminare erano stati nominati alcuni periti i quali avevano confermato che in numerosi casi (praticamente tutti quelli indicati negli esposti presentati dai medici: la sentenza cita i casi GI., AP., PO., C., S., BR.) erano stati eseguiti interventi chirurgici inutilmente demolitivi (in particolare le DCPA) e si ricorda nella sentenza come uno dei periti aveva affermato di non poter neppure prendere in considerazione la circostanza che le scelte fossero operate in base al prezzo dell’intervento (il perito si è così espresso testualmente: "una laparotomia costa mille lire, una DCPA costa venti milioni, per modo di dire. Non vorrei che l’indicazione scaturisse da altre indicazioni che non fossero quelle cliniche" (v. p. 22 della sentenza di primo grado).

Inquietanti sono le conclusioni che il primo giudice trae all’esito dell’istruzione dibattimentale ritenendo che "fosse prassi diffusa quella di non effettuare esami istologici intraoperatori o, peggio, di non tener conto dei loro risultati eseguendo interventi, come le numerose DCPA, altamente demolitivi, rischiosi in sè e per le possibili successive complicanze, costosi e fortemente peggiorativi della qualità della vita dei pazienti; fidandosi (?) esclusivamente della sua esperienza o del suo senso tattile H. diagnosticava cancri inesistenti (come dimostrato dagli istologici definitivi) e demoliva, nonostante i pareri e gli inviti a desistere dei chirurghi presenti". 2. I casi TO.Fe. e E..

Passando all’esame dei due casi oggetto del presente processo la Corte d’assise riferisce che la paziente TO.FE., di anni 27, era stata ricoverata presso l’ospedale (OMISSIS) proveniente dall’ospedale di (OMISSIS) in provincia di Modena.

Il pomeriggio del giorno successivo la paziente fu operata dal dott. H. senza che ai familiari venisse data alcuna spiegazione e in assenza di ragioni di urgenza.

Poche ore prima dell’intervento era stata fatta una paracentesi con l’asportazione di 4,8 litri di liquido dall’addome e l’analisi aveva escluso la presenza di cellule tumorali.

La sentenza riferisce che, dopo l’intervento chirurgico, risulta annotata nella cartella clinica la presenza di un "emoperitoneo massivo".

Il 7 aprile successivo la donna fu dimessa ma dopo due giorni, per l’aggravamento delle condizioni, fu nuovamente ricoverata e il (OMISSIS) successivo decedette.

La Corte ha ritenuto che H. avesse sottoposto la paziente TO.Fe. ad un intervento altamente demolitivo con asportazione di organi vitali (intestino, utero e annessi, una parte della vescica, linfonodi retroperitoneali) in mancanza di urgenza e di diagnosi certa trattandosi inoltre di intervento non indicato e non adeguato alla patologia da cui la paziente era affetta (linfoma di Burkitt) cagionandone la morte.

Pur ritenendo che esistessero molteplici indizi della dolosità della condotta il primo giudice ha ritenuto che il fatto andasse qualificato come omicidio colposo e non come omicidio preterintenzionale.

Per quanto riguarda l’altra paziente i tre medici imputati sono stati ritenuti responsabili dell’indicato reato di omicidio colposo quanto a H. per aver proseguito un intervento di colecistectomia in laparoscopia (eseguito il (OMISSIS)) nonostante le difficoltà incontrate provocando alla paziente la perforazione di un’ansa ileale (non contrastata adeguatamente neppure nei successivi interventi del (OMISSIS)) e ritardando colposamente la diagnosi di peritonite diffusa postoperatoria cui conseguiva la morte di E.M.; e quanto a M. e L. per avere, nei successivi interventi del (OMISSIS), praticato un inidoneo intervento di anastomosi anzichè un intervento di ileostomia che avrebbe bloccato la progressione della peritonite.

All’esito H. è stato condannato alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione per l’omicidio colposo in danno di TO. F.; per l’omicidio colposo in danno di E.M. sono stati invece condannati H. (alla pena di anni uno e mesi sei), L. e M. (ciascuno alla pena di mesi otto di reclusione).

Tutti gli imputati sono stati inoltre condannati al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.

I giudici di primo grado hanno invece ritenuto che alcun addebito di colpa fosse invece ravvisabile nei confronti dei medici D. P. e I.D. i quali avevano partecipato al primo intervento e, appena resisi conto delle difficoltà che questo presentava, si erano fermati chiedendo l’intervento del primario alla cui decisione esclusiva era da ricondurre la scelta di proseguire l’intervento in laparoscopia; scelta cui è riconducibile la successione degli eventi che hanno condotto a morte la paziente.

3. La sentenza d’appello.

La Corte d’assise d’appello di Roma, con sentenza 23 aprile 2009 – giudicando sugli appelli proposti dal procuratore generale della Repubblica presso la medesima Corte, dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma e dai difensori degli imputati condannati ha così provveduto:

ha confermato la qualificazione come omicidio colposo del reato in danno di TO.FE. contestato al solo H.;

ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di H. (in ordine al delitto di omicidio colposo in danno di TO. F.) e nei confronti del medesimo H., di L.M. M. e di M.A. (in ordine al delitto di omicidio colposo in danno di E.M.) per essere i reati medesimi estinti per prescrizione;

ha respinto nel resto gli appelli proposti (compresi quelli nei confronti di D. e I.) confermando in particolare le statuizioni civili adottate dal primo giudice.

Quanto al caso TO.Fe. la Corte di merito ha rilevato che la colpa di H. era ravvisabile nella circostanza che l’imputato aveva proceduto ad un intervento chirurgico in laparotomia (con incisione lunga circa 40 cm.) per una patologia (linfoma di Burkitt) curabile esclusivamente con una terapia farmacologia e non chirurgica e procedendo ad un’inutile asportazione dell’intestino e di altri organi della paziente deceduta venticinque giorni dopo in conseguenza dell’intervento.

Ha poi ritenuto infondata la tesi dell’imputato che l’incisione fosse stata fatta per accertare la natura del linfoma ed escluso il fondamento della tesi dell’imputato secondo cui il successivo intervento demolitivo si era reso necessario per la presenza di un emoperitoneo massivo.

La Corte ha però escluso che l’imputato potesse aver agito per fini diversi da quelli terapeutici e ha valutato che egli si fosse trovato in una situazione in cui – rendendosi conto di aver sbagliato diagnosi e non potendo tornare indietro – "ha dovuto intervenire pesantemente per limitare i danni".

Ha dunque ritenuto che non potesse ritenersi provata l’esistenza del dolo diretto, idoneo a configurare l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale, e che quindi ci si trovasse in presenza di un’ipotesi colposa dichiarando conseguentemente estinto il reato per prescrizione.

Analogamente – per quanto riguarda l’intervento di colecistectomia per via laparoscopica eseguito nei confronti di E.M. poi deceduta a seguito di questo intervento – la Corte di secondo grado ha confermato la valutazione del primo giudice sull’esistenza della colpa a carico di H., L. e M. dichiarando però estinto per prescrizione anche questo reato; ha rigettato l’appello del pubblico ministero nei confronti delle assoluzioni di D. e I..

4. Il ricorso del procuratore generale.

Contro la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma.

Con il primo motivo il ricorrente deduce l’erronea applicazione della legge penale sulla qualificazione giuridica del reato nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata anche in riferimento a specifici atti che vengono indicati.

Secondo il ricorrente la giustificazione dell’imputato secondo cui l’intervento si era reso necessario per la presenza di un emoperitoneo massivo e la successiva asportazione degli organi interni era dovuta ad un sanguinamento "a nappo" non altrimenti dominabile – sarebbe smentita da tutti gli accertamenti compiuti nel processo che hanno escluso la presenza dell’emoperitoneo e hanno comunque concluso che il sanguinamento (se esistente) poteva essere altrimenti contrastato.

Tutto ciò, del resto, è riconosciuto dalla sentenza impugnata.

Vero è, invece, che acquisiti i risultati dell’esame istologico, l’intervento non doveva essere proseguito. Va dunque esclusa la finalità terapeutica essendo stato, l’intervento, compiuto nella piena consapevolezza di compiere un atto "non indicato e incongruo per la patologia della paziente"; dal che consegue che "sussistono sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo del dolo diretto del delitto di lesioni".

E il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità che ipotizza la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale nei casi in cui il medico sottoponga il paziente ad un’inutile mutuazione.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce invece, con riferimento alla derubricazione del delitto contestato a H. da omicidio preterintenzionale a omicidio colposo, la mancanza di motivazione, la sua manifesta illogicità e la contraddittorietà anche con specifici atti che vengono indicati.

Il ricorrente ricorda che già la sentenza di primo grado aveva evidenziato i "molteplici indizi di dolosità" nella condotta di H. e come questi già anticipatamente si fosse rappresentato l’evento lesivo dannoso.

Ciò è confermato dalla circostanza che H. portò in sala operatoria la paziente senza che la diagnosi di cancro all’ovaio avesse trovato alcuna conferma ed anzi fosse smentita sia dalla giovane età della paziente sia dal primo esame di paracentesi che aveva escluso la presenza di cellule neoplastiche.

I buoni valori della coagulazione dimostravano poi – ammesso che si fosse verificato un sanguinamento intraoperatorio – che questa evenienza ben avrebbe potuto essere contrastata senza l’asportazione degli organi.

Nel ricorso viene riportata la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui esclude il dolo diretto di lesioni e se ne denunzia l’illogicità e contraddittorietà sul rilievo che l’imputato, nel momento in cui ha avuto certezza che non esisteva il cancro all’ovaio, ha coscientemente portato a termine l’intervento programmato pur certo della sua inutilità determinando quindi volontariamente l’esito lesivo dell’integrità fisica della paziente.

Manifestamente illogiche sarebbero poi le affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, secondo cui l’imputato "non potendo tornare indietro………ha dovuto intervenire pesantemente" e quella secondo cui un primo risultato sarebbe stato ottenuto perchè la paziente non era deceduta subito.

Dunque se anche potesse ritenersi gravemente imprudente la scelta di intervenire chirurgicamente con quelle modalità la decisione di proseguire l’intervento con le modalità già descritte – quando l’agente era certo che l’intervento era ingiustificato -non è più addebitabile a colpa.

Il ricorrente indica poi gli atti del processo dai quali emergerebbe la fondatezza dei motivi di appello non presi in considerazione dai giudici di secondo grado.

In particolare:

1) la relazione del perito da cui risulta che l’intervento chirurgico non trovava alcuna motivazione;

2) i passi dell’esame del perito che confermerebbero l’inesistenza di ragioni per procedere all’intervento;

3) alcuni passi dell’esame del consulente del p.m. che confermano che la terapia del linfoma di Burkitt è solo farmacologia;

4) gli atti dai quali emerge che alcuna emorragia si era verificata e che comunque, se si fosse verificata, avrebbe dovuto essere contrastata con metodi diversi;

5) la deposizione del teste A., presente in sala operatoria, che ha riferito che, nel momento in cui si era avuta la notizia che si trattava di un linfoma, aveva espresso la valutazione che l’intervento era da considerare terminato.

Con la conclusione che avrebbe dovuto essere ravvisato il contestato delitto di omicidio preterintenzionale.

Con il terzo motivo il ricorrente censura invece la sentenza della Corte d’assise d’appello per mancanza di motivazione sui motivi di appello proposti contro l’assoluzione, da parte del primo giudice, degli imputati D.P. e I.D. dal delitto di omicidio colposo in danno di E.M.; motivi di appello per nulla esaminati e dei quali nel ricorso si sintetizzano i punti significativi.

Infine si chiede che la Corte provveda alla correzione dell’errore materiale in cui è incorsa la Corte d’Assise d’appello laddove, nel dispositivo, ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di omicidio colposo commesso dall’imputato M. erroneamente indicando, invece di quest’ultimo, il nome di D..

5. Il ricorso di H.C..

Con il primo motivo del ricorso da lui proposto H.C. deduce il vizio di motivazione, con riferimento all’imputazione relativa al decesso di TO.FE., non essendo stata provata l’esistenza del rapporto di causalità tra la sua condotta e l’evento mortale ricollegabile invece alla patologia da cui la paziente era affetta.

D’altro canto non vi è alcuna prova, secondo il ricorrente, che, se anche tempestivamente somministrata, la chemioterapia (che peraltro avrebbe potuto essere iniziata sei giorni dopo l’intervento effettuato dall’imputato) avrebbe evitato il decesso o lo avrebbe dilazionato.

Si osserva poi, nel ricorso, che gli stessi consulenti del p.m. hanno ritenuto l’esistenza dell’emoperitoneo massivo che rendeva urgente e necessario l’intervento chirurgico immotivatamente ritenuto inutile dalla sentenza impugnata e si sottolinea ancora come la mancata esecuzione dell’autopsia renda comunque incerto l’accertamento della causa della morte.

Nel ricorso si riportano quindi gli orientamenti giurisprudenziali in tema di accertamento del rapporto di causalità e si sottolinea che la sentenza impugnata si sarebbe discostata da questa linea interpretativa – facendo proprio un diverso concetto di causalità di tipo probabilistico – e non tenendo alcun conto, in particolare, della presenza di accertati fattori alternativi ed in particolare della presenza del linfoma di Burkitt che, già al momento del ricovero, si trovava in un elevato stadio di progressione; ciò faceva ritenere infausta la prognosi e rendeva ragionevole il dubbio che la condotta del ricorrente avesse avuto efficienza causale sul verificarsi dell’evento.

Con il secondo motivo di ricorso si denunzia invece il vizio di motivazione, sempre con riferimento all’imputazione di cui al capo A), e si contesta che possa essere ritenuta esistente la colpa del ricorrente.

Quanto al primo elemento di colpa ritenuto dai giudici di appello (l’esecuzione della laparotomia per fini diagnostici) rileva il ricorrente che questo intervento è stato eseguito per avere una diagnosi certa che, fino a quel momento, non era stata effettuata.

Il subentrare dell’emoperitoneo massivo (la cui presenza è immotivatamente negata dalla sentenza: e il ricorrente indica gli atti che confermano invece la sua presenza) aveva poi reso necessaria la prosecuzione dell’intervento per salvare la vita della paziente.

Di tutti gli elementi significativi per l’accoglimento di ipotesi alternative il giudice di secondo grado non ha tenuto alcun conto incorrendo quindi nel vizio di motivazione.

Con il terzo motivo di ricorso si deduce invece il vizio di violazione di legge con riferimento alla mancata applicazione dell’art. 129 c.p.p.; secondo il ricorrente alla data di pronunzia della sentenza di primo grado (12 novembre 2007) il termine di prescrizione di anni sette e mezzo previsto dalla L. n. 251 del 2005 era già decorso.

Il primo giudice avrebbe quindi dovuto dichiarare estinto il reato per tale causa e non avrebbe potuto condannare l’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

Di qui l’erroneità della sentenza di appello che, dopo aver applicato la prescrizione, ha confermato le statuizioni civili.

Con il quarto motivo si denunzia invece la violazione dell’art. 606, lett. d) del codice di rito per la mancata assunzione di una prova decisiva.

Il ricorrente aveva affermato di aver consultato il prof. ME., primario oncologo ematologo, che gli aveva consigliato "di togliere tutto ciò che sanguinava".

Questa circostanza è stata confermata dalla dott. PO. ma il primo giudice non l’ha ritenuta vera.

L’imputato aveva quindi chiesto, con i motivi di appello, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per poter escutere il prof. ME. ma la Corte di secondo grado alcuna risposta ha dato a questa richiesta: dal che discende anche il vizio di motivazione denunziato con il quinto motivo.

Con il sesto motivo si denunzia invece, per violazione di norma processuale e in relazione al reato di cui al capo C (omicidio colposo in danno di E.M.), la mancanza di contestazione con conseguente violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p..

Al ricorrente, subentrato nel corso dell’intervento, era stato contestato di aver proseguito l’intervento per via laparoscopica malgrado le difficoltà che si erano evidenziate; H. invece è stato condannato, con violazione del suo diritto di difesa, per aver scelto il tipo di intervento (scelta che, in realtà, era stata dei medici L. e M.) e per non aver vigilato sull’esecuzione dell’intervento senza che neppure si accertasse se l’imputato fosse presente in sala operatoria.

Al relativo motivo di appello la Corte di merito non ha fornito alcuna risposta.

La censura forma oggetto, sotto il profilo del vizio di motivazione, anche del settimo motivo di ricorso.

Con l’ottavo motivo di ricorso si censura invece la sentenza impugnata per violazione di legge sempre in relazione al decesso di E.M..

La sentenza di appello non ha esaminato i motivi di appello proposti contro la sentenza di primo grado limitandosi a rinviare alle motivazioni in essa contenute.

In particolare il giudice di secondo grado avrebbe confermato la valutazione del primo giudice che aveva escluso che la morte della paziente fosse dovuta ad una broncopolmonite – e non alla peritonite – malgrado l’evidenza probatoria in questo senso e malgrado l’esito dell’esame anatomo patologico che non fa alcun riferimento alla peritonite mentre evidenzia la presenza della broncopolmonite.

Il ricorrente indica poi le ragioni che rendevano quanto meno dubbia l’esistenza di controindicazioni all’esecuzione dell’intervento per via laparotomica ma evidenzia anche le ragioni in base alle quali la complicanza, dovuta a caso fortuito, non era riconoscibile durante l’intervento chirurgico.

Del resto tutti gli esami eseguiti nei giorni successivi all’intervento non evidenziavano la presenza di segnali che potessero far sospettare l’esistenza della peritonite per cui è anche da dubitare che la medesima sia riferibile all’intervento operatorio del (OMISSIS).

In conclusione non esiste alcuna prova che la paziente sia deceduta (il (OMISSIS)) in conseguenza dell’intervento operatorio del (OMISSIS) o della inidonea trattazione della patologia nel periodo seguente.

Ciò in particolare perchè il decesso è dovuto ad una broncopolmonite bilaterale che costituisce una fattore alternativo autonomo.

Queste considerazioni formano oggetto anche del nono motivo di ricorso proposto sotto il profilo del vizio di motivazione.

6. Il ricorso di M.A..

Con il ricorso da lui proposto M.A. – nei cui confronti si è proceduto per il solo reato di cui al capo C (decesso di E. M.) – ha dedotto, con il primo motivo, l’assoluta mancanza di motivazione essendosi, la sentenza impugnata, limitata a rinviare alla motivazione contenuta nella sentenza di primo grado e senza che venissero prese in considerazione le censure contenute nei motivi di appello.

Il ricorrente sottolinea che le censure proposte con i motivi di appello non erano generiche nè superficiali avendo M. eccepito di non aver partecipato all’intervento chirurgico del (OMISSIS) e di aver partecipato invece in posizione subordinata (quale aiuto) a quelli del (OMISSIS) successivi.

A questa e ad altre censure (riguardanti le circostanze che la scelta dell’intervento era corretta; che si trattava di scelta decisa dal primario anticipatamente; che difettava il rapporto di causalità tra la sua condotta e l’evento; che l’intervento del (OMISSIS) aveva risolto il problema della peritonite; che la morte della paziente, verificatasi un mese e mezzo dopo l’ultimo intervento, non poteva essere ricollegata alla condotta del ricorrente) i giudici di appello non hanno dato alcuna risposta.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione di legge (art. 129 c.p.p. in riferimento all’art. 589 c.p.).

Il ricorrente riferisce del percorso argomentativo del primo giudice per pervenire all’affermazione della sua responsabilità e precisa che, in base a tutti gli accertamenti svolti egli era rimasto estraneo al trattamento medico chirurgico della paziente fino all’intervento del (OMISSIS).

Peraltro dalle dichiarazioni dei medesimi periti è risultato che erano corretti gli interventi di anastomosi praticati il (OMISSIS).

Errata è poi l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui M. avrebbe dovuto intervenire per fermare un intervento deciso dal primario e dal capo equipe tanto più che non esistevano elementi che rendessero prevedibile la mancata tenuta dei tessuti della paziente.

Si trattava peraltro di un intervento correttamente programmato ed eseguito.

Per quanto riguarda l’esistenza del rapporto di causalità si sottolinea nel ricorso che i periti hanno accertato che nel primo intervento erano state poste in essere condotte imprudenti (per aver proseguito l’intervento per via laparoscopica malgrado le difficoltà evidenziate), negligenti e imprudenti (per aver ritardato il successivo intervento).

Ma alcuna condotta colposa rilevante sul verificarsi dell’evento è stata individuata nei confronti del dott. M..

In particolare, secondo il ricorrente, anche se fosse a lui addebitatane il ritardo nell’eseguire l’ileostomia ( (OMISSIS)), dovrebbe dimostrarsi che questo ritardo di pochi giorni ha causalmente contribuito al verificarsi dell’evento; ma su questo fondamentale aspetto entrambe le sentenze di merito tacciono.

Problema tanto più rilevante essendo stato comunque accertato che l’intervento del (OMISSIS) aveva risolto il problema della peritonite.

7. Il ricorso di L.M.M..

L.M.M., con il primo motivo del ricorso da lui proposto, denunzia la mancanza di motivazione sulla possibilità di applicare l’art. 129 c.p.p. malgrado fosse intervenuta la causa estintiva del reato.

In particolare la Corte di secondo grado non avrebbe tenuto conto della circostanza che, anche in base ai principi enunciati dalla sentenza n. 35490/2009 delle sezioni unite di questa Corte, il giudice di appello che dichiari la prescrizione del reato (per il quale sia stata pronunziata condanna in primo grado) è tenuto, in presenza dell’azione civile, a pronunziare il proscioglimento nel merito anche nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova.

A quest’obbligo è venuto meno il giudice di appello che non ha in nulla esaminato i motivi di appello e la posizione particolare del dott. L. limitandosi ad un generico richiamo alla sentenza di primo grado.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. d) ed e) del codice di rito per mancata assunzione di una prova decisiva e per illogicità della motivazione.

Il ricorrente aveva chiesto, con i motivi di appello, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale avendo ritenuto che il primo giudice avesse travisato i fatti accertati nel giudizio.

Dopo aver riassunto il quadro complessivo nel quale si colloca la morte della E. (una complessiva indagine sorta dalla denunzia di un medico nei confronti del prof. H. che "operava in modo incontrollato, senza una previa attenta valutazione dei casi, così da cagionare lesioni, o addirittura la morte di alcuni pazienti") – per cui il ricorrente si è trovato coinvolto solo per aver partecipato ad uno di questi interventi – nel ricorso si ricostruisce la vicenda precisando che il dott. L. non aveva partecipato al primo intervento (effettuato il (OMISSIS) dai chirurghi I. e D. con l’intervento successivo di H.) e aveva visitato per la prima volta la paziente solo dopo dieci giorni.

Verificato che vi era stato un aggravamento delle condizioni della paziente il ricorrente L. aveva deciso di eseguire una laparotomia esplorativa, eseguita il 24 gennaio, nel corso della quale si rendeva conto della presenza di una peritonite verosimilmente ricollegabile al precedente intervento.

Eseguiva quindi un’anastomosi meccanica ricollegando i tessuti sani.

Il ricorrente seguiva il decorso postoperatorio e poichè, dopo qualche giorno, erano comparse ulteriori complicanze, il (OMISSIS) eseguiva un ulteriore intervento esplorativo riscontrando una parziale deiscenza della sutura meccanica effettuata nel corso del precedente intervento; resecava quindi la precedente anastomosi ed effettuava una nuova anastomosi meccanica.

A seguito di ulteriori complicanze la paziente veniva rioperata il (OMISSIS) dal prof. H. che eseguiva una duplice ileostomia (ano artificiale) e le condizioni della paziente sembravano migliorare fino a che sopravveniva una polmonite che, con varie fasi, la conduceva alla morte.

Il ricorrente sottolinea che le condotte colpose individuate dai consulenti del p.m., che hanno provocato la morte della paziente, sono state la perforazione nel corso del primo intervento e la ritardata diagnosi della medesima.

Ebbene non solo a queste condotte è rimasto estraneo il dott. L. ma addirittura l’efficienza causale delle sue condotte sarebbe stata esclusa non solo dai periti ma anche dalla sentenza di primo grado.

Peraltro la sentenza di primo grado aveva erroneamente interpretato le dichiarazioni di uno dei periti e, nonostante ciò fosse stato rilevato con i motivi di appello, alcuna risposta è stata data sul punto dalla sentenza impugnata.

Parimenti erronea era la ricostruzione della deposizione del teste A. del quale si era chiesto il nuovo esame con un motivo di appello sul quale il giudice di secondo grado non si è espresso in alcun modo.

Con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione di legge in relazione all’esistenza del rapporto di causalità tra la condotta del ricorrente e l’evento verificatosi.

Secondo il ricorrente non sarebbe stata individuata alcuna condotta a lui riferibile che abbia avuto un’efficienza concausale sul verificarsi dell’evento e inoltre il giudizio controfattuale sarebbe stato effettuato con riferimento a condotte cui il dott. L. era estraneo.

Sezione seconda: le conseguenze di natura penale della mancanza del consenso informato nell’esercizio dell’attività professionale medica.

1. Premessa.

I precedenti di legittimità sull’omicidio preterintenzionale.

La formulazione dell’accusa nei confronti del dott. H. e la riproposizione del tema con il ricorso del procuratore generale rendono necessario ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale di legittimità riguardante la possibilità di configurare l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale nel caso di trattamento medico chirurgico eseguito in mancanza di consenso informato.

Le sentenze Massimo (Cass., sez. 5^, 21 aprile 1992 n. 5639, rv.

190113), Barese (sez. 4^, 9 marzo 2001 n. 28132, rv. 222579), Volterrani (sez. 1^, 29 maggio 2002 n. 26446, rv. 222581), e H. (sez. 4^, 16 gennaio 2008 n. 11335, rv. 238967), pronunziate da tre diverse sezioni della Corte di cassazione, costituiscono gli unici precedenti nella giurisprudenza di legittimità che abbiano affrontato il tema della configurabilità dell’omicidio preterintenzionale nel caso di attività medico chirurgica svolta in mancanza del consenso del paziente all’intervento terapeutico (o con un consenso espresso solo per una parte del trattamento in concreto praticato).

L’orientamento più risalente sul tema dell’omicidio preterintenzionale riferito alla responsabilità medica è costituito dalla sentenza 21 aprile 1992, Massimo, della 5^ sezione; questa decisione costituiva espressione di una concezione particolarmente rigorosa ed estensiva sulla possibilità di configurare questa ipotesi di reato nel trattamento medico chirurgico eseguito, con esito infausto, senza il consenso del paziente e aveva ravvisato l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale nel caso di trattamento chirurgico non consentito che aveva provocato la morte della paziente.

E’ opportuno sottolineare come la sentenza individuasse anche elementi di colpa nella condotta del chirurgo evidenziando che l’asportazione di una massa tumorale benigna avrebbe potuto essere effettuata con modalità diverse e meno invalidanti rispetto a quelle praticate (costituite dall’amputazione del retto); modalità comunque ritenute troppo rischiose in riferimento alle condizioni generali della paziente.

Peraltro nella sentenza erano stati individuati gli elementi tipici della fattispecie dell’omicidio preterintenzionale perchè il chirurgo "ebbe, sotto il profilo intellettivo, la rappresentazione dell’evento lesioni e, sotto quello volitivo, l’intenzione diretta a realizzarlo, ebbe cioè consapevole volontà di ledere l’altrui integrità personale senza averne diritto e senza che ve ne fosse necessità".

Insomma la mancanza del consenso, secondo questo orientamento, renderebbe la condotta del chirurgo arbitraria e diretta a ledere consapevolmente l’integrità fisica del paziente non diversamente da colui che cagiona volontariamente a taluno una lesione personale.

La sentenza 9 marzo 2001, Barese, della 4^ sezione, poneva invece limiti più rigorosi alla possibilità di ipotizzare la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale e, pur non escludendola in assoluto (per es. nei casi in cui la morte consegua ad una mutuazione procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito mortale, per scopi esclusivamente scientifici), richiedeva, perchè potesse ritenersi verificata questa ipotesi, l’accertamento dell’esistenza di un dolo dell’agente qualificabile, se non come dolo intenzionale, quanto meno come dolo diretto, e non solo eventuale, e quindi orientato a provocare la lesione dell’integrità fisica del paziente; in mancanza il delitto può essere ritenuto colposo ove ne sussistano i presupposti.

Il caso affrontato nella sentenza Barese è simile a quello esaminato nella sentenza Massimo.

Entrambi sono caratterizzati dalla circostanza che il consenso della paziente era stato espresso per un intervento più limitato (asportazione transanale di un adenoma villoso nel caso Massimo;

asportazione di cisti ovarica nel caso Barese) e non per un intervento demolitivo come quelli poi di fatto praticati con l’asportazione del retto nel primo caso e dell’utero e annessi nel secondo.

Il caso Massimo è caratterizzato, come si è già accennato, anche da imprudenza perchè le condizioni generali della paziente non consentivano un intervento demolitivo di quella natura mentre, nel caso Barese, è stata soprattutto l’imperizia nell’esecuzione dell’intervento (con la resezione dei vasi iliaci esterni) a cagionare la morte della paziente.

Ancora diverso è il caso esaminato nella sentenza 29 maggio 2002, Volterrani, della 1^ sezione, che ha affrontato, anche in questo caso, il tema del consenso del paziente pervenendo a conclusioni diverse dalla sentenza Massimo con la conferma dell’assoluzione del chirurgo che aveva eseguito un intervento non consentito dal paziente che era successivamente deceduto in conseguenza dell’intervento.

Si trattava di un caso nel quale il consenso del paziente era limitato alla riduzione di un’ernia ombelicale e all’esplorazione della cavità addominale.

Nel corso dell’intervento era stata constatata la presenza di un tumore maligno e il chirurgo aveva provveduto alla sua asportazione con un intervento di particolare complessità.

La differenza fondamentale di questo caso con quelli Massimo e Barese è costituita dalla circostanza che, nel caso Volterrani, i giudici di merito – e la Corte di cassazione ha ritenuto esente da vizi di motivazione la formulazione di questo giudizio – hanno escluso ogni elemento di colpa nell’esecuzione dell’intervento, ritenuto eseguito nella perfetta osservanza delle leges artis, e hanno ricollegato il decesso a complicanze non prevedibili e non evitabili.

Rispetto alla sentenza Barese la sentenza Volterrani, in parte anticipando l’orientamento delle sezioni unite cui si farà cenno più avanti, contiene una esplicita riaffermazione dell’incompatibilità logico giuridica tra la volontarietà dell’atto lesivo – su cui si fonda l’ipotesi del delitto preterintenzionale – e l’intervento del medico che, anche in assenza di consenso, e purchè non vi sia un esplicito dissenso, trova comunque una legittimazione in se stesso.

Questa ricostruzione conduce ad escludere che il fatto possa essere astrattamente inquadrato in una fattispecie di reato (in questo senso il giudice di legittimità ha corretto la motivazione della Corte di merito che aveva ravvisato l’esimente dello stato di necessità).

La più recente sentenza H. (pronunziata nei confronti del medesimo odierno imputato) riprende, sviluppandole, le considerazioni svolte nella sentenza Barese.

2. Altri precedenti di legittimità sul consenso informato.

E’ utile, per il confronto sui temi indicati, esaminare anche la sentenza Cass., 11 luglio 2001, Firenzani, relativa ad un caso in cui la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di condanna, per il reato di lesioni colpose, del medico chirurgo che aveva eseguito un intervento di meniscectomia sul ginocchio sbagliato.

La sentenza affronta anch’essa il problema del consenso e lo risolve, anche con il richiamo alle affermazioni contenute nella sentenza Massimo, affermando che il consenso del paziente costituisce un presupposto di liceità del trattamento medico chirurgico.

E’ da sottolineare, in questa decisione, l’affermazione – su cui le sezioni unite esprimeranno un netto dissenso – secondo cui "il reato di lesioni sussiste anche quando il trattamento arbitrario eseguito a scopo terapeutico abbia esito favorevole, e la condotta del chirurgo nell’intervento sia di per sè immune da ogni addebito di colpa".

La Corte ha poi ritenuto che il criterio di imputazione soggettiva debba invece essere di natura colposa "qualora il sanitario, in assenza di valido consenso dell’ammalato, abbia effettuato l’intervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, della esistenza del consenso".

Ipotesi che è stata ritenuta esistente nella fattispecie esaminata e che si ricollega alla tesi cui si accennerà più avanti secondo cui la mancata (o erronea) acquisizione del consenso informato, costituisce violazione di una regola cautelare.

Il consenso del paziente costituisce il problema affrontato dalla sentenza della 4^ sezione della Corte di legittimità, 27 marzo 2001, Cicarelli, in un caso nel quale il consenso riguardava l’anestesia (il paziente aveva manifestato il proprio dissenso per l’anestesia parziale – il cui primo tentativo era stato infruttuoso – e il medico aveva praticato quella generale cui erano conseguite complicazioni che avevano provocato la morte del paziente).

Parimenti nella sentenza della sez. 4^ 24 giugno 2008 n. 37077, Ruocco, rv. 240963 (relativa alla somministrazione di farmaci off label cioè per scopi diversi da quelli per i quali il farmaco è indicato) si ribadisce che il consenso del paziente è requisito di liceità del trattamento medico chirurgico.

Il valore che la giurisprudenza attribuisce al diritto di autodeterminarsi del paziente – che comprende anche il diritto di rifiutare le cure – rende ovvia la conclusione che alcun addebito può essere mosso al medico nel caso di rifiuto cosciente del paziente di ricoverarsi o comunque di essere sottoposto a terapie (in questo senso si vedano le recenti Cass., sez. 4^, 4 luglio 2005 n. 38852, Da Re, e 23 gennaio 2008 n. 16375, Di Domenica, rv. 239806).

3. La sentenza delle sezioni unite sul consenso informato.

Il fatto tipico e l’ipotesi della violenza privata.

Come è agevole verificare dal variegato panorama descritto il tema fondamentale, affrontato in tutti i provvedimenti in precedenza indicati, è costituito dalle conseguenze della mancanza di consenso del paziente alle terapie medico chirurgiche che gli vengano somministrate.

Ma da questo sommario esame della giurisprudenza emergono, anche se non sempre vengono esplicitate, le ragioni di dissenso sugli effetti di natura penale della mancanza di consenso informato.

Questo dissenso riguarda anzitutto la tipicità del fatto ma si estende anche alla nozione giuridica di malattia.

Le sezioni unite si sono preoccupate anzitutto di escludere la possibilità di ravvisare, nel trattamento non consentito, il fatto tipico del delitto di violenza privata che era stato ritenuto nel caso esaminato dai giudici di merito che avevano così riqualificato il reato di lesioni volontarie gravi originariamente contestato peraltro seguendo un orientamento sostenuto da alcuni autori.

Secondo i sostenitori di questa tesi la mancata acquisizione del consenso integrerebbe il reato di violenza privata sotto il profilo della violenza consistente nel costringere il paziente a tollerare il trattamento non consentito (in particolare, è ovvio, il trattamento chirurgico).

E’ stato posto in luce in più occasioni come sia problematico inquadrare la condotta di cui ci occupiamo nell’ipotesi prevista dall’art. 610 c.p.: si è infatti sottolineato come difetti, in questi casi, la coartazione psichica del soggetto passivo escludendosi quindi anche l’ipotesi della violenza ed, "impropria" (ravvisabile nei casi di uso di quei mezzi, diversi dalla minaccia e non riconducibili al mero esercizio della violenza fisica, che siano comunque idonei a coartare la volontà della persona offesa).

E analogamente si è escluso che le condotte in esame potessero integrare l’ipotesi di reato prevista dall’art. 613 c.p. (stato di incapacità procurato mediante violenza) perchè, nel caso di intervento praticato senza il consenso del paziente, difetta una condotta mirante a provocare uno stato di incapacità d’intendere e di volere; perchè la condotta sanzionata dall’art. 613 c.p. mira a limitare la capacità di intendere e di volere – e non alla soppressione della coscienza – e infine perchè la mancanza di consenso è riferita allo stato di incapacità e non al successivo intervento.

Può ancora ricordarsi che – se si opta per la fattispecie della violenza privata – l’evento dannoso (che in questo caso può essere costituito anche dalle lesioni e non solo dal decesso) potrebbe, secondo un orientamento dottrinale, essere addebitato all’agente come conseguenza del primo delitto ai sensi dell’art. 586 c.p..

Le sezioni unite della Corte di cassazione, nella sentenza 18 dicembre 2008 n. 2437, Giulini, rv. 241752, hanno preso nettamente le distanze da questa impostazione criticando espressamente l’orientamento dottrinario che lo esprime.

La sentenza condivide la tesi secondo cui il delitto di violenza privata può essere integrato anche con la sola violenza "impropria" ma esclude che possa ipotizzarsi la violenza richiesta dalla fattispecie criminosa in esame perchè l’atto violento (e la sentenza opta per una concezione della violenza consistente in un’aggressione "fisica" cioè nell’aggressione ai beni "più direttamente attinenti alla dimensione fisica della persona, quali la vita, l’integrità fisica o la libertà di movimento del soggetto passivo") si esaurirebbe nello stesso atto operatorio; difetterebbe quindi l’evento ulteriore che la violenza è diretta a realizzare.

E, anche per quanto riguarda il requisito della "costrizione", nel caso del paziente anestetizzato, le sezioni unite sottolineano che questo requisito difetta perchè, trattandosi di una condizione di "incapacitazione" del paziente, non può parlarsi di una costrizione della sua volontà postulando, il concetto di costrizione, il dissenso della vittima.

Una conferma dell’esattezza di questa tesi la sentenza la trae dall’esame della fattispecie, ritenuta strutturalmente "omologa", prevista dall’art. 609 bis c.p. nella quale il legislatore ha ritenuto necessario equiparare espressamente l’ipotesi della costrizione a subire, con violenza e minaccia, atti sessuali, a quella di chi commette i medesimi atti "abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa".

Ipotesi peraltro espressamente prevista, anche per il trattamento medico chirurgico, in progetti di legge delega per l’approvazione di un nuovo codice penale (per es. il progetto PAGLIARO); ciò che confermerebbe la tesi dell’attuale mancanza di disciplina normativa della fattispecie.

4. Il fatto tipico del delitto di lesioni volontarie.

Si è già visto che il diverso presupposto teorico su cui si fondano le differenze fondamentali ravvisabili nell’impostazione del problema di cui è portatrice la sentenza Volterrani – rispetto a tutte le altre decisioni in precedenza ricordate – è costituito dalla circostanza che, in questa decisione, il consenso non viene concepito come scriminante (o comunque come condotta del paziente che legittima l’attività medico chirurgica) ma, si afferma nella sentenza, l’attività medico chirurgica, per la sua utilità sociale riconosciuta dall’ordinamento, si autolegittima.

Questa ricostruzione conduce inevitabilmente a ritenere irrilevante il problema dell’esistenza di eventuali scriminanti (in particolare, è ovvio, il consenso dell’avente diritto ma anche lo stato di necessità o l’adempimento di un dovere) perchè esclude in radice che la condotta del medico che intervenga in mancanza di consenso possa corrispondere alla fattispecie astratta del reato di lesioni volontarie (tant’è vero che la sentenza Volterrani, lo si è già visto, corregge la sentenza impugnata che aveva applicato la causa di non punibilità dello stato di necessità).

La conclusione, non del tutto esplicitata nella sentenza Volterrani, è dunque che questa condotta difetti della tipicità corrispondente al reato di lesioni volontarie e che non possa essere inquadrata in una qualsiasi fattispecie penalmente sanzionata.

Il fondamento giustificativo di questa impostazione viene individuato nella utilità sociale riconosciuta all’attività medico chirurgica.

La tesi è stata sottoposta a critica in dottrina essendosi sostenuto che il problema non è costituito dal riconoscimento dell’utilità sociale dell’attività medico chirurgica, e dal riconoscimento del suo svolgimento da parte dello Stato, ma dei limiti e delle regole entro i quali deve svolgersi e si è osservato che anche altre attività (per es. quella di polizia) sono riconosciute di altissima utilità sociale ma non per questo coloro che utilizzano le facoltà e i poteri riconosciuti nello svolgimento di queste attività non sono perseguibili qualora non osservino le regole e i vincoli previsti.

Sotto diverso profilo si è osservato come questa impostazione, laddove si fonda sulla concezione di un intervento obbligato (addirittura "forzato") del medico, valga ad ampliare a dismisura l’obbligo di intervento del medico che deve essere posto in essere anche in mancanza di consenso.

La citata sentenza 18 dicembre 2008 delle sezioni unite, Giulini, ha affrontato il tema con particolare approfondimento pervenendo a conclusioni sostanzialmente conformi a quelle della sentenza Volterrani anche se il percorso argomentativo è diverso (in particolare non viene attribuito, nella decisione, valore decisivo al concetto di "autolegittimazione" nè viene individuato nell’utilità sociale il fondamento di tale autolegittimazione del medico nello svolgimento dell’attività medico chirurgica).

Dopo un’ampia premessa – nella quale si sottolineano il valore costituzionale della libertà di autodeterminazione del paziente e si ricordano i numerosi trattati internazionali che confermano il valore e l’inderogabilità della necessità del consenso – si evidenzia nella sentenza l’esistenza di numerosi codici di autoregolamentazione che hanno confermato questi principi.

L’affermazione che costituisce il nucleo della decisione, quando viene affrontato il tema specifico devoluto all’esame delle sezioni unite, è costituito dall’esclusione (con i limiti di cui si dirà) che il trattamento medico chirurgico praticato in mancanza di consenso informato del paziente possa integrare la fattispecie tipica del delitto di lesioni volontarie.

Il ragionamento, particolarmente complesso e che pertanto è opportuno riportare integralmente, parte da un presupposto ritenuto assolutamente incontestabile.

Si evidenzia infatti, nella sentenza, "la sostanziale incompatibilità concettuale che è possibile cogliere tra lo svolgimento della attività sanitaria, in genere, e medico chirurgica in specie, e l’elemento soggettivo che deve sussistere perchè possa ritenersi integrato il delitto di lesioni volontarie.

Una condotta "istituzionalmente" rivolta a curare e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel "male".

Ciò non esclude, però, secondo le sezioni unite, "che l’atto chirurgico integri – ove isolato dal contesto del trattamento medico- terapeutico – la tipicità del fatto lesivo, rispetto al quale l’antigiuridicità non può che ricondursi alla disamina del corretto piano relazionale tra medico e paziente: in una parola, al consenso informato, che compone la "istituzionalità" della condotta "strumentale" del chirurgo, costretto a "ledere" per "curare".

Il versante problematico si sposterebbe dunque, secondo la decisione in esame, "dalla antigiuridicità, derivante dal mancato consenso al diverso tipo di intervento chirurgico in origine assentito, alla "tipicità" delle lesioni dell’intervento in sè e delle conseguenze che da tale intervento sono scaturite: giacchè, se l’atto operatorio ha in definitiva prodotto non un danno, ma un beneficio per la salute, è proprio la tipicità del fatto, sub specie di conformità al modello delineato dall’art. 582 c.p., a venire in discussione".

Le sezioni unite non si nascondono che il paziente può avere un’idea diversa rispetto a quella del medico sul concetto del suo benessere ma ritengono che ciò non consenta di pervenire a soluzioni diverse e che sia devoluto al legislatore disciplinare questi aspetti.

Queste conclusioni rappresentano dunque una presa di distanza dall’orientamento dottrinale che (pur non nascondendosi le implicazioni dell’esito fausto sull’offensività del fatto) ritiene che ciò che rileva, per i fini che interessano, è che sia stata provocata un’offesa alla salute da ritenersi già integrata dalla sofferenza conseguente all’atto operatorio che solo il paziente "potrà decidere di accettare in funzione dei benefici che da questa sofferenza potranno derivargli".

La conseguenza di questa impostazione del problema – rifiutata dalle sezioni unite – era che, in difetto del consenso, la fattispecie configurabile doveva essere ritenuta quella delle lesioni volontarie.

Questa impostazione era attenuata dall’Autore che l’ha proposta – non insensibile alle conseguenze di queste conclusioni nel caso di decesso del paziente da cui discende che possa configurarsi l’omicidio preterintenzionale e quindi la correttezza della soluzione adottata nella sentenza Massimo – il quale ribadiva peraltro il suo giudizio negativo sul prevalente orientamento giurisprudenziale che addebita all’agente l’evento a titolo di responsabilità oggettiva senza neppure richiedere la colpa (questa impostazione del problema avrebbe condotto a ritenere l’esistenza dell’omicidio preterintenzionale nel caso Barese nel quale l’evento era stato cagionato da condotta imperita).

5. La nozione di malattia.

Era stato rilevato, già prima della sentenza delle sezioni unite, che le decisioni di legittimità in precedenza ricordate affrontavano solo implicitamente il tema della definizione di malattia; se debba cioè intendersi la malattia come mera lesione dell’integrità fisica – e in questo caso il mero atto operatorio è idoneo a creare una situazione qualificabile malattia – ovvero se potesse qualificarsi malattia solo una menomazione funzionale dell’integrità fisica.

Le sezioni unite hanno dichiaratamente ricollegato la soluzione adottata – sulla riconducibilità al "tipo" del delitto di lesioni dell’intervento chirurgico non consentito – accogliendo una definizione di "malattia" assolutamente prevalente in dottrina ma che solo recentemente ha trovato un maggior consenso nella giurisprudenza di legittimità con l’accoglimento di una nozione di malattia che fa riferimento non all’esistenza di una semplice alterazione anatomica ma al caso di menomazione funzionale o di significativo processo patologico.

Il ragionamento delle sezioni unite si articola sui seguenti passaggi: se l’intervento chirurgico è stato eseguito nel rispetto delle leges artis e con esito fausto non potrà proprio configurarsi la malattia essendo stato aumentato il benessere del paziente.

La malattia non può, infatti, consistere nella mera alterazione anatomica del corpo del paziente ma è necessario che, all’esito del trattamento, residui un processo patologico o una menomazione funzionale che, nel caso di esito fausto, non esiste.

Insomma, nel caso di trattamento terapeutico non consentito se l’esito è fausto difetta proprio l’evento del delitto di lesioni volontarie (che invece sarebbe presente se la malattia consistesse nella mera alterazione anatomica provocata dall’intervento chirurgico).

Più specificamente: "le "conseguenze" dell’intervento chirurgico ed i correlativi profili di responsabilità, nei vari settori dell’ordinamento, non potranno coincidere con l’atto operatorio in sè e con le "lesioni" che esso "naturalisticamente" comporta, ma con gli esiti che quell’intervento ha determinato sul piano complessivo della salute".

L’esclusione della riconducibilità al "tipo" della condotta in questione attenua anche il rilievo del consenso sotto il profilo soggettivo: solo nel caso in cui si intenda la lesione come mera lesione anatomica, si può ritenere che la lesione sia "voluta" dall’agente – seppure per migliorare la situazione patologica da cui è affetto il paziente – mentre, se per malattia deve intendersi la menomazione funzionale, è difficilmente ipotizzabile che essa possa costituire, in linea di massima, oggetto della volizione del medico.

Viene dunque espressamente rifiutata la concezione di malattia accolta, per es., dalla sentenza Firenzani che aveva espressamente ritenuto che la menomazione dell’integrità fisica potesse essere costituita dal mero atto operatorio (ma in quel caso è necessario considerare la specificità del caso: un paziente va a farsi operare un ginocchio e gli operano l’altro!.

E’ possibile parlare di esito fausto anche se l’operazione è perfettamente riuscita?. E come è possibile escludere che, in quel caso, l’intervento già costituisca una menomazione – certamente colposa ma non voluta e non richiesta – dell’integrità fisica del paziente?).

Le sezioni unite hanno fornito una risposta a questo problema aderendo ad un orientamento minoritario della giurisprudenza di legittimità (v. Cass., sez. 4^, 19 marzo 2008 n. 17505, Pagnani, rv.

238548; sez. 4^, 28 ottobre 2004 n. 3448, Perna, rv. 230896; in precedenza da Cass., sez. 5^, 15 ottobre 1998 n. 714, Rocca, rv.

212156; sez. 4^, 14 novembre 1996 n. 10643, Francolini, rv. 207339) secondo cui – perchè possa parlarsi di malattia ai fini dell’accertamento degli elementi tipici del delitto di lesione personale sia volontaria che colposa – non è sufficiente la mera alterazione anatomica (ecchimosi, arrossamento, escoriazione ecc.) ma è necessaria l’esistenza di un’alterazione funzionale o comunque l’esistenza di un significativo processo patologico che non può consistere nella semplice incisione chirurgica propedeutica all’intervento.

In questi limiti la soluzione accolta dalle sezioni unite è condivisibile.

Più opinabile sembra il riferimento che le sezioni unite fanno allo stato di benessere e alla salute complessiva del paziente, concetto estraneo a tutta l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sul concetto di malattia, e che, se portato all’estremo, condurrebbe ad escludere la stessa esistenza della malattia tutte le volte che lo stato patologico venga integralmente superato.

6. L’esito infausto secondo le sezioni unite.

Opposta è la soluzione data dalle sezioni unite nel caso di esito "infausto": in questo caso "la condotta del sanitario, avendo cagionato una malattia, realizzerà un fatto conforme al tipo".

E’ anche da rilevare che le sezioni unite non sembrano seguire quel concetto più selettivo di malattia proposto in dottrina che fa riferimento alle "sofferenze concretamente provocate dall’atto operatorio, della sua incidenza cioè sullo stato di benessere fisiopsichico della persona, che è il vero bene giuridico tutelato dagli artt. 582 e 583 c.p.: sofferenze la cui entità può variare enormemente a seconda dell’importanza e dell’invasività dell’intervento, ma che sempre sono prodotte ogniqualvolta vi sia un decorso postoperatorio di una qualche significatività, ovvero l’intervento abbia effetti permanenti in grado di incidere sul benessere del soggetto".

Secondo le sezioni unite, peraltro, la conformità al "tipo" delle lesioni procurate nel caso di esito infausto "nell’ambito della imputazione del fatto a titolo oggettivo – trattandosi pur sempre di condotta volta a fini terapeutici – accanto a quella logica incoerenza di siffatto atteggiamento psicologico con il dolo delle lesioni di cui all’art. 582 c.p., già posta in luce dalla prevalente dottrina e dai più recenti approdi giurisprudenziali di questa Corte potranno assumere un particolare risalto le figure di colpa impropria, nelle ipotesi in cui – a seconda dei casi e delle varianti che può assumere il "vizio" del consenso informato – si possa configurare un errore sulla esistenza di una scriminante, addebitatile ad un atteggiamento colposo, ovvero allorchè i limiti della scriminante vengano superati, sempre a causa di un atteggiamento rimproverabile a titolo di colpa (art. 55 c.p. e art. 59 c.p., comma 4)." In sintesi il ragionamento delle sezioni unite può essere così riassunto.

A) Se esiste un espresso dissenso del paziente al trattamento terapeutico e, ciò non ostante, il medico compie l’atto chirurgico la sua condotta integra, sotto il profilo della tipicità, il delitto di lesioni volontarie.

E’ opportuno sottolineare che la sentenza parla di "condotta del medico che abbia operato in corpore vili "contro" la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato"; dunque non è necessario che ci si trovi in presenza di un dissenso "espresso" perchè può trattarsi anche di "volontà indirettamente manifestata" come nel caso in cui il paziente affermi di accettare esclusivamente quel trattamento sottopostogli e non altri senza che vengano indicati questi diversi trattamenti.

Irrilevante è l’esito, fausto o infausto che sia.

B) In caso di mancanza di consenso, ma di esito fausto, la condotta non corrisponde al "tipo" di alcuna fattispecie di reato.

E’ questa l’ipotesi controversa che "riguarda invece il caso in cui, anche se "in assenza" di consenso espresso allo specifico trattamento praticato, il risultato dello stesso abbia prodotto un beneficio per la salute del paziente".

Se il consenso non esiste, o è stato prestato per un intervento di natura diversa, l’esito fausto del medesimo rende priva di rilievo penale, secondo le sezioni unite, la condotta del medico per mancanza dell’evento tipico del delitto di lesioni.

C) Nel caso di esito infausto si ha la conformità al "tipo" delle lesioni ma, trattandosi di condotta "volta a fini terapeutici", esiste una "logica incoerenza" con l’elemento soggettivo del delitto di lesioni volontarie.

Questa conclusione, a meno di ritenere che tradisca la premessa, riporta il discorso della conformità al tipo all’elemento soggettivo: in buona sostanza, sembrano affermare le sezioni unite, se esiste la finalità terapeutica non può esistere il dolo delle lesioni volontarie.

Il punto di maggior criticità della soluzione adottata dalle sezioni unite è quello che riguarda la seconda ipotesi perchè l’esperienza dimostra che esistono, e sono assai frequenti, casi nei quali il beneficio esiste ma esistono anche conseguenze negative: si pensi al caso in cui, per contrastare una forma tumorale, il medico chirurgo sottoponga il paziente ad una mutuazione gravemente invalidante; qui non ci si trova in presenza della mera possibilità di opzione tra varie scelte terapeutiche – che le sezioni unite ritengono meritevole di tutela ma, sotto il profilo penale, devoluta alle scelte del legislatore – ma di un risultato che non può essere aprioristicamente ritenuto "fausto" perchè, pur essendosi risolto in un risultato per alcuni aspetti vantaggioso, ha comunque provocato una compromissione (che può anche assumere aspetti di rilevante gravità) della salute e del benessere del paziente.

Paradigmatico è il caso esaminato dalle sezioni unite: la paziente aveva consentito all’intervento di laparoscopia, e non a quello di salpingectomia poi eseguito secondo le regole dell’arte medica e che potrebbe aver avuto conseguenze sulla capacità di procreare.

7. Le cause di giustificazione.

La soluzione adottata dalle sezioni unite rende di minor rilievo tutta la problematica riguardante il tema dell’antigiuridicità: se la mancanza del consenso – nel caso di trattamento medico chirurgico non consentito ed esito fausto – non consente di ravvisare il fatto tipico delle lesioni non ha senso parlare di cause di giustificazione che presuppongono un fatto reato realizzato nella sua fattispecie tipica.

Se invece esiste il dissenso (anche "indirettamente manifestato" come si è visto) o non esiste il consenso e l’esito è infausto – e dunque il trattamento chirurgico è idoneo a provocare una malattia e quindi integra il fatto tipico sanzionato dalla legge penale – tornano in gioco le cause di giustificazione esclusa, è ovvio, quella consistente nel consenso dell’avente diritto.

E’ peraltro da evidenziare che il tema delle conseguenze della mancanza del consenso informato nel caso di esito infausto non fa parte del decisum delle sezioni unite posto che, nel caso esaminato, è stato ritenuto che l’esito fosse stato fausto; ipotesi nella quale i temi in esame divengono superflui secondo l’impostazione della sentenza Giulini.

Nei casi indicati (dissenso; mancanza di consenso ed esito infausto), nei quali si realizza il fatto tipico del delitto di lesioni, torneranno dunque applicabili anche le norme sull’eccesso colposo (art. 55 c.p.) e sull’erronea supposizione di una causa di giustificazione (art. 59 c.p., u.c.) con le conseguenze previste nel caso di ravvisata colpa ed, "impropria" cui le sezioni unite fanno espresso riferimento.

L’erronea supposizione di una causa di giustificazione (sotto il profilo del consenso "presunto") può in particolare tornare utile nei casi, tutt’altro che infrequenti, nei quali il medico chirurgo, nel corso dell’intervento, si trova di fronte una situazione imprevedibile (che quindi non ha formato oggetto di consenso informato) che espone il paziente ad elevato rischio per la sua salute o addirittura per la sua vita.

La sentenza delle sezioni unite non lo menziona ma sembra implicitamente rifiutare quell’orientamento dottrinale che ricostruisce l’illiceità del trattamento sanitario eseguito in assenza di consenso come condotta colposa; la colpa consisterebbe proprio nella mancata acquisizione del consenso informato perchè ciò costituirebbe uno sconfinamento dall’area del rischio consentito.

Costituirebbe infatti violazione di regole cautelari la condotta del medico che abbia dimenticato di acquisire il consenso del paziente, abbia fornito un’informazione inadeguata, abbia trascurato di verificare se il paziente ha compreso le caratteristiche dell’intervento.

Nella giurisprudenza di legittimità questo orientamento non è condiviso dalla già citata sentenza Cass., sez. 4^, 16 gennaio 2008 n. 11335, H. e v’è da precisare che non sembra superabile l’obiezione secondo cui è di ostacolo a questa soluzione l’impossibilità di inquadrare le regole sul consenso nell’ambito delle regole cautelari.

Anche se, ovviamente, la responsabilità per lesioni colpose non può certamente essere esclusa nei casi in cui la menomazione venga cagionata per errore (come nel caso Firenzani) quando il consenso esista o il medico ritenga erroneamente che esista.

8. L’evoluzione più recente della giurisprudenza di legittimità.

Come era prevedibile la mancata soluzione di alcuni nodi da parte delle sezioni unite ha creato i presupposti per l’emergere di alcuni problemi da ritenere ancora aperti.

Con ordinanza 28 gennaio 2010 n. 21799 (pronunziata nel procedimento c. Petretto) questa sezione ha rimesso nuovamente alle sezioni unite la questione relativa alle conseguenze della mancanza di consenso nel trattamento medico chirurgico.

L’ordinanza – pur non rifiutando la nozione funzionalistica di malattia accolta dalle sezioni unite – si pone anzitutto in posizione critica nei confronti della sentenza Giulini laddove ritiene che, per integrare il concetto di malattia, si debba fare riferimento non solo all’atto operatorio di per sè considerato ma altresì all’esito conclusivo dell’intervento chirurgico facendosi quindi riferimento, in contrasto con l’evoluzione giurisprudenziale di legittimità, ad un concetto di malattia che si estende alla salute complessiva del paziente.

L’ordinanza ribadisce che per il reato di lesioni volontarie è sufficiente, sotto il profilo soggettivo, il dolo generico e quindi esclude che la finalità terapeutica possa avere rilievo nel caso di malattia provocata dall’intervento non consentito.

Restituito il processo alla sezione di provenienza questa, con sentenza 20 aprile 2010 n. 21799, ha deciso il caso accogliendo il ricorso del pubblico ministero e ritenendo che fosse configurabile l’ipotesi delle lesioni volontarie in un caso di trattamento non consentito che aveva provocato un difetto visivo permanente al paziente.

Trattandosi di esito infausto la sentenza, richiamandosi agli esiti della sentenza Giulini più volte ricordata, ha richiamato la giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto l’esistenza delle ipotesi dolose (lesioni volontarie o omicidio preterintenzionale) "in presenza di comportamenti del medico assolutamente anomali e distorti e comunque dissonanti rispetto alla finalità curativa che deve caratterizzare il proprio approccio terapeutico" e ha ritenuto che, nel caso esaminato, si trattasse di condotta "talmente anomala da esorbitare di gran lunga dai canoni della mera imprudenza, imperizia o negligenza" anche perchè è stato ritenuto che il consenso fosse stato "fraudolentemente carpito".

In definitiva la Corte ha ritenuto che "il medico travalicò gli estremi limiti di una condotta consapevolmente colposa (colpa cosciente) laddove fu piuttosto animato da una palese volontà che accettò pienamente ed in via preventiva il rischio dell’evento lesivo poi verificatosi (dolo eventuale)".

Sezione terza: mancanza di consenso informato e ipotizzabilità dell’omicidio preterintenzionale.

1. Il fatto tipico secondo i criteri delle sezioni unite. Il principio di offensività.

Vanno adesso applicati al caso in concreto accertato dai giudici di merito i principi affermati dalle sezioni unite e dalle altre decisioni di legittimità che hanno affrontato i temi di maggior rilievo che si sono posti in questo processo.

Non è in discussione che, nel caso in esame, ci si trovi in assenza di consenso informato: ciò è espressamente riconosciuto dalle sentenze di primo e secondo grado e non è contestato dal ricorrente H..

Dall’inesistenza del consenso informato conseguirebbe – se il trattamento chirurgico avesse avuto esito fausto – la non configurabilità del fatto tipico previsto dall’art. 582 c.p. (e tanto meno del delitto di percosse) che costituisce il presupposto ineliminabile perchè possa ipotizzarsi l’omicidio preterintenzionale.

Anche se per esito fausto (è qui uno dei nodi irrisolti) non potrebbe certo considerarsi la mera sopravvivenza della paziente cui erano stati asportati organi essenziali.

Si è visto che, secondo le sezioni unite, la tipicità del delitto di lesioni volontarie non è invece esclusa quando l’esito sia infausto.

In questo caso non si ha infatti quel miglioramento delle condizioni di salute e di benessere del paziente che si verifica nel caso di esito fausto pur essendo stata violata la libertà di autodeterminarsi della persona.

Se può apparire opinabile il percorso argomentativo delle sezioni unite – laddove ricollegano la tipicità del reato doloso alle conseguenze, spesso casuali, della condotta e accolgono una inedita nozione di malattia che fa riferimento ad uno stato di benessere della persona – è però almeno in parte condivisibile l’esito finale cui conduce questa ricostruzione dovendosi in definitiva riconoscere che, nel caso di esito fausto (salvo verificare, lo si è più volte accennato, quando possa ritenersi fausto un esito soprattutto nei casi in cui una qualche menomazione si sia verificata), la condotta è da ritenere priva di offensività o comunque (intesa la malattia nel senso già indicato della alterazione funzionale) che difetti proprio l’evento del reato di lesioni.

Com’è noto il principio di offensività (o di necessaria lesività) non è espressamente disciplinato dalla legge ma, secondo la prevalente dottrina, costituisce uno dei principi immanenti del nostro sistema penale che richiede in ogni caso, perchè possa ritenersi concretizzato l’illecito penalmente rilevante, che sia leso, o posto in pericolo, il bene giuridico protetto a meno che la norma non preveda espressamente una fattispecie tipica di natura formale che consenta di affermare che la legge ha voluto riaffermare una idoneità lesiva normativamente presunta.

La giurisprudenza di legittimità si è dimostrata oscillante sull’accettazione di questi principi ma, a fronte di orientamenti negativi, si trovano numerose decisioni che li condividono.

Per il riconoscimento, anche nel nostro ordinamento, del principio di offensività si vedano: Cass., sez. 3^, 14 ottobre 2009 n. 46719, Dappi, rv. 245612, in tema di misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro; sez. 1^, 19 dicembre 2006 n. 1271, Zaharia, rv.

236021, in tema di immigrazione clandestina; sez. 3^, 17 gennaio 2006 n. 7820, Boscolo, rv. 233555, in tema di pesca marittima; sez. 4^, 22 gennaio 2004 n. 16894, Tassone, rv. 228570, in tema di furto di materiali inerti sul greto di un fiume; sez. 3^, 14 novembre 2007 n. 3057, Lanteri, rv. 238615 e 10 dicembre 1998 n. 845, Marcoz, rv.

212305, in tema di irregolarità nella redazione delle scritture contabili.

Numerosi sono i precedenti in materia di reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti: v. Cass., sez. 4^, 28 febbraio 1997 n. 601, Iannelli, rv. 208011 e sez. 6^, 15 ottobre 1996 n. 10689, Basseoni, rv. 206578, con riferimento a casi nei quali la sostanza sequestrata non aveva una percentuale di principio attivo idonea a provocare un apprezzabile effetto stupefacente).

In particolare anche le sezioni unite, in questa materia, trattando del tema della coltivazione, hanno riaffermato (v. sentenza 24 aprile 2008 n. 28605, Di Salvia, rv. 239921) che spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile; ed è stato ribadito (v. Cass., sez. 4^, 28 ottobre 2008 n. 1222, Nicoletti, rv. 242371) che è da escludere la concreta offensività nel caso di piante che non avevano ancora completato il ciclo di maturazione e non contenevano ancora il principio attivo della sostanza stupefacente.

Naturalmente il principio di offensività non viene in considerazione quando l’esito sia infausto e, in questo caso, perchè possa ipotizzarsi il fatto tipico del delitto di lesioni volontarie (e quindi anche dell’omicidio preterintenzionale), non è sufficiente la mancanza del consenso informato essendo necessario, come si vedrà di seguito, che l’elemento soggettivo del reato sia configurabile quanto meno come dolo diretto.

In questa ricostruzione è opportuno chiarire preliminarmente che questo collegio non condivide l’orientamento espresso dalla sentenza Cass., sez. 5^, 13 maggio 1992 n. 5639, Massimo, già citata, che ritenne di ravvisare l’esistenza dell’omicidio preterintenzionale nel caso, già ricordato, in cui il chirurgo, nell’eseguire il programmato intervento di asportazione transanale di un adenoma rettale benigno, aveva, in mancanza di consenso (la paziente aveva consentito esclusivamente ad un intervento per via endoscopica) e in assenza di ragioni di urgenza, proceduto ad un intervento chirurgico demolitivo di amputazione totale addominoperineale del retto cagionando poi la morte della paziente a causa di complicazioni sopravvenute.

Sottolineò la Corte, in quell’occasione, che per il reato di lesioni volontarie (cui l’atto deve essere diretto perchè possa, in caso di morte quale evento sopravvenuto non voluto, configurarsi il delitto di omicidio preterintenzionale) è richiesto il dolo generico e che l’esecuzione di un intervento chirurgico non consentito, in assenza di ragioni di urgenza che lo giustifichino, non fa venir meno l’indicato elemento psicologico essendo irrilevante la circostanza che il soggetto abbia agito per il perseguimento di uno scopo lecito o illecito.

Quanto all’elemento materiale esso sarebbe, secondo quel precedente, insito nel trattamento chirurgico anche se la condotta, nella quasi totalità dei casi, è normalmente scriminata ai sensi degli artt. 50 e 51 c.p..

La decisione citata richiamava in proposito, condividendolo, l’orientamento della Corte di merito che aveva definito la condotta del chirurgo, nel caso esaminato, "un atto solo formalmente terapeutico e sostanzialmente illecito".

Sono note le divergenze sulla ricostruzione teorica del reato preterintenzionale ed in particolare quelle che riguardano la struttura del reato nell’aspetto soggettivo.

Pacifico essendo che l’evento voluto debba essere addebitato a titolo di dolo è invece controverso se quello non voluto sia addebitabile a titolo di responsabilità oggettiva, sulla base del semplice rapporto di causalità materiale, ovvero se sia necessaria la colpa.

Divergenze che si sono ulteriormente acuite a seguito della sentenza 24 marzo 1988 n. 364 della Corte costituzionale, sull’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale (art. 5 c.p.) nel caso di ignoranza incolpevole, per l’inevitabile rafforzamento conseguitone del principio di colpevolezza.

La più recente giurisprudenza di legittimità sembra orientata a richiedere esclusivamente il dolo (anche eventuale) per quanto riguarda l’azione iniziale diretta a provocare percosse o lesioni e non si pone il problema dell’elemento soggettivo per quanto riguarda l’evento ulteriore (v. Cass., sez. 5^, 12 novembre 2008 n. 44751, Sorrentino, rv. 242224; 8 marzo 2006 n. 13673, Haile, rv. 234552), anche se potrebbe porsi il problema della compatibilità di questo orientamento con quello espresso dalle sezioni unite (v. sentenza 22 gennaio 2009 n. 22676, Ronci, rv. 243381) che, sul tema del reato di cui all’art. 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di altro reato), hanno invece richiesto che venga accertata la violazione di una regola precauzionale perchè possa configurarsi l’ipotesi indicata.

E’ peraltro da osservare che, nel caso della responsabilità professionale medica il problema se l’evento non voluto sia addebitato a titolo di colpa o di responsabilità oggettiva ha minor rilievo posto che, generalmente, il problema della ricostruzione del fatto si pone in relazione alle conseguenze dannose non volute cagionate da colpa.

2. L’elemento soggettivo nell’omicidio preterintenzionale.

Secondo l’opinione prevalente, più volte seguita dalla giurisprudenza di questa Corte, il dolo, sotto il profilo della volizione dell’evento, può assumere la forma del dolo eventuale quando l’agente si limita ad accettare il rischio che l’evento si produca (salvo che ritenga di essere in grado di evitarne il verificarsi, nel qual caso l’elemento soggettivo è qualificabile come colpa cosciente); del dolo diretto (ma non intenzionale) quando l’agente, pur non perseguendo il verificarsi di quell’evento, sa che si verificherà certamente o in termini di alta probabilità (chi mette una bomba per uccidere sapendo che altre persone verranno attinte dall’esplosione); del dolo intenzionale qualora l’evento sia proprio quello voluto dall’agente.

Si vedano tra le altre decisioni, per questa classificazione, Cass., sez. 1^, 25 giugno 1999 n. 10795, Gusinu, rv. 214112; sez. 6^, 15 aprile 1998 n. 6880, Pilato, rv. 211082; sez. 1^, 30 ottobre 1997 n. 10431, Angelici, rv. 208932; 3 luglio 1996 n. 7770, Garbin, rv.

205534; sez. un. 12 ottobre 1993 n. 748, Cassata, rv. 195804.

Ciò premesso il dato normativo da cui occorre prendere le mosse riguarda la formulazione dell’art. 584 c.p. il cui tenore (in particolare l’uso dell’espressione "atti diretti a") fa propendere per la tesi, non da tutti condivisa (anche perchè, secondo alcuni orientamenti, la caratteristica prevista dalle legge, riprendendo la formulazione dalla legge usata per il tentativo, riguarderebbe solo la condotta e non l’elemento soggettivo), che l’elemento soggettivo richiesto per l’omicidio preterintenzionale, quanto all’evento voluto (ovviamente quello previsto dagli artt. 581 o 582 c.p.), sia costituito dal dolo intenzionale o, quanto meno, dal dolo diretto con esclusione quindi del dolo eventuale.

Il che non esclude che la locuzione riferita possa riguardare anche (ma non esclusivamente) la condotta.

E’ vero che l’intenzionalità del dolo, come anche la sua natura diretta, è elemento estraneo alla descrizione del delitto preterintenzionale data dall’art. 43 c.p. ma è stato più volte sottolineato come la struttura del delitto previsto dall’art. 584 c.p. (così come quella dell’unica altra ipotesi di delitto preterintenzionale prevista dal nostro ordinamento: l’aborto previsto dalla L. n. 194 del 1978, art. 18, comma 2) non coincida con lo schema normativo previsto dall’art. 43.

D’altro canto, se così interpretata (nel senso che per l’omicidio preterintenzionale il dolo debba essere diretto o intenzionale), non sembra irragionevole la scelta del legislatore di addebitare le conseguenze non volute solo quando l’agente abbia almeno direttamente voluto l’evento, meno grave, attribuito a titolo di dolo.

Nel caso invece di dolo indiretto o eventuale verrà meno, come è stato sottolineato in dottrina, l’omicidio preterintenzionale ma non il reato doloso di lesioni o percosse.

E’ peraltro da rilevare che – sulla necessità che, nell’omicidio preterintenzionale, il dolo sia diretto o intenzionale – la giurisprudenza di legittimità appare divisa: nel senso che il dolo possa essere anche eventuale v. Cass., sez. 5^, 11 dicembre 2008 n. 4237, De Nunzio, rv. 242965; 12 novembre 2008 n. 44751, Sorrentino, rv. 242224; nel senso della necessità del dolo intenzionale v. invece Cass., sez. 1^, 23 ottobre 1997 n. 2587, Di Gregorio, rv.

210075; 3 marzo 1994 n. 3819, Mannarino, rv. 196987; sez. 1^, 5 luglio 1988 n. 4904, Pagano, rv. 180966).

3. L’omicidio preterintenzionale nell’esercizio dell’attività medico chirurgica.

Alla luce delle considerazioni svolte occorre dunque domandarsi quando è possibile affermare che il medico ha coscientemente e volontariamente posto in essere una condotta diretta a ledere o percuotere sia pure con dolo solo diretto e non intenzionale?.

Numerosi commentatori della sentenza Massimo hanno infatti evidenziato la differenza tra chi si pone, fin dall’inizio e consapevolmente, in contrasto con il precetto penale e il medico per il quale non è agevole individuare una analoga volontà: affermare l’intenzionalità (sia pure nella forma diretta) della condotta, ogni volta che non vi sia il consenso del paziente, significa, in realtà, sovrapporre il problema della natura del dolo richiesto per la fattispecie criminosa in esame e il problema riguardante l’esistenza della scriminante costituita dal consenso dell’avente diritto.

A parere di questo collegio il problema – fermi restando i presupposti che per il delitto di lesioni volontarie non è richiesto il dolo specifico e che il concetto di malattia è quello già indicato fatto proprio dall’art. 582 c.p.) – va invece riportato all’accertamento dei presupposti per ritenere l’esistenza del dolo diretto o di quello intenzionale.

L’agente deve anticipatamente (sia pure nel corso dell’intervento chirurgico) rappresentarsi l’esito (voluto) della sua condotta e non agire "a costo" di provocare quell’evento (ovviamente non la morte ma la malattia).

Non va infatti dimenticato che, nella fattispecie dell’omicidio preterintenzionale, l’agente pone in essere una condotta che sa, e vuole, diretta a provocare un’alterazione dell’integrità fisica della persona offesa; egli si pone consapevolmente in una situazione di illiceità ponendo coscientemente in pericolo l’incolumità fisica o la salute del paziente.

Non è necessario, come da taluni è stato osservato, che l’agente sia animato da una "malvagia volontà" nei confronti della persona offesa ma è comunque necessario che egli si rappresenti, come conseguenza della sua condotta voluta, la lesione dell’integrità fisica del paziente.

E non va sottaciuta la differenza – proprio per l’incidenza che ne può derivare sulla natura (diretta o intenzionale) dell’elemento psicologico richiesto – tra i casi nei quali l’intervento sia deciso nel corso dell’intervento per sopraggiunte e imprevedibili (ovvero prevedibili ma non previste) circostanze e il caso in cui l’intervento sia stato programmato con quelle caratteristiche fin dall’inizio.

Questa Corte ritiene dunque di aderire all’orientamento fatto proprio dalle già ricordate sentenze Barese e H. che, sulla premessa che non compete al giudice di legittimità individuare i casi in cui sia presente l’elemento soggettivo del reato nella forma diretta o intenzionale di cui si è detto – trattandosi di accertamento di fatto riservato al giudice di merito – hanno però fatto astratto riferimento, a titolo di esempio, ai casi in cui la menomazione del corpo o della mente venga provocata per scopi scientifici, di ricerca o per scopi esclusivamente estetici (in questi casi non viene surrettiziamente reintrodotto un dolo specifico: lo scopo è estraneo al reato ma vale a qualificare l’elemento soggettivo come intenzionale), ai casi di interventi demolitivi coscientemente inutili, ai casi in cui il medico proceda ad un’amputazione o ad un altro intervento particolarmente invasivo per curare una patologia che sa di poter affrontare agevolmente con diversi mezzi terapeutici o a quelli in cui produca un’inutile e consapevole mutilazione all’integrità fisica del paziente.

In definitiva si tratta di casi nei quali, già nella rappresentazione dell’agente, non viene più in rilievo la finalità terapeutica dell’intervento e il normale rapporto tra costi (certi) dell’intervento e benefici (eventuali) di esso è ampiamente e preventivamente conosciuto e rappresentato dall’agente come assolutamente squilibrato verso i primi.

Insomma si avrà l’elemento soggettivo del delitto di lesioni volontarie, nella forma diretta o intenzionale, in tutti i casi in cui il chirurgo o il medico (pur se, in ipotesi, animato da intenzioni terapeutiche) agisca essendo conscio che il suo intervento produrrà una inutile menomazione dell’integrità fisica o psichica del paziente.

Ci si trova dunque in presenza, in questi casi, di un atto che non può più essere considerato di natura terapeutica.

E’ solo il contesto in cui l’azione viene posta in essere che ha natura terapeutica – e costituisce dunque l’occasione dell’intervento – ma l’azione fuoriesce completamente dalle finalità che la società assegna alle strutture sanitarie e alle persone che vi operano.

Così ricondotto l’elemento soggettivo del reato entro i suoi limiti naturali – e ulteriormente ribadito che l’esito infausto dell’intervento consente, secondo l’orientamento della sentenza delle sezioni unite Giulini, di ravvisare il fatto tipico delle lesioni volontarie solo nelle ipotesi residuali esemplificativamente accennate – va detto che il discorso sul consenso del paziente va ricondotto a quello delle scriminanti che, secondo l’opinione maggiormente condivisa, escludono l’antigiuridicità della condotta.

Può quindi affermarsi – facendo ovviamente riferimento al solo caso dell’esito infausto dell’intervento diversamente difettando la tipicità del reato secondo la più volte citata sentenza Giulini o l’offensività della condotta come ritiene questo collegio – che il consenso del paziente per un verso precluda la possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie, ma solo nel caso di consenso validamente espresso e nei limiti dell’art. 5 c.c., per l’efficacia scriminante attribuita dall’art. 50 c.p. al consenso della persona che può validamente disporre del diritto; per altro verso che, in presenza di ragioni di urgenza terapeutica, o nelle ipotesi previste dalla legge, il consenso non sia necessario.

Diversamente influisce il dissenso del paziente la cui volontà, nel senso della sua libera autodeterminazione, ha trovato un rafforzamento a livello costituzionale (art. 32 Cost.): a fronte di una manifestazione di volontà esplicitamente contraria all’intervento terapeutico l’atto, asseritamente terapeutico, costituisce un’indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente ma anche della sua integrità con conseguente applicazione delle ordinarie regole penali.

E’ però da rilevare che, nel caso di esito fausto dell’intervento, il pericolo grave ed attuale per la vita o per la salute del paziente, pur non potendo configurare una causa di giustificazione, può consentire di escludere il dolo intenzionale di lesioni in quanto ciò che si rappresenta il medico, nell’intervenire malgrado il dissenso del paziente, è la salvaguardia della sua vita e della sua salute poste in pericolo.

Ciò consente, analogamente, di escludere l’intenzionalità della condotta nei casi, non infrequenti, nei quali il medico, nel corso dell’intervento chirurgico, rilevi la presenza di una situazione che, pur non essendo connotata da aspetti di urgenza terapeutica, potendo essere affrontata in tempi diversi, venga invece affrontata immediatamente senza il consenso del paziente; per es. per evitargli un altro intervento e altri successivi disagi o anche soltanto per prevenire pericoli futuri.

Per completare il discorso sulle cause di giustificazione occorre ancora precisare che sono naturalmente applicabili ai casi in esame – come riconosciuto dalle sezioni unite – le ipotesi di colpa c.d.

"impropria" ed in particolare la disciplina prevista dall’art. 59 c.p., u.c. nella parte relativa all’erronea supposizione di una causa di giustificazione.

E’ quindi necessario, nelle situazioni ipotizzabili, perchè possano ritenersi le ipotesi dolose, che il chirurgo non si sia erroneamente rappresentato la situazione patologica in modo tale da ritenere che essa richiedesse l’intervento non consentito, ovvio essendo, anche in questo caso, il venir meno dell’intenzionalità della condotta.

E ferma restando la sua responsabilità per il reato colposo quando si accerti l’esistenza di questo elemento soggettivo del reato.

4. L’astratta configurabilità dell’omicidio preterintenzionale nel caso in esame.

Alla luce di quanto in precedenza esposto la verifica devoluta a questa Corte riguarda l’astratta possibilità di inquadrare l’ipotesi in fatto accertata, ormai definitivamente, dai giudici di merito nell’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale e, dunque, di ravvisare il fatto tipico del delitto di lesioni volontarie nella condotta posta in essere dal dott. H. per il trattamento della situazione patologica che presentava la paziente TO. F..

Per quanto si è detto l’esistenza di questa ipotesi di reato non può fondarsi esclusivamente sulla mancanza del consenso informato – in ciò non condividendosi le conclusioni della più volte citata sentenza Massimo – dovendosi invece verificare se l’intervento pesantemente e inutilmente demolitivo posto in essere dall’imputato avesse comunque natura di atto terapeutico o fosse comunque riconducibile ad una finalità terapeutica.

In quest’ultimo caso – secondo le sezioni unite (sentenza Giulini) e secondo tutti i precedenti di legittimità che si sono occupati di questo tema (sentenze Barese, Volterrani e H.), sia pure con percorsi argomentativi diversi – sarebbe da escludere il dolo di lesioni volontarie perchè la natura terapeutica o comunque la finalità curativa del trattamento non consentirebbe di ravvisare l’esistenza del dolo intenzionale e la descrizione del fatto tipico previsto dall’art. 584 c.p. esclude che l’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale (quanto all’evento voluto) possa consistere nel dolo eventuale.

Qual’è dunque il compito attribuito al giudice di merito in questi casi?.

Quello di verificare, con motivazione logicamente argomentata, se sia individuabile un atto terapeutico, o comunque una finalità avente questa natura, nella condotta del medico che possa consentire di escludere il dolo intenzionale del delitto di lesioni volontarie tenendo conto della circostanza che nè per questo delitto nè per quello di omicidio preterintenzionale è richiesto il dolo specifico per cui ogni lesione dell’integrità fisica che non trovi un fondamento terapeutico, pur errato, integrerà il dolo generico (ma diretto o intenzionale) richiesto.

Insomma non risponde del delitto preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento non consentito – anche se abbia esito infausto e anche se l’intervento venga effettuato in violazione delle regole dell’arte medica – se comunque sia rinvenibile nella sua condotta una finalità terapeutica o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici.

In questi casi la condotta non è diretta a ledere e se l’agente cagiona la morte del paziente risponderà di omicidio colposo se l’evento è da ricondurre alla violazione di una regola cautelare.

Risponderà invece di omicidio preterintenzionale – come si è già accennato ma è opportuno ribadirlo – il medico che sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale poi consegua la morte), in mancanza di alcuna finalità terapeutica, per fini estranei alla tutela della salute del paziente come quando provochi coscientemente un’inutile mutuazione o agisca per scopi estranei alla salute del paziente (scopi scientifici o di ricerca scientifica, sperimentazione, scopi dimostrativi, didattici o addirittura esibizionistici, scopi di natura estetica ovviamente non accettati dal paziente).

Non è necessario (proprio perchè non è richiesto il dolo specifico) che sia individuata la finalità non terapeutica perseguita dal medico (che può anche non voler perseguire uno specifico fine) essendo invece sufficiente l’estraneità dell’intervento ad ogni ipotizzabile scelta terapeutica indipendentemente dalla circostanza che l’agente ne persegua una specifica o che non ne esistano proprio.

Se l’intervento non è posto in essere per una finalità terapeutica non costituisce più un atto medico e in nulla si differenzia dalla condotta di chi lede volontariamente l’integrità fisica di una persona indipendentemente dalle eventuali finalità perseguite.

La conseguenza inevitabile sotto il profilo giuridico è che chi lede senza alcuna giustificazione, nel corpo o nella mente, la persona del paziente realizza il fatto tipico del delitto di lesioni volontarie o addirittura del delitto di omicidio volontario se il medico agisca con atto non terapeutico del quale risulti abbia accettato le conseguenze estreme (in questo caso il reato può infatti essere punito anche a titolo di dolo eventuale).

5. La motivazione delle sentenze di merito sull’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale.

Per verificare se i giudici di merito abbiano fornito adeguata e motivata risposta al tema proposto occorre preliminarmente riferire della ricostruzione in fatto, ormai incontestabile, compiuta dai giudici di merito.

Va premesso che secondo questa ricostruzione l’ipotesi diagnostica da cui i medici partivano era quella del cancro all’ovaio.

Per accertarne l’esistenza il dott. H. eseguiva un’incisione sull’addome lunga 40 cm. e i giudici di merito hanno sottolineato l’assurdità di un’incisione di queste dimensioni tanto più che le analisi eseguite a seguito della paracentesi (asportazione del liquido formatosi nella cavità addominale) già escludevano la presenza di cellule tumorali.

E infatti la Corte d’appello – a fronte della giustificazione dell’imputato secondo cui l’incisione era diretta ad accertare la natura del linfoma – afferma che "detta giustificazione è inaccettabile ed è resa incredibile dalla lunghezza dell’incisione".

E’ però da rilevare, ai fini della soluzione del problema che stiamo esaminando, che, fino a questo punto dell’intervento ci troviamo in presenza di grossolane violazioni delle regole dell’arte medica che, anche in assenza del consenso informato, non sono idonee, per le ragioni già viste, a concretizzare il delitto di lesioni volontarie trattandosi di un atto gravemente imperito e imprudente ma pur sempre compiuto a scopo diagnostico, e quindi per finalità terapeutiche, che rendono problematico l’accertamento del dolo diretto e, a maggior ragione, di quello intenzionale.

Ma è la fase successiva accertata dai giudici di merito che merita la più attenta considerazione.

Come si è già accennato, dopo che era stata eseguita l’incisione cui si è fatto riferimento, giungeva in sala operatoria l’esito dell’accertamento richiesto e tutti i medici presenti venivano informati dell’erroneità della diagnosi iniziale di cancro all’ovaio e dell’esatta diagnosi costituita invece da un linfoma di Burkitt il cui trattamento è esclusivamente farmacologico e non chirurgico.

Il dott. H. non ha mai affermato che il trattamento del linfoma di Burkitt possa essere di natura chirurgica e dunque neppure può sostenersi l’ipotesi dell’errore terapeutico.

Questa patologia si cura con la chemioterapia e tutti i medici presenti ne erano coscienti: è dunque evidente che il successivo intervento compiuto dall’imputato è privo di alcuna giustificazione terapeutica.

Lo sa anche l’imputato che, difatti, nei vari gradi di giudizio tenta di accreditare l’ipotesi che fosse sopravvenuto un emoperitoneo massivo (grave emorragia nel peritoneo) che legittimerebbe l’intervento demolitivo.

Ma la sentenza impugnata esclude drasticamente la credibilità di questa ipotesi ritenendo "evidente che si è trattato di una giustificazione ex post proprio per salvare il maldestro intervento".

E non si tratta di valutazione immotivata perchè i giudici di secondo grado fanno riferimento alle seguenti circostanze per escludere la presenza di una massiccia emorragia insorta prima dell’intervento demolitivo:

1) la cartella clinica non fa cenno a perdite di sangue nè prima nè dopo l’intervento;

2) non esistevano segni clinici o dati analitici che rivelassero l’esistenza di un’emorragia;

3) l’inattendibilità delle dichiarazioni della dott. PO. (assistente volontaria) che ha sostenuto di aver effettuato una seconda paracentesi (non risultante dalla cartella clinica) da cui sarebbe risultato il versamento ematico.

Dunque in fatto ci si trova in una situazione in cui l’intervento chirurgico era certamente da escludere (e lo dice lo stesso imputato) e la giustificazione data dal chirurgo è stata ritenuta inattendibile nel senso di ritenere inesistente l’unico presupposto che avrebbe potuto spiegare, se non giustificare, un intervento demolitivo di quelle dimensioni.

Insomma è la stessa sentenza a dare atto che non esisteva alcuna giustificazione terapeutica per un intervento di quel genere.

Come giustifica allora, la sentenza impugnata, l’esclusione dell’ipotesi delle lesioni volontariamente procurate alla paziente TO.Fe.?.

Per un verso escludendo l’intento di dimostrare la sua bravura (perchè H. non è intervenuto per via laparoscopica, intervento nel quale era specializzato) – e conseguentemente quello che volesse propagandare gli strumenti laparoscopici – e perchè non ha filmato l’intervento (così escludendosi lo scopo sperimentale o propagandistico).

Escluso che H. avesse queste finalità secondo la Corte di merito resta "l’ipotesi di aver operato senza essersi reso conto correttamente, per informazioni parziali o inesatte, per che cosa operava per cui, trovatosi improvvisamente di fronte al linfoma – di cui doveva sapere che la cura era chimica e non chirurgica – non potendo tornare indietro (e lo dice) ha dovuto intervenire pesantemente per limitare i danni o, comunque, secondo la sua versione, per far conseguire un eventuale vantaggio alla paziente".

Palese è il vizio denunziato di contraddittorietà e manifesta illogicità di questa motivazione fondata su congetture che neppure l’imputato ha prospettato.

L’errore era già avvenuto al momento dell’incisione ma, nel momento in cui è pervenuta la notizia che si trattava di un linfoma, H. sapeva (non l’ha mai negato come non ha mai negato di essere stato informato della natura della patologia) che era da escludere l’intervento chirurgico. E perchè mai non si poteva tornare indietro se anche l’imputato, per giustificare la prosecuzione dell’intervento, è costretto ad inventarsi una situazione che i giudici escludono?.

Non ci si trova in presenza di una via "senza ritorno" colposamente imboccata ma di una situazione in cui è indiscusso che non si dovesse procedere ad alcun intervento e dunque era sufficiente porre fine al trattamento in atto e suturare la ferita; solo l’esistenza dell’emorragia poteva (erroneamente) giustificare la prosecuzione dell’intervento con le devastanti modalità adottate ma la sua esistenza è stata, dalla stessa Corte, definitivamente esclusa in termini di certezza.

Insomma: anche ammesso che l’incisione iniziale sia ricollegabile ad un errore di natura valutativa o diagnostica o ad una imperita esecuzione di una manovra nel momento in cui perviene in sala operatoria la notizia che si tratta di un linfoma – che H. sa non richiedere alcun intervento chirurgico – quali danni doveva limitare o quale vantaggio doveva far conseguire alla paziente visto che i medesimi giudici hanno escluso l’esistenza dell’unico presupposto fattuale che poteva giustificare l’intervento demolitivo?.

In realtà nessuno dei giudici di merito è riuscito ad individuare una giustificazione terapeutica (sia pure grossolanamente errata) del devastante intervento una volta che sia stata esclusa la massiccia emorragia non a caso sostenuta dall’imputato conscio dell’inesistenza di alcun elemento che rendesse in qualche modo giustificato l’intervento.

Nè lo scopo terapeutico (perchè possa parlarsi di omicidio colposo e non di omicidio preterintenzionale) è rinvenibile nella motivazione della sentenza di primo grado che anzi avvalora la tesi dell’inesistenza di tale giustificazione perchè elenca i seguenti dati a fondamento della tesi dell’inesistenza di uno scopo terapeutico e della natura dolosa della lesione dell’integrità fisica della paziente:

H., per la sua esperienza professionale, non poteva ignorare che l’intervento demolitivo fosse da escludere nel caso della patologia accertata;

appena pervenuta la diagnosi che si trattava di linfoma di Burkitt il dott. A., in sala operatoria, disse che non si doveva procedere ad alcun intervento senza che alcuno obiettasse alcunchè;

le scelte che comunemente il dott. H. compiva prima e dopo gli interventi (rifiutava di inviare i pazienti in terapia intensiva anche quando le loro condizioni lo richiedevano "per nascondere tutte le conseguenti complicanze" e, addirittura, in un caso rioperava la paziente nel suo letto) erano coerenti con questo atteggiamento;

tanto che il primo giudice conclude che questi fatti "depongono per un comportamento scientemente volto non alla tutela del malato, ma a quella delle sue discutibili scelte chirurgiche;

la "preventiva scelta politica per una chirurgia demolitiva a tutti i costi", peraltro da lui preannunziata all’atto dell’assunzione al (OMISSIS) allorquando aveva garantito un certo numero di DCPA;

alla natura ambiziosa del suo carattere e alla "componente narcisistica della personalità dell’imputato" ritenuto anche "ossessionato dal bisogno di dimostrare di essere il più bravo" come dimostra il numero di videoconferenze che lo portavano anche a realizzare interventi "senza preparazione, senza esami, contro il parere dei colleghi mentre era in corso una videoconferenza con il CNR";

agli elementi che lasciano ipotizzare che il dott. H. "con quegli interventi così macroscopicamente inadeguati abbia tentato nuove sperimentazioni, ad esse sacrificando anche la salute dei pazienti";

alla motivata ipotesi "che le costose operazioni tanto praticate dall’ H. come gli altri inutili interventi ampiamente demolitivi ivi compreso quello sulla To.Fe., siano stati scelti per ragioni economiche e non cliniche, assicurando all’azienda ospedaliera notevoli guadagni e pubblicità";

alle false attestazioni contenute nelle cartelle cliniche e ai vantaggi economici che gli derivavano dall’incremento di produttività (!) derivante dall’esecuzione di interventi di maggior complessità.

A fronte di questo quadro inquietante, precisamente e analiticamente delineato, la Corte di primo grado non ritiene provata l’esistenza del dolo (nel senso in precedenza più volte precisato) limitandosi ad affermare che non possa escludersi l’ipotesi della responsabilità per colpa perchè "l’aver effettuato una incisione xifopubica di 40 cm, il continuo riferimento da parte dell’imputato a dati clinici relativi al cancro all’utero………lasciano supporre che l’imputato, senza fare accertamenti preventivi, si sia adagiato sulla generica diagnosi dell’ospedale di provenienza della To.

F., colpevolmente comportandosi di conseguenza".

Insomma il giudice di primo grado dopo aver elencato i numerosi elementi che escludevano la natura colposa della condotta ritiene apoditticamente che permangano invece questi dubbi dimenticando in particolare di prendere in considerazione quanto affermato in precedenza: che il dott. H. sapeva benissimo che la patologia della paziente non si affrontava chirurgicamente e che per giustificare l’intervento demolitivo ha dovuto inventarsi l’esistenza dell’emorragia che la sentenza ritiene falsamente attestata.

E come poteva l’imputato "adagiarsi" sulla diagnosi precedente nel momento in cui la stessa viene smentita dagli accertamenti da lui disposti?. Tanto è vero che si tratta di giustificazione che neppure H. prospetta.

La conclusione non può che essere che il caso, ormai incensurabilmente accertato in fatto dai giudici di merito, rivela l’inesistenza di alcuna giustificazione terapeutica nell’intervento eseguito con la conseguente astratta configurabilità dell’omicidio preterintenzionale per la natura dolosa della condotta dell’imputato diretta a ledere l’integrità fisica della paziente.

5. Gli altri motivi proposti con il ricorso H..

In particolare il rapporto di causalità. Conclusioni sul decesso TO.Fe..

La più parte delle censure proposte con il ricorso dell’imputato H. sono da ritenersi assorbite a seguito dell’accoglimento del ricorso del Procuratore generale.

Ciò in particolare per quanto riguarda le doglianze, contenute nel primo e nel secondo motivo di ricorso, che si riferiscono all’esistenza dell’emoperitoneo massivo.

Accertamento in senso negativo da ritenere ormai definitivo e incensurabile per le ragioni già indicate.

Parimenti assorbito è il terzo motivo di ricorso che si riferisce alla prescrizione essendo ancora in discussione l’esistenza del delitto preterintenzionale mentre è da ritenere priva di decisività la censura contenuta nel quarto motivo di ricorso e relativa alla mancata assunzione di una prova decisiva (la testimonianza del prof. ME.).

Se anche l’imputato avesse chiesto un parere al predetto sanitario (che, peraltro, ricorda la sentenza di primo grado, si era chiesto, rivolgendosi ai familiari della paziente, perchè mai si fosse proceduto a quell’intervento demolitivo con ciò smentendo la tesi di H.) ciò sarebbe avvenuto in base ad un’informazione falsa (sull’esistenza della grave emorragia) trasmessagli dal dott. H. e quindi un’eventuale conferma di quanto affermato dall’imputato non muterebbe i termini del problema.

Tra l’altro, sottolinea la sentenza di primo grado, di questo parere del prof. ME. alcuna traccia esiste in cartella clinica.

Sulla grossolana violazione delle regole cautelari dell’arte medica per contrastare la patologia accertata si è già detto in precedenza.

Restano invece da esaminare le censure, contenute nel primo motivo di ricorso, che si riferiscono all’esistenza del rapporto di causalità tra la condotta del ricorrente e il decesso di TO.FE..

Anche sotto questo profilo occorre fare riferimento alla sentenza di primo grado, richiamata da quella di appello, e da questo esame risulta che la riconducibilità della morte della giovane donna al trattamento chirurgico improvvido praticato dal dott. H. è stata argomentata in modo ineccepibile e certamente non illogico o contraddittorio.

La sentenza di primo grado – con il richiamo argomentato e non acritico alle conclusioni dei periti e dei consulenti del pubblico ministero e senza omettere di prendere in considerazione le diverse opinioni dei consulenti dell’imputato – ha infatti precisato che il devastante intervento inutilmente praticato dal dott. H. ha provocato un gravissimo indebolimento delle condizioni generali della paziente e questo indebolimento ha ritardato significativamente l’inizio della necessaria terapia chemioterapica.

I primi giudici danno atto che non v’è certezza, ma solo un’elevata probabilità, che, se tempestivamente adottate, le terapie ritenute necessarie avrebbero salvato la vita della paziente ma si esprimono in termini di certezza sulla circostanza che il decesso, così come avvenuto, è da ricollegare eziologicamente all’intervento demolitivo e che, in mancanza di questo intervento, l’evento mortale – anche se si ipotizzasse l’inefficacia delle cure praticate – si sarebbe certamente verificato in tempi significativamente più lontani.

Non si tratta di valutazioni apodittiche o di natura congetturale ma, come si è già accennato, motivatamente fondate sui pareri degli esperti ed esenti da alcuna illogicità così come non sono illogiche le conclusioni, ricollegate al richiamo a generalizzate regole di esperienza, che fanno riferimento alla circostanza che una terapia farmacologia somministrata a persona tuttora in buone condizioni di salute (come era la TO.Fe., malgrado la grave forma tumorale da cui era affetta) è idonea a produrre significativi effetti (quanto meno in termini di prolungamento della vita) in un organismo integro rispetto al caso in cui viene somministrata in un organismo devastato da un (inutile) intervento demolitivo quale quello in esame.

Nè i giudici di merito si sono sottratti all’obbligo di verificare l’esistenza di cause alternative del decesso riconoscendo l’efficacia concausale della forma tumorale già ricordata ma escludendo in modo argomentato sia l’esistenza di diversi fattori alternativi (in particolare l’esistenza del cancro all’ovaio escluso da tutti gli esperti) sia l’efficienza causale esclusiva del linfoma di Burkitt.

In conclusione, su questo punto, deve ritenersi che i giudici di merito abbiano ritenuto accertata l’esistenza del rapporto di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento in termini di elevata credibilità razionale secondo i principi indicati nella sentenza 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese, rv. 222138-9 delle sezioni unite di questa Corte.

L’accertata esistenza del vizio di motivazione sulla qualificazione giuridica del reato addebitato a H.C. impone dunque l’annullamento su questo punto della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Roma, che si atterrà ai principi in precedenza enunciati, mentre rimangono ormai definitivamente accertati gli altri aspetti della responsabilità che hanno formato oggetto dei ricorsi.

Sezione quarta: i ricorsi relativi all’omicidio colposo in danno di E.M. e le statuizioni civili.

1. Premessa.

Come si è già accennato in precedenza per il decesso di E. M. i giudici di primo grado hanno affermato la responsabilità dei medici H., L. e M. per avere i medesimi, in buona sostanza, scelto per l’intervento di colecistectomia la metodica della laparoscopia – eseguito il (OMISSIS) – quando le caratteristiche del caso (la presenza di massive aderenze causate da gravi interventi all’addome che la donna aveva subito nel corso degli anni) lo rendevano di difficile se non impossibile esecuzione e per aver proseguito l’intervento con la metodica indicata malgrado le caratteristiche del caso lo rendessero del tutto sconsigliabile e rendessero necessario intervenire in laparotomia.

La sentenza sottolinea anche che i precedenti interventi cui la paziente era stata sottoposta davano la "certezza diagnostica" della presenza delle aderenze che rende più difficile e pericoloso l’intervento in laparoscopia sia per la "limitata visibilità del campo operatorio" sia per la "pressione endoaddominale che impedisce di accorgersi di eventuali lesioni".

Inconvenienti che non si verificano (o si rivelano di gran lunga meno significativi) nell’intervento in laparotomia.

Del resto – hanno sottolineato i primi giudici – erano state proprio queste difficoltà a indurre il dott. D. a richiedere l’intervento del primario nel corso dell’esecuzione del primo intervento.

I giudici di primo grado hanno quindi ritenuto erronea la scelta del dott. H. di proseguire l’intervento in laparoscopia e hanno ritenuto altresì che la lesione provocata nel corso di questo intervento (rottura di un’ansa ileale divenuta poi la causa della peritonite successivamente instauratasi) fosse stata colposamente provocata perchè ricollegata a questa scelta errata e che l’imputato fosse altresì in colpa per la sottovalutazione dei sintomi manifestati dalla paziente nei giorni successivi all’intervento e per il ritardo nel rioperarla.

"Imprudente e inspiegabile" è poi ritenuta la scelta di tenere il drenaggio per un solo giorno e negligente la mancanza di alcuna iniziativa quando, il terzo giorno dopo l’intervento, era comparsa una fuoriuscita di bile e – pur in presenza di diversi sintomi significativi del peggioramento della situazione (aumento dei globuli bianchi, temperatura alta e in aumento, difficoltà ad evacuare, addome non trattabile, insufficienza renale, ristagno di materiale alimentare fuoriuscito dal sondino nasogastrico) alcuna iniziativa terapeutica era stata adottata.

E la Corte non ha neppure eluso il problema della mancanza di sintomi evidenti dell’esistenza della peritonite rilevando come quelli indicati dovevano comunque indurre a far ritenere che si trattasse di patologie ricollegabili all’intervento che rendevano necessarie le conseguenti iniziative.

Ma anche i successivi interventi del dott. L. e del dott. M. (eseguiti in equipe dai due medici il 24 e il 28 gennaio 2001) sono stati ritenuti compiuti in violazione delle regole cautelari previste per l’esercizio dell’arte medica per avere, i due medici, optato – in particolare per quanto riguarda il secondo intervento (quando il processo di peritonite era ormai assai esteso) – per un intervento di anastomosi (sutura delle parti resecate), e non per l’ileostomia (creazione di un ano artificiale) poi praticata da H. nel quarto intervento eseguito il (OMISSIS).

La scelta dell’anastomosi è stata dai primi giudici motivatamente ritenuta, sulla base dei pareri dei periti, gravemente imprudente e questa scelta è stata addebitata anche al dott. H. sul quale incombeva l’obbligo di controllare l’attività dei suoi collaboratori.

I giudici di primo grado hanno compiuto anche il giudizio controfattuale pervenendo alla motivata conclusione (anche in questo caso fondata sui pareri degli esperti) che, se non fosse stata scelta la via laparoscopica ma quella laparotomica e non fossero stati decisi ed eseguiti i due interventi di anastomosi – procedendo invece tempestivamente all’indicato intervento di ileostomia – la vita della paziente sarebbe stata salvata.

2. Reato dichiarato estinto per prescrizione e giudizio di impugnazione.

All’esame dei motivi contenuti nei ricorsi H., L. e M., che si riferiscono all’addebito di omicidio colposo in danno di E.M., vanno premesse alcune considerazioni sui limiti del sindacato di legittimità nel caso di dichiarazione di estinzione del reato pronunziata dalla Corte di cassazione o dal giudice della sentenza impugnata.

In particolare, poichè il giudice d’appello ha dichiarato l’estinzione del reato ed è ancora presente nel processo la parte civile, prima di procedere all’esame specifico dei motivi di ricorso, vanno esaminati i principi che disciplinano il rapporto tra l’accertamento della responsabilità penale e l’obbligo, per il giudice, di immediata applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2 in presenza di una causa estintiva del reato sia o meno ancora in corso l’azione civile nel processo penale.

Com’è noto il presupposto per l’applicazione dell’art. 129 indicato è costituito dall’evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato.

In questo caso la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla causa di estinzione del reato ed è fatto obbligo al giudice di pronunziare la relativa sentenza.

I presupposti per l’immediato proscioglimento (l’inesistenza del fatto, l’irrilevanza penale, il non averlo l’imputato commesso) devono però risultare dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale.

In presenza di una causa estintiva del reato non è quindi più applicabile la regola probatoria, prevista dall’art. 530 c.p.p., comma 2, da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che emerga "positivamente" dagli atti, e senza necessità di ulteriori accertamenti, la prova dell’innocenza dell’imputato (cfr. Cass., sez. 5^, 2 dicembre 1997 n. 1460, Fratucello; sez. 1^, 30 giugno 1993 n. 8859, Mussone).

E’ stato affermato che, in questi casi, il giudice procede, più che ad un "apprezzamento", ad una "constatazione" (Cass., sez. 6^, 25 marzo 1999 n. 3945, Di Pinto; 25 novembre 1998 n. 12320, Maccan).

Da ciò consegue altresì che non è consentito al giudice di applicare l’art. 129 c.p.p. in ipotesi di incertezza probatoria o di contraddittorietà degli elementi di prova acquisiti al processo anche se, in tali casi, ben potrebbe pervenirsi all’assoluzione dell’imputato per avere, il quadro probatorio, caratteristiche di ambivalenza probatoria.

Questi principi sono stati di recente ribaditi dalle sezioni unite di questa Corte con sentenza (28 maggio 2009 n. 35490, Tettamanti, rv.

244273-4-5) alle cui condivisibili argomentazioni si rinvia.

Coerente con questa impostazione è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità che, fondandosi anche sull’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all’annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l’estinzione del reato (cfr. la citata sentenza Maccan della 5^ sezione ed inoltre sez. 1^, 7 luglio 1994 n. 10822, Boiani).

In caso di annullamento, infatti, il giudice del rinvio si troverebbe nella medesima situazione che gli impone l’obbligo della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato.

Questi principi rimangono fermi, per quanto attiene alla responsabilità penale dell’imputato, anche nei casi in cui sia stata proposta l’azione civile nel processo penale; peraltro, nel giudizio di primo grado, il giudice non può dichiarare estinto il reato e pronunziarsi sull’azione civile (cfr. Cass., sez. 4^, 1 ottobre 1993 n. 10471).

Al contrario, nel giudizio d’impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d’appello) ed essendo ancora pendente l’azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell’art. 578 c.p.p., è tenuto, quando accerti l’estinzione del reato per amnistia o prescrizione, ad esaminare il fondamento della medesima azione sia o meno intervenuta sentenza di condanna in primo grado come hanno chiarito le sezioni unite di questa Corte (sentenza 11 luglio 2006 n. 25083, Negri, rv. 233918) che, andando di contrario avviso rispetto al precedente prevalente orientamento, hanno confermato questo principio.

In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell’impugnazione deve verificare, senza alcun limite, l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni o al risarcimento pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d’appello nel caso in cui l’estinzione del reato sia stata da lui pronunziata o debba essere emessa dalla Corte di cassazione).

In conclusione va affermato che costituisce principio inderogabile del processo penale quello secondo cui la condanna al risarcimento o alle restituzioni può essere pronunziata solo se il giudice penale ritenga accertata la responsabilità penale dell’imputato; anche se l’estinzione del reato non gli consente di pronunziare o di confermare la condanna penale.

3. Limiti al principio della prevalenza della causa di estinzione.

E’ però necessario, a questo punto, esaminare uno dei problemi posti dalla citata sentenza Tettamanti delle sezioni unite specificamente invocata dal ricorrente L. nel primo motivo del ricorso da lui proposto.

Questa sentenza ha infatti affermato che il principio richiamato sulla prevalenza della causa di estinzione del reato nel caso di dedotto vizio di motivazione trova un temperamento in due ipotesi- La prima riguarda il caso di assoluzione in primo grado ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e impugnazione del pubblico ministero:

in questo caso, secondo le sezioni unite, se il giudice di appello ritiene infondato nel merito l’appello del pubblico ministero deve confermare la sentenza di assoluzione.

Il secondo caso attiene invece più specificamente all’ipotesi dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale: il giudice di appello è tenuto, anche nel caso in cui il reato sia estinto per amnistia o prescrizione, ad esaminare l’esistenza dei presupposti per la condanna penale quando sia ancora presente nel processo la parte civile; in tale caso ove pervenga, all’esito di questo esame, a ritenere l’insufficienza o la contraddittorietà del compendio probatorio deve pronunziare sentenza di assoluzione nel merito.

Secondo le sezioni unite questa deroga ai principi in precedenza enunciati si fonda sulla considerazione "che alcun ostacolo procedurale, nè le esigenze di economia processuale (che, come più volte detto, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2), possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l’applicazione della regola probatoria di cui all’art. 530, comma 2 del codice di rito".

E’ peraltro da rilevare che la deroga, come hanno precisato le sezioni unite nella sentenza Tettamanti, riguarda esclusivamente il giudizio di appello non essendo attribuita, al giudice di legittimità, una funzione di rivalutazione del compendio probatorio.

4. Motivazione per relationem da parte del giudice dell’impugnazione.

In generale.

Il presente giudizio di legittimità è però caratterizzato da un’ulteriore particolarità. La sentenza di appello, in relazione alle censure proposte con gli appelli che si riferiscono al decesso di E.M., si è limitata a rinviare alla motivazione contenuta nella sentenza di primo grado, dichiarando di condividerla, senza affrontare in modo specifico – come era doveroso soprattutto in relazione alla conferma delle statuizioni civili – le censure proposte con gli appelli degli imputati.

Andrà dunque anzitutto verificato se possa ritenersi che la sentenza impugnata, con il rinvio per relationem a quella di primo grado, possa ritenersi sufficientemente motivata sulla penale responsabilità degli imputati.

Deve quindi essere preliminarmente esaminato il problema della ammissibilità della motivazione per relationem ad altro atto o provvedimento del procedimento o del processo.

Su questo problema si sono pronunziate le sezioni unite di questa Corte (sentenza 21 settembre 2000 n. 17, Primavera, rv. 216664) che, pur con riferimento al problema specifico della motivazione dei decreti in materia di intercettazioni telefoniche o ambientali, hanno affermato i seguenti principi di carattere generale che consentono di ritenere legittima la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale in presenza dei seguenti presupposti:

il riferimento deve essere fatto ad un legittimo atto del procedimento la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria al provvedimento di destinazione;

deve risultare che il decidente abbia preso cognizione del contenuto delle ragioni del provvedimento di riferimento ritenendole coerenti alla sua decisione;

l’atto di riferimento sia conosciuto dall’interessato o almeno a lui ostensibile.

La successiva giurisprudenza di legittimità ha in linea di massima condiviso questi principi con approfondimenti che riguardano le specifiche ipotesi che si verificano nelle singole fattispecie.

In particolare si è precisato che il mero rinvio agli atti del procedimento è consentito quanto gli atti abbiano un contenuto essenzialmente descrittivo o ricostruttivo e non quando si riferisca a documenti complessi e contenenti aspetti valutativi (Cass., sez. 3^, 4 marzo 2010 n. 12464, C. e altri, rv. 246465); che il rinvio possa essere anche implicito (v. Cass., sez. 2^, 16 gennaio 2008 n. 9153, De Mauro, rv. 239589) ma debba riferirsi ad atti del medesimo procedimento (Cass., sez. 3^, 25 maggio 2001 n. 33648, Cataruzza, rv.

219988).

Non del tutto uniforme è l’orientamento (peraltro spesso condizionato anche dalla specificità dei casi esaminati) nel caso di sentenze d’appello che operino un mero rinvio a quelle di primo grado.

Un orientamento più rigoroso ritiene che sussista il vizio di motivazione nel caso in cui la motivazione del primo giudice sia richiamata in termini apodittici o meramente ripetitivi (v. Cass., sez. 6^, 12 giugno 2008 n. 35346, Bonarrigo, rv. 241199; 20 aprile 2005 n. 6221, Aglieri, rv. 233082) o addirittura il giudice di appello abbia letteralmente ricopiato la sentenza di primo grado (è il caso esaminato da Cass., sez. 4^, 20 gennaio 2004 n. 16886, Rinero, rv. 227942).

In materia cautelare personale le sezioni unite (v. sentenza 26 novembre 2003 n. 919, Gatto, rv. 226488) hanno ribadito che il tribunale per il riesame non può limitarsi ad un generale e generico rinvio al provvedimento cautelare dovendosi ritenere che la motivazione per relationem possa al più svolgere una funzione integrativa perchè diversamente si perverrebbe ad una sostanziale vanificazione del mezzo d’impugnazione.

Si è affermato invece che è consentita la motivazione per relationem nel caso in cui le censure formulate con l’appello non contengano elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e disattesi dal primo giudice (Cass., sez. 4^, 17 settembre 2008 n. 38824, Raso, rv. 241062; sez. 6^, 14 giugno 2004 n. 31080, Cerrone, rv. 229299; sez. 5^, 15 febbraio 2000 n. 3751, Re, rv. 215722).

Quest’ultimo orientamento è da ritenere condivisibile perchè solo nel caso in cui i motivi d’impugnazione pongano problemi, caratterizzati da decisività, non affrontati o affrontati in modo non esauriente e completo dal giudice della sentenza impugnata, può ritenersi che manchi la motivazione; è vero che il giudice dell’impugnazione è venuto meno all’obbligo di motivazione ma, da un punto di vista oggettivo, la decisione non è priva di motivazione perchè la decisione impugnata già conteneva le risposte alle censure proposte con l’impugnazione.

5. Criteri di valutazione della motivazione del giudice di secondo grado.

Applicando questi principi al caso in esame va premesso che non è in discussione il terzo elemento indicato dalla sentenza Primavera delle ss.uu. (conoscibilità dell’atto da parte dell’interessato) mentre va esaminato se siano stati rispettati il primo criterio (nella parte in cui richiede la congruità della motivazione del provvedimento richiamato) e il secondo criterio (se possa ritenersi che abbia preso cognizione del contenuto della sentenza impugnata e dei motivi di appello e ne abbia tenuto conto nella sua decisione).

Questo scrutinio non può che avvenire con l’esame obiettivo degli atti e l’unico criterio che consente di pervenire ad un risultato razionale, coerente con la natura del giudizio di legittimità, è quello che si fonda sull’esame comparativo, oggettivamente condotto, tra sentenza di primo grado e motivi di appello.

Ciò richiede che il giudice di legittimità valuti se le ragioni dell’impugnazione fossero astrattamente idonee a far conseguire all’appellante un risultato diverso, ai fini penali e a quelli civili, rispetto alla mera dichiarazione di estinzione del reato e alla conferma delle statuizioni civili.

Più specificamente occorrerà valutare se i motivi di appello si limitassero a contestare le argomentazioni del primo giudice senza apportare contrari elementi decisivi avendo, la sentenza di primo grado, fornito adeguata e motivata risposta sui temi proposti con l’appello; ovvero se l’atto di appello avesse affrontato temi (ovviamente decisivi ai fini della responsabilità) ai quali alcuna risposta avevano dato i primi giudici.

Nel primo caso la mera condivisione, da parte del giudice dell’appello, può ritenersi sufficiente a far ritenere rispettato l’obbligo di motivazione perchè i motivi di appello non hanno in realtà apportato alcun elemento nuovo che non sia stato già esaminato dal primo giudice e dunque la condivisione da parte del giudice di appello – pur scorretta per essere, il giudice, venuto meno ad un obbligo su di lui incombente – può ritenersi sufficiente per ritenere motivata la decisione.

Ma alla medesima conclusione non può pervenirsi nei casi in cui l’appellante abbia prospettato elementi nuovi, o diversi da quelli presi in considerazione dal primo giudice, se questi elementi siano astrattamente idonei a fondare una diversa decisione e il giudice di appello li abbia ignorati.

In questo caso non può ritenersi adempiuto l’obbligo della motivazione perchè la sentenza del primo giudice, cui quella d’appello ha rinviato, non ha esaminato i temi proposti con l’appello e dunque non può esservi rinvio ad una decisione che non ha esaminato l’oggetto della contestazione (se abbia carattere di decisività, è opportuno ribadirlo).

Naturalmente – in considerazione della diversità dei criteri di valutazione che il giudice deve utilizzare, nel caso di reato dichiarato estinto ai fini penali, a seconda che venga o meno in considerazione la responsabilità civile – questo sindacato avrà natura diversa: se il giudice deve verificare soltanto l’esistenza della responsabilità penale è sufficiente che i motivi di appello non fossero idonei a fondare una richiesta di proscioglimento nel merito per l’inesistenza dell’evidenza dell’innocenza dell’imputato.

Se invece sono in discussione anche le statuizioni civili il sindacato va esteso all’esistenza di tutti gli aspetti della responsabilità penale.

6. L’evidenza della prova dell’innocenza degli imputati. Premessa. Le questioni processuali.

Alla luce dei principi indicati è da ritenere che i ricorsi degli imputati siano infondati ai fini penali perchè alcuna delle censure proposte con i motivi di appello, che il giudice di secondo grado ha ritenuto infondati con il richiamo alla sentenza di primo grado, è astrattamente idonea a consentire di pervenire al risultato di ritenere evidente la prova dell’innocenza dei ricorrenti.

A questa disamina va premesso che l’esame delle censure proposte con l’appello (al fine della verifica di cui si è detto) verrà fatta contestualmente all’esame dei motivi di ricorso – il cui contenuto è peraltro largamente coincidente salve le peculiarità del giudizio di legittimità – che si riferiscono al medesimo tema.

Ciò premesso deve rilevarsi che non possono, in questo esame, essere prese in considerazione le censure di natura processuale che, se anche fondate, non produrrebbero le conseguenze indicate, ai fini dell’applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2, perchè l’estinzione del reato prevale anche nel caso in cui siano state proposte eccezioni di natura processuale.

L’esistenza di una nullità, anche di natura assoluta e insanabile, deve infatti essere sempre accertata e dichiarata dal giudice a meno che non esista una contemporanea causa di estinzione del reato perchè, per il disposto dell’art. 129 c.p.p., sul giudice grava, anche in questo caso, l’obbligo dell’immediata declaratoria delle cause di estinzione del reato.

La giurisprudenza di legittimità si è già pronunziata sull’affermazione di questo principio (v. da ultimo Cass., sez. 6^, 26 marzo 2008 n. 21459, Pedrazzini, rv. 240066) ribadito anche dalle sezioni unite (sentenza 27 febbraio 2002 n. 17179, Conti, rv.

221403); principio che trova una limitata deroga nei casi in cui l’operatività della causa estintiva presupponga specifici accertamenti e valutazioni che competono al giudice di merito (per es. quando la prescrizione consegua al riconoscimento di attenuanti).

E’ quindi da escludere che alcuna efficacia possano avere, sulla valutazione di cui trattasi, le censure proposte con il sesto e settimo motivo del ricorso H. (violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. in relazione al decesso E.) non senza rilevare, peraltro, che si tratta comunque di censure infondate posto che l’imputato si è ampiamente difeso, fin dal primo grado di giudizio, in relazione a tutte le ipotesi di condotta colposa a lui addebitate e ritenute esistenti dal primo giudice.

E analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda le censure, contenute nel secondo motivo del ricorso L., che si riferiscono alla mancata assunzione di una prova decisiva (peraltro genericamente riferita alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale).

7. L’evidenza della prova dell’innocenza di H..

La valutazione ai fini civili.

Quanto alle altre censure proposte con il ricorso proposto da H. è sufficiente esaminare i pur analitici motivi di appello proposti dall’imputato per verificare che alcuno di essi era idoneo a fondare l’affermazione dell’evidenza della prova della sua innocenza e tanto meno a riaffermarne l’esistenza davanti al giudice di legittimità.

Per avere conferma di ciò basti pensare che è lo stesso appellante a ritenere che la conversione del primo intervento da laparoscopico a laparotomico è ritenuta "quanto meno opinabile" e che sia sull’imprudenza e imperizia di questa scelta sia sulla circostanza che la lesione che ha dato poi luogo alla peritonite fosse stata provocata in questa prima fase, la sentenza di primo grado aveva ampiamente motivato richiamando i pareri dei periti e rispondendo quindi anticipatamente alle critiche rivolte alla sentenza con i motivi di appello.

A fronte di questa ricostruzione da parte del primo giudice non è possibile – per i limiti del giudizio di legittimità – procedere ad una rivalutazione del quadro probatorio tanto più che ai fini penali questo scrutinio incontra i rigorosi limiti già indicati.

Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda l’evoluzione successiva della patologia.

Nei motivi di appello proposti il dott. H. contestava sia la circostanza che la lesione che aveva dato luogo alla peritonite fosse stata provocata dall’intervento in laparoscopia; sia che si fosse verificata una peritonite; sia infine che la morte fosse dovuta alla peritonite e non alla polmonite bilaterale la cui esistenza è stata accertata nell’esame necroscopico.

Ma anche su questi punti i motivi di appello non fornivano elementi nuovi sui quali il giudice di secondo grado potesse fornire una diversa valutazione del quadro probatorio.

Ed è con il riferimento ai pareri dei periti e dei consulenti tecnici del p.m. che la Corte di primo grado, dopo aver ricostruito, nei termini già indicati, la natura colposa delle condotte del dott. H., ricollega ad esse l’evento morte descrivendo anche i comportamenti alternativi leciti (quelli già indicati) che, praticamente in termini di certezza, avrebbero consentito di evitare la morte della paziente.

Contrariamente a quanto si sostiene anche nei motivi di ricorso si tratta dunque di una valutazione non meramente probabilistica, come sosteneva l’appellante, ma compiuta in termini di elevata credibilità razionale secondo i criteri indicati nella già ricordata sentenza Franzese delle sezioni unite di questa Corte.

In realtà, con l’atto di appello, l’imputato mirava soltanto, sulla base dei pareri dei consulenti da lui nominati, a prospettare una diversa valutazione della sua condotta senza peraltro introdurre nel processo alcun elemento nuovo che consentisse di esaminare elementi decisivi idonei a fondare una decisione diversa rispetto a quella del primo giudice che, in buona sostanza, aveva già dato congrua risposta alle censure proposte con l’appello.

Ma v’è da aggiungere, per quanto riguarda la posizione di H., che è agevole verificare come i motivi di appello non solo non consentissero di pervenire ad una conclusione di palese erroneità della decisione del primo giudice – o comunque non consentissero di ritenere che non fossero stati presi in considerazione elementi decisivi per affermare l’evidenza dell’innocenza (che consentirebbe l’applicazione dell’art. 129 del codice di rito, comma 2) – ma altresì non fossero neppure idonei a scalfire la valutazione di colpevolezza ai fini penali con la conseguente infondatezza dell’appello – e anche del ricorso – ai fini civili.

Tutti gli argomenti aventi carattere di decisività sono stati infatti presi in esame dai primi giudici in modo analitico e argomentato e non è ravvisabile in essi alcun elemento di illogicità (anche esaminati congiuntamente ai corrispondenti motivi di ricorso) per cui – pur dovendosi ulteriormente ribadire la scorrettezza motivazionale dei giudici di secondo grado – deve convenirsi che i motivi proposti con l’appello di H. non solo non erano idonei a fondare una valutazione di evidenza della prova dell’innocenza ma altresì non erano idonei ad incrinare la correttezza e logicità della motivazione per quanto riguarda l’esistenza dei presupposti ai fini dell’affermazione della penale responsabilità del dott. H. in relazione al decesso della paziente.

E analoga valutazione va fatta in relazione al contenuto dell’ottavo motivo di ricorso con il quale si ripropongono le censure che riguardano le cause della morte, la contestata natura colposa della condotta del dott. H. – con riferimento sia alla scelta di procedere con laparoscopia sia al trattamento medico successivo all’intervento del (OMISSIS) – la riferibilità della patologia alla perforazione dell’ileo avvenuta nel primo intervento.

Tutti quesiti ai quali la sentenza di primo grado, e quella di appello che l’ha richiamata, hanno fornito ampia e argomentata risposta con il riferimento analitico, preciso e non acritico ai pareri degli esperti (compresi quelli della difesa) senza che sia ravvisabile alcuna illogicità o contraddittorietà che, peraltro, neppure il ricorrente riesce ad individuare.

Dalle considerazioni svolte consegue non solo la conferma della dichiarazione di estinzione del reato nei confronti di H. ma altresì la conferma delle statuizioni civili adottate in entrambi i gradi di giudizio in favore delle costituite parti civili in relazione al caso del decesso E..

8. Evidenza della prova dell’innocenza di L. e M. e valutazione ai fini civili.

Parzialmente diverse sono le conclusioni cui si deve pervenire in relazione alle posizioni dei ricorrenti L. e M. per l’unico reato loro contestato (decesso di E.M.).

Per quanto riguarda la responsabilità penale le conclusioni non possono essere diverse rispetto a quelle adottate per il dott. H..

Entrambi gli appellanti infatti, con i motivi proposti, tendevano in modo evidente ad avvalorare una ricostruzione dei fatti diversa da quella compiuta dal primo giudice e una valutazione delle condotte confliggente con quella da questi compiuta.

Il dott. M. premetteva peraltro, nell’atto di appello, di essere intervenuto nella trattazione del caso, solo il (OMISSIS) cioè all’atto del secondo intervento e che, sia in questo intervento che in quello successivo del (OMISSIS), aveva partecipato quale aiuto del dott. L. capo equipe.

Gli appellanti – dopo aver precisato che entrambi avevano preso in carico il caso solo il (OMISSIS) – ribadivano, nei motivi di appello, la correttezza della scelta dell’anastomosi ed evidenziavano, sia pure con argomentazioni non coincidenti, che la Corte di primo grado non aveva sufficientemente esaminato il problema dell’efficienza causale delle loro condotte se anche dovesse ammettersi che queste condotte potessero essere ritenute imprudenti e imperite.

Come appare evidente si tratta di critiche dirette a rivalutare il caso sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo che sotto quello della causalità ma, per entrambi questi aspetti, inidonee a fondare quella valutazione di evidenza della prova, richiesta dal secondo comma del più volte ricordato art. 129, che consentirebbe l’assoluzione degli imputati nel merito; anche perchè non veniva indicato, nei motivi di appello, alcun elemento decisivo nel senso indicato ma si richiedeva una rivalutazione delle prove assunte.

A maggior ragione, dunque, devono ritenersi infondati i ricorsi proposti diretti esclusivamente alla rivalutazione delle prove assunte nel giudizio di primo grado, in mancanza di alcun vizio di motivazione, non diversamente da quanto si è detto per il ricorso H..

La proposta impugnazione non merita dunque accoglimento per quanto riguarda i fini penali.

Diverse conclusioni devono invece adottarsi per quanto riguarda le statuizioni civili.

Si è visto che, a questi fini, la valutazione del giudice dell’impugnazione non è limitata all’accertamento richiesto dall’art. 129 c.p.p., comma 2 ma deve estendersi alla verifica dell’esistenza dei presupposti per l’affermazione della responsabilità penale.

Va a questo punto precisato che la situazione del dott. M. (che, pur sottolineando, nel primo motivo di ricorso, la sua posizione subordinata rispetto al capo equipe non contesta che la scelta dell’intervento sia anche a lui riferibile) e del dott. L. è ben diversa rispetto a quella del dott. H. in relazione al decesso di cui ci stiamo occupando.

A quest’ultimo risale infatti la decisione iniziale di proseguire l’intervento iniziale in laparoscopia, e non in laparotomia, con la conseguente colposa instaurazione di quel processo patologico, cui si è fatto in precedenza riferimento, ricollegabile alla lesione provocata dall’uso di questa tecnica d’intervento.

Al dott. H. è stato inoltre addebitato di aver sottovalutato i sintomi che, successivamente al 14 gennaio, la paziente presentava ritardando eccessivamente gli interventi ritenuti necessari.

La condotta colposa di H. era stata dunque logicamente individuata dai primi giudici come la causa iniziale di quel processo che ha portato la paziente alla morte.

Le condotte dei medici M. e L. sono state individuate come concause sopravvenute dell’evento (certamente non idonee, da sole, a determinarlo: ma ciò non è affermato da alcuno).

I motivi di appello degli imputati M. e L. rimettevano in discussione sia l’elemento soggettivo (cioè la natura colposa della scelta di procedere all’anastomosi anzichè all’ileostomia) che il problema della causalità. Sotto il primo profilo il rinvio per relationem – operato dal giudice di appello alla sentenza di primo grado – appare sufficiente a far ritenere adempiuto (sia pure irritualmente) l’obbligo della motivazione perchè i primi giudici avevano ampiamente motivato sulla non conformità della scelta alle regole dell’arte medica essendo prevedibile che la sutura non avrebbe retto per le caratteristiche diffusive e ingravescenti della peritonite.

Anche sull’efficienza causale della condotta colposa dei medici M. e L. la sentenza di primo grado ha motivato in modo adeguato e non illogico senza che a queste conclusioni i motivi di appello degli imputati abbiano contrapposto contrarie considerazioni decisive analogamente a quanto prospettato in questa sede.

Ma resta un punto decisivo – che si pone al confine tra elemento soggettivo e causalità – che non è stato sufficientemente esplorato dai primi giudici e che, se si fossero ritenute fondate le critiche proposte con gli appelli, avrebbe potuto condurre ad un diverso esito del processo nei confronti dei due imputati (ma non del dott. H.).

Come si sottolineava in entrambi gli appelli i due imputati sono stati investiti di una posizione di garanzia della paziente solo il (OMISSIS) e ad entrambi è stato addebitato di non aver proceduto – sia nell’intervento effettuato in questo giorno che in quello successivo del (OMISSIS) – ad un intervento di ileostomia.

Questo tipo di intervento (l’ileostomia) è stato poi eseguito dal dott. H. il (OMISSIS) successivo.

Il comportamento alternativo lecito richiesto a M. e H. era dunque l’esecuzione di un’ileostomia che poi è stata eseguita in ritardo da altri.

Ma i giudici di primo grado non hanno affrontato il problema se – ammesso in ipotesi (giudizio controfattuale) che fosse stata eseguita l’ileostomia il (OMISSIS) – la paziente si sarebbe salvata in termini di elevata credibilità razionale secondo i criteri indicati dalla già menzionata sentenza Franzese.

Non è infatti sufficiente che l’agente abbia violato la regola cautelare, che questa violazione abbia contribuito a cagionare l’evento e che quel tipo di eventi fosse ricompreso nella previsione della norma cautelare.

E’ necessario che venga individuata anche la condotta ("comportamento alternativo lecito"; ma in dottrina vi è chi preferisce denominarlo "comportamento alternativo diligente") che, se posta in essere, avrebbe evitato il verificarsi dell’evento che dunque non solo deve essere prevedibile ma altresì evitabile o prevenibile.

Fondate o infondate che fossero dunque le censure proposte sotto questo profilo era obbligo del giudice dell’impugnazione esaminarle perchè ponevano in discussione elementi fondamentali della responsabilità penale (rapporto di causalità tra la condotta e l’evento ed elemento soggettivo) e ai temi proposti alcuna risposta era stata data dal primo giudice che non aveva compiuto il giudizio controfattuale riferendolo all’ipotesi che l’ileostomia fosse stata praticata il (OMISSIS).

Solo se fosse stato possibile dare una risposta positiva a questo quesito (la paziente si sarebbe salvata se il (OMISSIS) le fosse stata praticata l’ileostomia) potevano ritenersi esistenti tutti i presupposti per l’affermazione della responsabilità penale.

Anche perchè non emerge dagli atti che l’intervento del (OMISSIS) sia stato praticato senza l’osservanza delle regole dell’arte medica.

La conclusione non può che essere l’annullamento, su questo punto (efficienza salvifica del comportamento alternativo lecito), della sentenza impugnata nei confronti di M. e L. con rinvio al giudice civile indicato nell’art. 622 c.p.p..

9. Il ricorso del Procuratore generale nei confronti di D. P. e I.D..

Va premesso, in relazione all’ultimo motivo del ricorso del Procuratore generale, che alla correzione dell’errore materiale denunziato, ha già provveduto la Corte d’Assise d’Appello con provvedimento in data 21 luglio 2009.

Quanto alle censure proposte nei confronti dei medici D. e I. (nei confronti dei quali il reato sarebbe comunque prescritto;

ma si veda quanto già detto sui principi affermati dalla sentenza Tettamanti) in relazione al decesso di E.M. deve rilevarsene l’infondatezza.

In questo caso la sentenza impugnata non si limita ad un generico rinvio a quella di primo grado ma ne riporta un passo significativo (condividendolo) riguardante l’addebito di colpa relativo al tipo di intervento prescelto il (OMISSIS) e questa parte appare del tutto coerente con l’esclusione della colpa per quanto riguarda i due medici perchè è emerso, nei giudizi di merito, che, in quell’occasione, il dott. H. ebbe ad assumere in carico il caso e, come si è già visto in precedenza, egli non tollerava obiezioni alle sue scelte.

Il primo giudice ha inoltre motivatamente escluso che la perforazione dell’ansa ileatica possa essere avvenuta ad opera di D..

Quanto al periodo successivo vanno riproposte le argomentazioni già svolte sul rinvio per relationem alla sentenza di primo grado.

I primi giudici hanno rilevato, quanto al dott. D., che questi era stato in ferie per la più parte dei giorni successivi all’intervento del (OMISSIS) e comunque non risulta da alcun atto del processo che, nel trattamento post operatorio, il medesimo o il dott. I. siano stati in qualche modo coinvolti non potendosi ritenere sufficiente, per l’acquisizione di una posizione di garanzia, che i predetti medici prestassero servizio presso il reparto dove la paziente era ricoverata se difetti la prova dell’instaurazione di un rapporto terapeutico con la medesima.

Ne consegue l’infondatezza dei motivi proposti con il ricorso del Procuratore generale nei confronti di questi due imputati con il conseguente rigetto dell’impugnazione.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, sezione 4^ penale, in accoglimento del ricorso del procuratore generale, annulla la sentenza impugnata limitatamente all’imputazione di cui al capo A (decesso di To.Fe.) nei confronti di H.C. con rinvio ad altra sezione della Corte d’Assise di appello di Roma cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti del presente giudizio.

Rigetta il ricorso di H.C. relativamente all’imputazione di cui al capo C (decesso di E.M.) e lo condanna alla refusione delle spese alla parte civile Ma.

F. che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre accessori come per legge.

Rigetta ai fini penali i ricorsi di L.M.M. e M. A. e annulla la sentenza impugnata ai fini civili nei confronti dei medesimi imputati con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Rigetta il ricorso del procuratore generale nei confronti di D.P. e I.D..

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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