Cassazione penale 6215/2010 Cooperazione colposa nell’attività del medico: ecco di cosa si tratta!

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

OSSERVA

1^) La sentenza di primo grado.

Il Tribunale di Monza, con sentenza 3 marzo 2005, dichiarava P.G.B., V.S. e C.M. colpevoli del reato di omicidio colposo in danno di CR. A., deceduto in (OMISSIS), e li condannava ciascuno alla pena di mesi otto di reclusione oltre alle statuizioni accessorie e a quelle riguardanti l’azione civile.

Il primo giudice riferiva che la persona offesa era stata visitata il 19 gennaio 2002 presso il pronto soccorso dell’ospedale (OMISSIS) perchè sofferente di ernia del disco.

Rientrato nella sua abitazione, e persistendo la sintomatologia dolorosa, CR. veniva visitato, il 26 gennaio 2002, dal dott. P.G.B. il quale ne disponeva il ricovero nel reparto di neurochirurgia per un intervento Chirurgico che veniva eseguito il (OMISSIS).

Il (OMISSIS) successivo il paziente avrebbe dovuto essere dimesso ma, verso le ore nove, iniziava ad accusare forti dolori alla bocca dello stomaco che perduravano per tutta la giornata, sia pure con parziali remissioni, fino a che, verso le ore 23, avveniva il decesso.

Secondo gli accertamenti svolti nel processo di primo grado l’evento doveva essere ricondotto ad un "infarto miocardio acuto della parete posteriore e settale del ventricolo sinistro, con trombosi del ramo interventricolare anteriore coronario" sopravvenuto nella giornata del (OMISSIS) diverse ore prima del decesso e non riconosciuto dai medici della predetta struttura ospedaliera.

Secondo il Tribunale in base all’esito dell’autopsia la gravità dell’infarto era talmente macroscopica che il suo inizio doveva risalire ad almeno 6-7 ore precedenti il decesso mentre l’aumento di un enzima denominato CPK, rilevato alle ore 16,23, era idoneo a dimostrare che l’infarto era iniziato da almeno 4-8 ore.

Per il primo giudice del ritardato e inadeguato trattamento dell’infarto, non riconosciuto tempestivamente, dovevano ritenersi responsabili la dott. C., medico specializzando, che, pur avendo tempestivamente disposto l’esecuzione di un elettrocardiogramma verso le ore 11, non aveva riconosciuto alcuni indizi di sofferenza cardiologia già presenti – soprattutto se il referto fosse stato esaminato comparativamente con quello eseguito il 26 gennaio precedente – e aveva omesso di disporre gli approfondimenti necessari (peraltro resi necessari dall’esito del referto che si esprimeva per l’esistenza di una aritmia ventricolare sinistra in un tracciato che veniva definito "ai limiti della norma").

Ma anche il dott. P. – neurochirurgo che aveva operato il paziente il 26 gennaio e ne aveva seguito il decorso operatorio – era incorso in una condotta negligente.

Risulta dalla cartella clinica che alle ore 13 circa del (OMISSIS) egli aveva visitato il paziente ed esaminato l’elettrocardiogramma poco prima eseguito; aveva quindi omesso gli stessi approfondimenti la cui mancanza era stata addebitata alla dott. C..

Inoltre il dott. P. si era allontanato dal reparto senza attendere gli esiti delle indagini disposte ed in particolare di quelle che segnalavano un’alterazione dei valori dell’enzima CPK significativa di una sofferenza cardiaca.

Quanto alla dott. V., subentrata in reparto alle ore 20,30, la stessa si era limitata ad annotare in cartella clinica che alle ore 21 il dolore era in diminuzione; aveva invece omesso di valutare gli esiti delle indagini cliniche (nel frattempo pervenuti) che escludevano alcune delle ipotesi alternative in precedenza formulate, segnalavano la già indicata alterazione del valore CPK e dunque dovevano indurre ad un approfondimento della situazione cardiologia.

Quanto all’esistenza del rapporto di causalità tra le condotte colpose indicate e l’evento il Tribunale ne ha ritenuto l’esistenza con riferimento alle caratteristiche della patologia e alle possibilità salvifiche di corretti interventi terapeutici.

2^) La sentenza d’appello.

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza 28 giugno 2007, ha confermato l’affermazione di responsabilità degli imputati ai quali ha peraltro ridotto la pena inflitta dal primo giudice a mesi cinque di reclusione ciascuno convertendola nella corrispondente pena pecuniaria.

Ha inoltre annullato le statuizioni civili in considerazione delle revoca della costituzione di parte civile intervenuta a seguito del risarcimento del danno.

La Corte di merito, esaminando singolarmente le posizioni dei tre imputati, ha sostanzialmente confermato le valutazioni espresse dal primo giudice sia sugli elementi di colpa ravvisati nelle condotte degli appellanti sia sull’efficienza causale di tali condotte colpose sul verificarsi dell’evento.

Ha respinto inoltre una serie di eccezioni processuali formulate dalla difesa dell’imputata V..

3^) Il ricorso di P.G.B..

Contro la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso tutti gli imputati.

P.G.B. ha dedotto, come primo motivo di censura, l’inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. nonchè la mancanza o manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’esistenza del rapporto di causalità.

Il ricorrente premette che, fino alla fine del suo turno di servizio (ore 17) del (OMISSIS), gli unici sintomi riscontrabile sul paziente erano quelli riferibili ad una patologia gastrica.

Il valore degli enzimi CPK rilevati alle ore 16,23 non erano infatti assolutamente significativi di una sofferenza cardiaca.

Ne consegue che, non essendo possibile accertare il momento in cui è insorto l’infarto, non può essere ritenuta provata l’esistenza del rapporto di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento.

Con il secondo motivo si deducono l’inosservanza degli artt. 42 e 43 c.p. e art. 192 c.p.p., nonchè la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione, sull’affermazione dell’esistenza della colpa.

Tutte le prove acquisite al dibattimento confermerebbero, secondo il ricorrente, la correttezza della diagnosi alternativa da lui formulata nè l’esito del tracciato elettrocardiografico è stato ritenuto dagli esperti tale da porre il sospetto di una sofferenza cardiaca.

Del resto il dott. P. aveva trasmesso il tracciato ad una specialista cardiologa che aveva fatto pervenire il referto dopo che egli aveva lasciato il servizio così come il referto sugli enzimi CPK era pervenuto quando egli non era più in servizio.

E su tali aspetti la Corte di merito ha omesso ogni motivazione.

Il ricorrente poi indica analiticamente gli elementi fattuali dai quali risultano: l’infondatezza dell’affermazione che, al momento dell’esecuzione dell’esame degli enzimi CPK, l’infarto fosse insorto da almeno quattro ore; l’erroneità della affermazione che la radiografia avesse escluso la presenza di patologie addominali;

l’illogicità dell’affermazione che fosse irrilevante l’attenuazione dei sintomi in presenza dei valori CPK; il contrasto con tutte le prove assunte dell’affermazione che il dott. P. avesse abbandonato il paziente alla fine del turno (il ricorrente non era di turno e comunque aveva affidato il paziente al medico di turno);

l’omesso rilievo che, al momento dell’allontanamento, non erano ancora pervenuti i risultati dell’indagine addominale;

l’omessa considerazione che l’esame clinico del paziente era del tutto negativo per l’esistenza di una patologia cardiaca.

In conclusione, secondo il ricorrente, da tutti gli elementi acquisiti al processo, e anche dalle conclusioni dei consulenti tecnici del p.m., emergerebbe che al momento del passaggio delle consegue ad altro medico (il dott. GU.) non esisteva ancora alcun elemento di sospetto per una patologia quale quella poi accertata.

4^) Il ricorso di V.S..

L’imputata V. ha proposto i seguenti motivi di censura nei confronti della sentenza di secondo grado:

la nullità del processo d’appello per l’omessa notifica della citazione dell’imputata ad un’udienza di rinvio senza che venisse dichiarata la contumacia;

l’indeterminatezza del capo d’imputazione e la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui ha respinto la relativa eccezione;

la violazione dell’art. 622 c.p.p. in quanto il fatto per il quale l’imputata è stata condannata è radicalmente diverso rispetto a quello contestato: il capo d’imputazione ipotizzava infatti una forma di cooperazione colposa mentre le sentenze di merito fanno riferimento a condotte colpose indipendenti;

la nullità dell’ordinanza 27 maggio 2004 con la quale venivano ammesse le prove dedotte dal p.m. ed in particolare l’esame del consulente tecnico del medesimo p.m. peraltro indicato come testimone nella lista testi e quindi incompatibile con tale qualità e senza che venisse concessa alla ricorrente la facoltà di controprova;

la violazione dell’art. 526 del codice di rito per essere, le sentenze di merito, fondate su prove illegittimamente acquisite ed in particolare sulla deposizione del dott. T.A. che, essendo stato indagato per il reato in esame (per il quale era poi intervenuta archiviazione), avrebbe dovuto essere sentito come testimone e non come indagato in procedimento connesso;

la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e in relazione all’affermazione della penale responsabilità dell’imputata per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione risultante anche dagli atti processuali che vengono indicati.

La sentenza impugnata avrebbe confermato, secondo la ricorrente, l’erroneo accertamento del primo giudice secondo cui – nel momento in cui la dott. V. è subentrata nel turno – persisteva il dolore del paziente mentre, da tutti gli elementi di prova acquisiti (che vengono specificamente indicati), emergeva il contrario per cui alcuna situazione di allarme poteva indurre la ricorrente ad approfondimenti ulteriori e, in ogni caso, i sintomi presentati, erano riconducibili ad altre cause e quindi non univoci nel senso di una patologia di natura cardiaca.

Inoltre la sentenza impugnata difetterebbe di motivazione sui rilievi critici prospettati dal consulente di parte;

la violazione di legge e la mancanza di motivazione sulla determinazione della pena fissata in misura uguale per tutti gli imputati malgrado la diversa posizione dei medesimi.

5^) Il ricorso di C.M..

Anche C.M. ha proposto ricorso contro la già ricordata sentenza della Corte milanese e ha dedotto i seguenti motivi di censura:

la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 522 c.p.p. perchè l’imputata sarebbe stata condannata per la sua condotta colposa indipendente malgrado fosse stata contestata la cooperazione colposa;

il vizio di motivazione con riferimento alla ravvisata esistenza della colpa nella sua condotta;

non era esigibile una condotta diversa perchè tutti gli elementi a disposizione erano significativi per una patologia addominale e perchè il paziente aveva avuto già avuto significativi episodi di tale natura mentre alcun elemento esisteva a favore di una diagnosi differenziale di natura cardiaca;

il medesimo vizio per non avere, la Corte di merito, adeguatamente valutato la qualità di specializzando della dott. C. presente in reparto esclusivamente per finalità formative per cui non poteva ritenersi da lei esigibile una conoscenza in materia cardiologica quale quella ipotizzata nella sentenza impugnata che sembra richiedere una diligenza addirittura superiore a quella dello specialista cardiologo.

La ricorrente censura poi la sentenza impugnata sotto il profilo dell’affermazione dell’esistenza del rapporto di causalità rilevando come, nel momento in cui la dott. C. aveva lasciato il reparto, non esistesse alcun elemento idoneo a fondare l’ipotesi che l’infarto fosse già in atto da alcune ore per cui alcun apporto causale può aver cagionato la ricorrente al verificarsi dell’evento;

del resto la sentenza di secondo grado non ha in alcun modo motivato sui motivi di appello proposti sul punto.

Inoltre non si sarebbe tenuto conto che, anche ammettendo un’efficienza causale della sua condotta, si sarebbe verificata l’interruzione del rapporto di causalità per la condotta dei medici che hanno successivamente trattato il caso.

Del resto l’evidenza diagnostica si è avuta nel momento in cui è emersa l’alterazione del valore del CPK (alle ore 16,23) ed è stata esclusa la patologia addominale (alle 15,59) per cui la condotta della ricorrente non può che essere ricondotta alla nozione di occasione e non a quella di causa.

Infine la ricorrente censura la sentenza impugnata, per vizio di motivazione, in ordine al trattamento sanzionatorio.

6^) Le questioni processuali proposte da V.S.. a) la mancata citazione nel giudizio drappello.

Come si è già accennato l’imputata V. ha pregiudizialmente eccepito di non essere stata citata nel giudizio di appello per un’udienza di rinvio senza che fosse stata preventivamente dichiarata la sua contumacia.

L’imputata, dopo aver ricevuto regolarmente il decreto di citazione in appello per l’udienza del 1 dicembre 2006, in questa udienza non compariva e il processo veniva rinviato, senza che venisse dichiarata la sua contumacia, all’udienza del 29 marzo 2007; del rinvio dell’udienza non veniva dato all’imputata alcun avviso e alla successiva udienza veniva dichiarata la sua contumacia.

La situazione descritta ha certamente leso il diritto dell’imputata a ricevere una nuova citazione perchè, in mancanza della dichiarazione di contumacia, l’imputata non poteva essere rappresentata dal difensore nè veniva accertato se la mancata presenza era dovuta a legittimo impedimento (cfr. Cass., sez. 6^, 21 marzo 2006 n. 15862, Terlizzi, rv. 234549).

Peraltro la nullità, non rientrando tra quelle previste dall’art. 179 c.p.p. (in particolare non potendosi considerare omessa la citazione, in effetti già regolarmente effettuata, ma trattandosi di sua omessa rinnovazione), doveva essere eccepita nei termini previsti dall’art. 182, comma 2 del codice di rito (cfr. Cass., sez. 2^, 19 maggio 2009 n. 25675, Furgone, rv. 244170; 12 marzo 2008 n. 15417, Cattaneo, rv. 239793).

Nel caso di specie non risulta – e neppure l’appellante l’afferma – che l’eccezione sia stata proposta all’udienza del 29 marzo 2008 per cui la nullità non poteva essere dedotta con il ricorso in cassazione. b) l’incompatibilità con l’ufficio di testimone del consulente tecnico del pubblico ministero.

Il motivo è inammissibile per mancanza di decisività.

La ricorrente, con il proposto motivo, avrebbe dovuto quanto meno indicare le circostanze – decisive e rilevanti ai fini della decisione – risultanti dall’esame del consulente tecnico dott.ssa PE. che erano state prese in considerazione dai giudici di merito e avevano avuto influenza sulla decisione.

La violazione delle regole processuali rileva infatti se abbia avuto un’influenza decisiva sulla decisione.

Ma se, come nel caso di specie, questa influenza non si è verificata – perchè la sentenza impugnata alcun cenno fa alle dichiarazioni rese dal consulente tecnico dott.ssa PE. – deve pervenirsi alla conclusione che difetti l’interesse all’impugnazione del provvedimento per mancanza di decisività dell’eccezione. c) Modalità di assunzione delle dichiarazioni di T.A..

Si tratta di un medico, inizialmente indagato, nei cui confronti era stata richiesta e disposta l’archiviazione e la ricorrente contesta che sia stata disposto il suo esame in qualità di imputato in procedimento connesso ai sensi dell’art. 210 del codice di rito.

In astratto la censura appare fondata. Come è stato di recente affermato dalle sezioni unite di questa Corte (sentenza 17 dicembre 2009, De Simone, successiva alla decisione intervenuta nel presente giudizio) l’indagato in procedimento connesso o collegato può assumere l’ufficio di testimone salva l’ipotesi in cui la sua posizione abbia formato oggetto di archiviazione.

Ciò non ostante anche in questo caso la censura è priva di decisività perchè la sentenza impugnata non utilizza nei confronti della dott. V. le dichiarazioni del dott. T.A..

Al contrario, come hanno sottolineato i giudici di appello, il contenuto di queste dichiarazioni è completamente estraneo alla posizione della dott. V. avendo il medico predetto dichiarato di aver visto il paziente verso le ore 13 mentre, come si è già precisato, la ricorrente è subentrata in reparto verso le ore 20,30. 7^) Genericità dell’imputazione e corrispondenza tra accusa e sentenza.

Parimenti infondati sono i motivi che si riferiscono alla genericità dell’imputazione e alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di condanna (quest’ultima censura è proposta anche dalla dott. C.).

Esaminando preliminarmente questa seconda eccezione, proposta dalle due imputate, deve osservarsi che la giurisprudenza di legittimità si ispira, nel verificare la mancata corrispondenza tra accusa contestata e fatto ritenuto in sentenza, al principio secondo cui il parametro che consente di verificare, nel caso in cui sia accertato lo scostamento indicato, l’esistenza della violazione del principio in questione è costituito dal rispetto del diritto di difesa nel senso che l’imputato deve avere avuto, in concreto, la possibilità di difendersi dall’addebito contestatogli.

Si ha dunque il rispetto del principio nei casi in cui della violazione poi ritenuta in sentenza si sia trattato nelle varie fasi del processo ovvero in quelli nei quali sia stato lo stesso imputato ad evidenziare il fatto diverso quale elemento a sua discolpa (si vedano in questo senso, da ultimo, Cass., sez. 4^, 15 gennaio 2007 n. 10103, Granata, rv. 236099; sez. 2^, 23 novembre 2005 n. 46242, Mignatta, rv. 232774; sez. 4^, 17 novembre 2005 n. 2393, Tucci, rv.

232973; 10 novembre 2005 n. 47365, Codini, rv. 233182; 25 ottobre 2005 n. 41663, Canonizzo, rv. 232423; 4 maggio 2005 n. 38818, De Bona, rv. 232427; sez. 1^, 10 dicembre 2004 n. 4655, Addis, rv.

230771).

Naturalmente non deve trattarsi di fatto completamente diverso ed eterogeno in cui l’imputazione venga immutata nei suoi elementi essenziali (v. Cass., sez. 1^, 14 aprile 1999 n. 6302, Iacovone; sez. 6^, 14 gennaio 1999 n. 2642, Catone).

E’ inoltre indiscusso che, se effettivamente verificatasi, la nullità, è di ordine generale a regime intermedio e deve essere dedotta nei limiti previsti dagli artt. 180 e 182 c.p.p. (in questo senso v. Cass., sez. 2^, 17 maggio 2006 n. 19585, Antonuccio, rv.

234199; sez. 4^, 29 novembre 2005 n. 14180, Pelle, rv. 233952; sez. 5^, 28 settembre 2005 n. 44008, Di Benedetto, rv. 232805).

Analoghi principi possono essere affermati anche per quanto riguarda l’asserita genericità dell’imputazione.

Premesso che le ricorrenti non affermano, nei motivi di ricorso, di aver tempestivamente eccepito il vizio oggi denunziato nei termini indicati e neppure nel corso dell’udienza preliminare è da rilevare che, nel caso in esame, già nel giudizio di primo grado (si vedano le pag. 10 e ss. ss. della sentenza del Tribunale di Monza) le imputate ebbero a difendersi ampiamente nel corso del loro esame e i loro consulenti tecnici furono esaminati su tutti gli aspetti che poi sono stati presi in considerazione dalla sentenze di merito con riferimento a tutti gli aspetti dell’accusa formulata nei confronti delle imputate per cui la verifica dell’assenza di un pregiudizio per la loro difesa non può che concludersi negativamente.

In relazione alle eccezioni proposte dalle imputate deve dunque affermarsi che, se anche dovesse ritenersi generica l’imputazione e verificato lo scostamento verificatosi in concreto non vi sarebbe stata alcuna lesione del diritto di difesa essendosi, delle violazioni di regole dell’arte medica contestate, ampiamente discusso anche nel corso del giudizio di primo grado ed avendo avuto, le imputate, ampie garanzie e possibilità difensive su tutti i punti dell’accusa posti a fondamento della sentenza di condanna.

8^) Cooperazione colposa e concorso di cause indipendenti.

In generale.

Ciò premesso in generale va però rilevato che le ricorrenti C. e V. pongono il problema della corrispondenza tra contestazione e sentenza anche sotto un profilo particolare sottolineando come fosse stata loro contestata, nell’imputazione, la cooperazione colposa mentre sarebbe poi stata affermata nelle sentenze di merito l’esistenza di cause colpose indipendenti con la conseguente violazione del già ricordato principio di corrispondenza tra accusa e decisione.

In relazione a questo motivo va peraltro rilevato preliminarmente che è inesatto il presupposto su cui si fonda perchè la sentenza d’appello (v. p. 17) sembra invece propendere per la tesi della cooperazione colposa e non per quelle delle cause indipendenti.

In ogni caso la censura sarebbe infondata; il suo esame richiede però che venga premessa una breve sintesi dei principi che riguardano il tema proposto.

Com’è noto il problema della configurabilità del concorso di persone nel reato colposo è stato risolto, dal legislatore del codice penale vigente, con l’introduzione della c.d. cooperazione colposa disciplinata dall’art. 113 c.p. che, in realtà, non differenzia il trattamento sanzionatorio rispetto a quello delle condotte indipendenti ma si limita a prevedere alcune aggravanti tipiche del concorso di persone nel reato (doloso).

Ed è stato precisato che ciò che contraddistingue questa forma di concorso (detto anche "improprio") è il legame psicologico che si instaura tra gli agenti ognuno dei quali è conscio della condotta degli altri.

Naturalmente la consapevolezza riguarda esclusivamente la partecipazione di altri soggetti e non, come è ovvio trattandosi di reati colposi, il verificarsi dell’evento.

Non sembra però che, per ritenere esistente la cooperazione colposa, sia richiesto un dippiù costituito dalla specifica coscienza o conoscenza sia delle persone che cooperano sia delle specifiche condotte da ciascuno poste in essere.

Non ignora la Corte che una corrente dottrinale sostiene che, per ipotizzare la cooperazione, sia necessaria la consapevolezza anche della natura colposa dell’altrui condotta ma questa tesi non è mai stata condivisa dalla dottrina dominante che ha obiettato che, richiedendo questo requisito, la cooperazione sarebbe configurabile solo nel caso di colpa cosciente.

Se, come è comunemente ritenuto, è invece sufficiente la coscienza dell’altrui partecipazione e non è invece necessaria la conoscenza delle specifiche condotte nè dell’identità dei partecipi può trarsi la conclusione che la cooperazione è ipotizzabile anche in tutte quelle ipotesi nelle quali un soggetto interviene essendo a conoscenza che la trattazione del caso non è a lui soltanto riservata perchè anche altri operanti nella medesima struttura ne sono investiti.

Per esemplificare: il medico di fiducia non è a conoscenza che il paziente da lui assistito si rivolgerà anche ad altro medico e se entrambi hanno colposamente errato nella terapia le eventuali conseguenze dannose saranno a loro addebitate a titolo di condotte colpose indipendenti.

Ma il medico di reparto che ha seguito il trattamento terapeutico è cosciente che, finito il turno, altro medico gli subentrerà anche se non ne conosce il nome e anche se non è a conoscenza se l’altro medico seguirà il medesimo indirizzo terapeutico; ma se ciò avverrà e la terapia errata provocherà un evento dannoso appare più corretto ipotizzare la cooperazione perchè ciascuno dei due medici (anche se non hanno concordato la terapia e non hanno avuto alcun contatto tra di loro) è consapevole dell’intervento dell’altro.

Queste conclusioni non riguardano soltanto l’organizzazione sanitaria perchè analoghi esempi possono farsi in relazione ad altre organizzazioni complesse quali le imprese e settori della pubblica amministrazione (si pensi alla formazione di atti complessi nei quali confluiscano atti adottati da persone diverse in tempi diversi senza alcun rapporto tra i partecipi).

Orbene in tutti questi casi esiste il legame psicologico previsto per la cooperazione colposa perchè ciascuno degli agenti è conscio che altro soggetto (medico, pubblico funzionario, dirigente ecc.) ha partecipato o parteciperà alla trattazione del caso;

in particolare, per quanto riguarda l’attività medico chirurgica, l’agente è consapevole che, per quella specifica patologia che ha condotto a sottoporre il paziente al trattamento terapeutico, altri medici sono investiti del medesimo trattamento.

Ne consegue che correttamente, nel nostro caso, è stata contestata (e ritenuta dal giudice d’appello) la cooperazione colposa.

9^) Cooperazione colposa e violazione del principio di corrispondenza tra contestazione e sentenza.

Alla luce delle considerazioni svolte, e tenuto conto dei principi enunciati, la censura proposta dovrebbe comunque essere ritenuta inammissibile sotto un diverso profilo anche se il presupposto da cui prendono le mosse le censure sul punto fosse da ritenere corretto.

Deve infatti rilevarsi che il sistema delle impugnazioni in materia (non solo) penale non è finalizzato soltanto alla corretta applicazione delle norme giuridiche e all’esatto inquadramento di un fatto in istituti giuridici ma altresì alle conseguenze che dalla scorretta applicazione delle norme possono derivare.

L’erronea tesi giuridica applicata dal giudice, ove non si rifletta sull’erroneità della decisione, non rileva ai fini dell’impugnazione perchè in questi casi difetta l’interesse ad impugnare.

Questo principio, nel giudizio di legittimità, è esplicitato nell’art. 619, comma 1 del codice di rito secondo cui "gli errori di diritto nella motivazione e le erronee indicazioni di testi di legge non producono l’annullamento della sentenza impugnata, se non hanno avuto influenza decisiva sul dispositivo".

Questa disposizione si ricollega al principio generale sulle impugnazioni contenuto nell’art. 568 c.p.p., comma 4 che prescrive che "per proporre impugnazione è necessario avervi interesse" con la conseguente sanzione di inammissibilità quando difetti questo requisito (art. 591, comma 1, lett. a del medesimo codice).

E l’interesse preso in considerazione dalla legge non è mai un interesse teorico alla correttezza della tesi giuridica sostenuta o accolta dal giudice ma quello pratico che si riflette sul contenuto della decisione (analoga soluzione è prevista per il giudizio civile davanti alla Corte di cassazione dall’art. 384 c.p.c., comma 4).

Tornando alla denunziata violazione dell’art. 521 c.p.p., va osservato che sarebbe ben difficilmente individuabile una mancata corrispondenza tra la contestazione e il fatto ritenuto.

La cooperazione colposa, come si è già accennato, si caratterizza per un dippiù sotto il profilo psicologico (la consapevolezza dell’altrui condotta); se viene meno questo aspetto si ha il concorso di cause indipendenti e quindi non si ha alcuna immutazione dell’imputazione perchè la condotta materiale accertata era ricompresa in quella contestata.

D’altro canto, nel caso in esame, neppure le ricorrenti sono state in grado di indicare l’effetto pratico che deriverebbe dall’accoglimento della loro tesi anche perchè, nei ricorsi, ci si limita ad evidenziare il solo scostamento tra accusa e sentenza (conseguente alla ritenuta esistenza del concorso di causa indipendenti invece della contestata cooperazione colposa) senza neppure indicare quale tesi possa ritenersi corretta secondo la loro impostazione.

In realtà un interesse pratico all’accoglimento di una censura riguardanti le due forme di "concorso" nel reato colposo potrebbe eventualmente ed astrattamente ipotizzarsi nel caso opposto in cui fosse stata ritenuta la cooperazione colposa – malgrado la contestazione fosse riferita all’esistenza di condotte colpose indipendenti – ove fossero state riconosciute le aggravanti previste dall’art. 113 c.p., comma 2 che, peraltro, nel caso in esame non sono state contestate ovvero nel caso (assai discusso in dottrina e comunque nella specie neppure ipotizzato) in cui la partecipazione cosciente all’altrui comportamento colposo non sia accompagnata dalla violazione di una regola precauzionale.

Ne consegue che la censura è comunque da ritenere inammissibile per mancanza di interesse.

10^) Il rapporto di causalità. Premessa.

Nel presente processo non è in discussione il problema relativo all’accertamento della causalità materiale dell’evento essendo indiscusso, e non contestato dalle parti, che causa materiale della morte di CR.AM. sia stata un infarto del miocardio nè alcuno ha ipotizzato una possibile causa alternativa dell’evento.

Nei ricorsi si discute invece di quale sia stato il momento di insorgenza dell’infarto e dunque se la condotta degli imputati abbia avuto efficienza causale sulla verificazione dell’evento e se, ipotizzata una loro condotta alternativa lecita rispettosa delle leggi dell’arte medica (se cioè la patologia fosse stata tempestivamente diagnosticata e curata), si sarebbe salvata la vita del paziente in termini di elevata credibilità razionale.

A questi quesiti i giudici di merito hanno dato una risposta appagante e conforme ai principi enunciati nella sentenza delle sezioni unite 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese, rv. 222138.

Com’è noto questa sentenza ha indicato una via che riconduce la soluzione del problema all’accertamento processuale dell’esistenza del nesso di condizionamento alla stregua di quei canoni di "certezza processuale", non dissimili da quelli utilizzati per l’accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie, che conduca, all’esito del ragionamento di tipo induttivo, ad un giudizio caratterizzato da "alto grado di credibilità razionale".

In quest’ottica, secondo la sentenza citata, "non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico "prossimo ad 1", cioè alla "certezza", quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento".

Con riferimento alla scienza medica, ma con argomentazioni di carattere generale utilizzabili anche in altri settori, le sezioni unite, da questa considerazione, traggono la conclusione che la "certezza processuale" può derivare anche dall’esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità c.d. frequentista quando, corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza, nel caso di specie, di altri fattori interagenti, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del rapporto di causalità.

Per converso livelli elevati di probabilità statistica o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse.

Con la conseguenza che non è "consentito dedurre automaticamente – e proporzionalmente – dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità".

E’ inadeguato, infatti, secondo la sentenza in esame, esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum mediante coefficienti numerici mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi per cui le sezioni unite mostrano di condividere quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alla c.d.

"probabilità logica" che, rispetto alla ed. "probabilità statistica", consente la verifica aggiuntiva dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica al singolo evento.

Solo con l’utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull’esistenza del rapporto di causalità con criteri non dissimili "dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 c.p.p., comma 2" al fine di pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che "esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione "necessaria" dell’evento, attribuibile per ciò all’"agente come fatto proprio".

Mentre l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio, e quindi il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva, non possono che condurre alla negazione dell’esistenza del nesso di condizionamento.

Il problema che si pone nel presente processo è pertanto quello di verificare se i giudici di merito abbiano fornito di adeguata motivazione la loro valutazione sull’efficienza causale delle condotte colpose accertate degli imputati C. e P. (nel ricorso della dott. V. non si propongono motivi relativi all’esistenza del rapporto di causalità ma solo censure riguardanti la colpa dell’imputata) ricollegandole all’evento in termini di "alto grado di credibilità razionale" nel quale si sostanzia la certezza processuale come affermato dalle sezioni unite nella sentenza ricordata.

Su questi temi i giudici di merito hanno espresso una valutazione del tutto rispondente ai canoni indicati nella sentenza Franzese delle sezioni unite perchè, indipendentemente dall’accertamento dell’efficacia causale delle singole condotte colpose (la cui esistenza potrà essere verificata solo dopo l’esame dei motivi di ricorso che riguardano la natura colposa delle diverse condotte degli imputati), i giudici di merito hanno accertato che la vita del paziente si sarebbe salvata, praticamente in termini di certezza, se la dott. C. e il dott. P. fossero intervenuti tempestivamente e in modo adeguato.

Questa valutazione è stata condotta, dai giudici di merito, secondo i riferiti criteri di probabilità logica rilevando che il trattamento di un infarto, sia pure di rilevante gravità, diagnosticato con otto dieci ore di anticipo rispetto all’evoluzione mortale, in ambiente ospedaliero e con la disponibilità immediata dell’unità coronarica ha infatti elevatissime probabilità di successo anche in considerazione dell’età del paziente (che aveva 55 anni) e dell’assenza di precedenti patologie di natura cardiaca.

Per quanto riguarda invece l’accertamento del momento dell’insorgenza dell’infarto le censure proposte dagli imputati C. e P. – evidentemente dirette a posticipare il momento dell’insorgenza di tale patologia per escludere una rilevanza causale della loro condotta sul verificarsi dell’evento – sono inammissibili nel giudizio di legittimità.

I giudici di merito hanno infatti ritenuto accertato che già l’elettrocardiogramma eseguito alle ore 11 segnalava alcune anomalie che possono essere ritenute significative di un infarto in atto rilevabile dall’alterazione delle onde T riconducibile ad un quadro iniziale di ischemia come anche potrebbe essere riferita ad una genesi metabolica.

E’ l’evoluzione successiva dimostra che di quest’ultima non si trattava per cui appare correttamente espresso il giudizio secondo cui, all’ora indicata, la patologia cardiaca era già in atto sia pure in uno stadio iniziale.

A maggior ragione è da ritenere corretta l’affermazione che l’infarto fosse in atto nel momento in cui è iniziata la trattazione del caso da parte del dott. P. come del resto è confermato dagli ulteriori due elementi di valutazione posti a disposizione del medico: l’esito negativo in merito alle cause alternative inizialmente ipotizzate e l’alterazione dei valori enzimatici inizialmente aspecifici ma non illogicamente ritenuti, sia pure a posteriori (ma il giudizio sulla causalità presuppone sempre una valutazione di questo tipo), riferibili all’infarto in atto.

11^) L’esistenza dell’elemento soggettivo. In generale.

I motivi di censura proposti dagli imputati riguardano prevalentemente l’esistenza della riconoscibilità della patologia, la violazione da parte degli imputati delle regole dell’arte medica e, solo nei ricorsi P. e C. (nel ricorso V., lo si è già precisato, l’argomento non è proprio affrontato), il problema relativo alla ed. "causalità della colpa" cioè l’accertamento se la violazione delle regole cautelari abbia avuto efficienza causale sul verificarsi dell’evento ovvero se questo si sarebbe verificato ugualmente anche se le regole dell’arte medica fossero state puntualmente e rigorosamente osservate.

Naturalmente l’accertamento relativo alla causalità della colpa presuppone la preventiva verifica se colpa vi sia stata nella condotta degli imputati che hanno trattato il caso del paziente deceduto.

Una precisazione preliminare va però fatta in relazione alla posizione di tutti i ricorrenti che hanno variamente sottolineato che, nel momento in cui hanno iniziato a trattare il caso e nel periodo in cui le condizioni del paziente sono state affidate alla loro cura, gli elementi di conoscenza a disposizione erano o significativi di una patologia gastrica o comunque non di tale natura da far sospettare l’esistenza della patologia cardiaca.

Per un verso si tratta di censure per lo più inammissibili in quanto i giudici di merito hanno fondato il loro convincimento sui pareri degli esperti cui hanno fatto riferimento di talchè non è ravvisabile, alcuna illogicità (tanto meno manifesta) o contraddittorietà nel loro argomentare.

Ma va comunque rilevato che, a fronte della possibilità di una diagnosi differenziale non ancora risolta, è obbligo del medico cui sia sottoposto il caso compiere gli approfondimenti diagnostici necessari per accertare quale sia l’effettiva patologia che affligge il paziente e adeguare le terapie in corso a queste plurime possibilità.

L’esclusione di ulteriori accertamenti o, addirittura, la sospensione della terapia per una delle possibili patologie ipotizzate, possono infatti essere giustificate esclusivamente dalla raggiunta certezza che una di queste patologie possa essere esclusa ovvero, nel caso in cui i trattamenti terapeutici siano incompatibili (ma questa ipotesi non riguarda il caso in esame), può essere sospeso quello riferito alla patologia che, in base all’apprezzamento di tutti gli elementi conosciuti o conoscibili, condotto secondo le regole dell’arte medica, possa essere ritenuto meno probabile.

E sempre che, nella valutazione comparativa del rapporto tra costi e benefici, la patologia meno probabile non abbia caratteristiche di maggior gravità e possa quindi essere ragionevolmente adottata la scelta di correre il rischio di non curarne una che, se esistente, potrebbe però provocare danni minori rispetto alla mancata cura di quella più grave.

Ma se, e fino a quando, questo dubbio non sia stato sciolto e non vi sia alcuna incompatibilità tra accertamenti diagnostici e trattamenti medico chirurgici il medico che si trovi di fronte alla possibilità di diagnosi differenziali non deve acquietarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado, in base alle conoscenze dell’arte medica da lui esigibili (anche nel senso di richiedere pareri specialistici), di escludere la patologia alternativa proseguendo gli accertamenti diagnostici e i trattamenti medico chirurgici necessari.

Nel nostro caso, dunque, poichè – secondo l’accertamento incensurabile dei giudici di merito – alcun elemento era idoneo ad escludere la patologia cardiologica di questa possibilità doveva tenersi adeguato conto nella trattazione del caso anche per la sua evidente maggior gravità rispetto alle altre ipotizzate.

12^) La posizione della dott. C..

La sentenza d’appello, integrata dalle richiamate considerazioni del primo giudice, regge al vaglio di legittimità per quanto attiene all’esistenza della colpa individuata nelle condotte dei tre medici, oggi imputati, che hanno trattato il caso della persona offesa.

Nell’esaminare le singole posizioni degli imputati ricorrenti verrà seguito l’ordine cronologico riferito alla sequenza temporale in cui i tre medici si sono succeduti nel trattare il caso.

Come si è già accennato la prima ad affrontare il caso del paziente CR. è stata la dott. C., medico specializzando in servizio presso il reparto di neurochirurgia dove il paziente era ricoverato.

A fronte della sintomatologia dolorosa lamentata dal paziente la dott. C. ha inizialmente correttamente disposto, verso le ore 11, l’esecuzione dell’elettrocardiogramma.

Il referto di questo elettrocardiogramma – secondo la valutazione incensurabile dei giudici di merito fondato sul parere degli esperti esaminati in dibattimento – era già fortemente indicativo di una patologia di natura cardiaca in atto perchè evidenziava un tracciato "ai limiti della norma" e l’esistenza di un’aritmia ventricolare sinistra.

I giudici di merito hanno posto in evidenza non solo questi segnali di allarme provenienti dal referto ma altresì che, in reparto, era disponibile il referto dell’elettrocardiogramma eseguito pochi giorni prima in occasione dell’intervento chirurgico di ernia del disco che non aveva segnalato le alterazioni riscontrate nel secondo.

La comparazione tra i due tracciati era dunque già significativa di un mutamento peggiorativo delle condizioni cardiologiche e della necessità di prendere in seria considerazione la possibilità dell’esistenza di una patologia di questo genere.

Questo argomentare dei giudici di merito si sottrae alle critiche rivolte nel ricorso della dott. C. apparendo, le argomentazioni svolte dai giudici di merito, del tutto logiche e plausibili.

Del tutto contraddittoria deve poi essere ritenuta la tesi difensiva della dott. C. secondo cui la patologia rilevata era significativa esclusivamente di una patologia addominale:

è stata la stessa ricorrente ad avere il dubbio che si trattasse di una patologia cardiaca e a richiedere l’esecuzione dell’elettrocardiogramma; salvo poi ignorarne gli esiti tutt’altro che idonei ad escludere la patologia di origine cardiaca essendo del tutto irrilevante la circostanza che il paziente non avesse sofferto in passato di disturbi analoghi mentre ne aveva avuti di origine addominale.

Deve dunque concludersi che i giudici di merito abbiano adeguatamente e non illogicamente motivato sull’esistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato in capo alla dott. C..

13^) La qualità di medico specializzando della dott. C..

E’ opportuno esaminare in questa sede (anche se il tema non riguarda strettamente l’elemento soggettivo essendo piuttosto riferibile all’esistenza della posizione di garanzia in capo al medico specializzando) la censura della dott. C. secondo cui la ricorrente era presente in reparto esclusivamente per finalità formative per cui non poteva ritenersi da lei esigibile una conoscenza in materia cardiologica quale quella ipotizzata nella sentenza impugnata che sembra richiedere una diligenza addirittura superiore a quella dello specialista cardiologo.

In merito a questa censura va osservato che la disciplina della formazione dei medici specialisti è contenuta nel D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368 il cui art. 20, comma 1, lett. e) prevede che l’ottenimento del diploma di medico chirurgo specialista sia subordinato, oltre che ad altre condizioni, alla "partecipazione personale del medico chirurgo candidato alla specializzazione, alle attività e responsabilità proprie della disciplina".

E già questa premessa consente di affermare che il medico specializzando non è un mero spettatore esterno, un discente estraneo alla comunità ospedaliera; egli infatti partecipa alle "attività e responsabilità" che si svolgono nella struttura dove si svolge la sua formazione.

Le concrete modalità di svolgimento della formazione – che può avvenire in un ateneo specializzato o in una azienda ospedaliera o in un istituto accreditato (art. 20, comma 1, lett. d) – sono poi disciplinate dagli artt. 34 e ss. del medesimo D.Lgs. In particolare l’art. 37 prevede l’iscrizione alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia con la stipula di un contratto annuale, rinnovabile, di formazione lavoro.

Con la sottoscrizione del contratto il medico in formazione specialistica "si impegna a seguire, con profitto, il programma di formazione svolgendo le attività teoriche e pratiche previste dagli ordinamenti e regolamenti didattici…………Ogni attività formativa e assistenziale dei medici in formazione specialistica si svolge sotto la guida di tutori…………" (art. 38, comma 1).

L’art. 38, comma 2 prevede poi che sia individuato "il numero minimo e la tipologia degli interventi pratici che essi devono aver personalmente eseguito per essere ammessi a sostenere la prova finale annuale".

Infine il comma 3 del medesimo articolo precisa che "la formazione del medico specialista implica la partecipazione guidata alla totalità delle attività mediche dell’unità operativa………nonchè la graduale assunzione di compiti assistenziali e l’esecuzione di interventi con autonomia vincolate alle direttive ricevute dal tutore…………

In nessun caso l’attività del medico in formazione specialistica è sostitutiva del personale di ruolo".

E’ da notare che l’art. 46, comma 3 del medesimo D.Lgs. ha espressamente abrogato il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 il cui art. 4 (diritti e doveri dello specializzando) prevedeva una disciplina in parte sovrapponitele a quella vigente; in particolare per quanto riguarda il numero e la tipologia degli interventi pratici che lo specializzando deve avere personalmente eseguito per essere ammesso alla prova finale annuale.

Quanto alla partecipazione alle attività la nuova normativa ha confermato che questa deve riguardare la totalità delle attività mediche ma ha accentuato il potere-dovere di controllo del tutore aggiungendo al sostantivo "partecipazione" l’aggettivo "guidata".

Inoltre la nuova normativa non menziona più, tra le attività mediche del servizio, "le guardie e l’attività operatoria per le discipline chirurgiche" apparendo, come emerge dal testo normativo più recente in precedenza riportato, ispirata ad una maggiore gradualità (si parla infatti di "graduale assunzione di compiti assistenziali e l’esecuzione di interventi con autonomia vincolata alle direttive ricevute dal tutore").

Orbene dall’esame di questa disciplina normativa non viene confermata la tesi sostenuta nel ricorso proposto dall’imputata: il medico specializzando non è presente nella struttura per la sola formazione professionale, la sua non è una mera presenza passiva nè lo specializzando può essere considerato un mero esecutore d’ordini del tutore anche se non gode neppure di piena autonomia.

L’espressione che meglio fotografa questo rapporto è quella, adottata dalla legge, dell’"autonomia vincolata": si tratta di un’autonomia che non può essere disconosciuta trattandosi di persone – i medici specializzandi – che hanno conseguito la laurea in medicina e chirurgia e, purtuttavia, essendo in corso la formazione specialistica (soprattutto per quei settori che non formano bagaglio culturale comune del medico non specializzato), l’attività non può che essere caratterizzata da limitati margini di autonomia in un’attività svolta sotto le direttive del tutore.

L’autonomia riconosciuta dalla legge, sia pur vincolata, non può dunque che ricondurre allo specializzando le attività da lui compiute; e se lo specializzando non è (o non si ritiene) in grado di compierle deve rifiutarne lo svolgimento perchè diversamente se ne assume la responsabilità (c.d. colpa "per assunzione" ravvisabile in chi cagiona un evento dannoso essendosi assunto un compito che non è in grado di svolgere secondo il livello di diligenza richiesto all’agente modello di riferimento).

E’ vano ricercare nella legge una norma che confermi la tesi della ricorrente che lo specializzando è presente in reparto esclusivamente per ragioni formative: anche se il tutore detta una ricetta o una prescrizione medica lo specializzando che scrive sotto dettatura, nei limiti delle sue competenze, deve segnalare eventuali errori od omissioni e rifiutare di avallare terapie che, secondo il livello di perizia e diligenza da lui esigibile, appaiano palesemente incongrue.

Tutto ciò va ovviamente valutato in conformità con la gradualità di assunzione di responsabilità che la ricordata normativa espressamente prevede.

E’ ovvio che diversi saranno gli interventi, anche critici, esigibili dal medico all’inizio della specializzazione rispetto a quelli che si richiedono a chi la formazione la sta facendo da anni e diversi saranno altresì gli interventi esigibili in relazione al grado di specializzazione nelle singole ipotesi richiesto.

Si tratta dunque di autonomia "vincolata", ogni attività dello specializzando "si svolge sotto la guida di tutori", e la graduale assunzione di compiti e interventi avviene sotto le "direttive ricevute dal tutore".

Insomma il tutore deve fornire allo specializzando le sue direttive, deve controllarne le attività pur autonomamente svolte, deve verificare i risultati e consentirgli, quindi, di apprendere quanto la formazione è idonea a fornirgli per il futuro svolgimento in autonomia della professione specializzata verificando la correttezza delle attività svolte dal medico affidatogli (per il quale, dice la legge, svolge la funzione di "tutore").

I precedenti di legittimità, tutti di questa sezione, che hanno esaminato il tema in oggetto, pur riguardando casi non sovrapponibili a quello oggi in esame, sembrano tutti orientati nella condivisione del principio normativo di "autonomia vincolata" come in precedenza delineato.

Possono ricordarsi la sentenza 6 ottobre 1999 n. 2453, Tretti, rv.

215538, che ha ritenuto la responsabilità dello specializzando per aver proseguito un intervento operatorio iniziato dal capo equipe (che aveva lasciato la sala operatoria incaricando lo specializzando di concludere l’intervento che aveva avuto esito mortale);

la sentenza 20 gennaio 2004 n. 32901, Marandola, rv. 229069 (in questo caso lo specializzando anestesista aveva effettuato con modalità inidonee l’iniezione epidurale ad una partoriente cagionando un calo pressorio non adeguatamente contrastato tanto da provocare danni irreversibili al feto) e, più recentemente, la sentenza 2 aprile 2007 n. 21594, Scipioni, rv. 236726, relativa ad un caso di anticipato abbandono della sala operatoria da parte del chirurgo prima che venisse suturata la ferita chirurgica e la sentenza 10 luglio 2008 n. 32424, Sforzini, rv. 241963, relativa ad un caso di trasmissione di istruzioni ad un’infermiera con modalità inidonee cui era derivata un’erronea modalità di assunzione di un farmaco).

Tutti questi casi, nei quali sono stati applicati i principi in precedenza enunciati, si sono conclusi con l’affermazione della penale responsabilità (o con l’applicazione della pena) sia dei medici strutturati che degli specializzandi.

Corretta deve dunque ritenersi la decisione dei giudici di merito che ha ritenuto l’esistenza della posizione di garanzia in capo alla dott. C. con la conseguente affermazione dell’addebito oggettivo per l’imputata.

14^) La posizione del dott. P..

Per quanto riguarda l’esistenza dell’elemento soggettivo in capo al dott. P. possono svolgersi considerazioni in parte analoghe a quelle riguardanti la dott. C..

I primi interventi dell’imputato – che ebbe a visitare il paziente alle ore 13 del (OMISSIS) – sono caratterizzati dalle stesse negligenze addebitate alla dott. C.: l’omessa valutazione dei già ricordati segnali di allarme presenti nel tracciato elettrocardiografico e l’omessa comparazione (o erronea sottovalutazione dell’esito) con l’analogo tracciato relativo all’elettrocardiogramma eseguito pochi giorni prima in occasione dell’intervento chirurgico eseguito dal medesimo dott. P..

Ma i giudici di merito hanno individuato ulteriori elementi di colpa nella condotta del ricorrente.

Questi infatti, dopo la visita del paziente (e dopo aver visionato il referto dell’elettrocardiogramma come risulta da una sua annotazione), dispose ulteriori accertamenti chiedendo una visita chirurgica per accertare l’eventuale presenza di una patologia gastrica.

Poichè i primi risultati di questa indagine erano negativi (sia la visita del chirurgo che l’esame radiografico il cui risultato l’imputato ha dichiarato di aver conosciuto telefonicamente) i giudici di merito hanno logicamente sottolineato come gli indici sintomatici di una patologia di natura cardiaca erano aumentati e si erano resi più concreti mentre, al contrario, il dott. P. continuò a sottovalutarli.

Non solo: l’imputato si allontanò dal reparto senza attendere il risultato delle amilasi (che avrebbe consentito di escludere una patologia al pancreas che era quella da lui sospettata) e, soprattutto, ignorò l’ulteriore segnale di allarme costituito dall’alterazione del CPK. E’ vero che questa alterazione, come si sottolinea nelle sentenze di merito, poteva essere riferita al precedente intervento chirurgico ma poichè la medesima può essere significativa anche di un infarto in atto era dovere del medico compiere quegli ulteriori accertamenti sui valori enzimatici che consentono di accertare, od escludere, proprio la presenza dell’infarto.

E se il dottor P. intendeva allontanarsi dal reparto – avendo preso in carico il trattamento della patologia presentata dal malato – era suo obbligo richiedere ad altro medico di compiere le indagini rese necessarie e di seguire l’evoluzione del caso.

Non può dunque che concludersi, sull’esistenza della colpa, che i giudici di merito abbiano del tutto logicamente motivato su questo aspetto della responsabilità e che le critiche del ricorrente, che sostanzialmente non rimettono in discussione lo svolgimento dei fatti, non siano idonee ad intaccarne la intrinseca coerenza.

15^) La posizione della dott. V..

Dal punto di vista dell’elemento soggettivo la posizione dell’imputata è la più evidente perchè, nel momento in cui subentrò in reparto (alle ore 20,30 del (OMISSIS)), aveva a disposizione tutti gli elementi di conoscenza che coloro che l’avevano preceduta non possedevano (anche per loro negligenza).

Risulta che la dott. V. abbia annotato sulla cartella, alle ore 21, che il dolore era in diminuzione con ciò dimostrando di aver preso conoscenza del fatto che il paziente aveva avuto un forte dolore alla regione addominale durato tutto il giorno.

Anche per lei, dunque, esistevano vari segnali di allarme che avrebbero dovuto indurla ad un esame accurato di tutti gli elementi a sua disposizione; tanto più che alcuni dei referti non erano stati ancora presi in considerazione da altri sanitari (per es. il referto sull’amilasi che escludeva patologie al pancreas) e il loro esito non era stato ancora annotato in cartella.

Ma v’è un aspetto in particolare che va considerato e che il primo giudice ha sottolineato con particolare efficacia: erano dodici ore circa che il paziente lamentava un forte dolore in regione gastrica e nessuno ne aveva ancora individuato la causa.

La dott. V. non poteva accontentarsi della circostanza che il dolore era in diminuzione ma doveva chiedersi (come dovevano chiedersi, ovviamente, i medici che l’avevano preceduta nella trattazione del caso) quale fosse l’origine di questa seria patologia e, sia pure nell’ambito di indagini alternative, doveva verificare se non fosse ipotizzabile quella patologia cardiologica che i numerosi segnali già indicati facevano sospettare.

V’è anche da evidenziare che nel caso in esame neppure potrebbeinvocare l’imputata (che in effetti nel ricorso non lo richiama) il principio di affidamento perchè i medici che l’hanno preceduta nel trattamento del caso non avevano formulato alcuna diagnosi sulla quale la dott. V. potesse, appunto, fare affidamento.

16^) L’accertamento della causalità della colpa.

Si è già accennato, su questo tema, che non è in discussione in questo processo il rapporto di causalità materiale (il decesso del paziente è stato certamente cagionato dall’infarto del miocardio);

mentre, da quanto si è esposto precendentemente, possono ritenersi risolti i problemi che si riferiscono alla causalità della condotta (l’evento è riconducibile al ritardo – oggettivamente riconducibile alla condotta degli imputati – con cui è stata accertata l’esistenza dell’infarto e quindi all’adozione di un tempestivo e idoneo trattamento terapeutico).

L’unico aspetto relativo alla causalità ancora da affrontare è dunque quello relativo alla causalità della colpa (se le condotte colpose degli imputati abbiano cagionato o contribuito a cagionare l’evento) e quello logicamente concatenato – anche se riferibile all’elemento soggettivo perchè riguarda l’evitabilità dell’evento – se una condotta rispettosa delle leges artis avrebbe evitato il verificarsi dell’evento in termini di elevata credibilità razionale.

Quest’ultimo tema è stato posto, in particolare, nei ricorsi del dott. P. e della dott. C. mentre il ricorso della dott. V., come si è già accennato, non ne fa cenno.

Il problema che si pone nel presente processo è dunque quello di verificare se i giudici di merito abbiano fornito di adeguata motivazione la loro valutazione sull’efficienza causale delle condotte colpose accertate ricollegandole all’evento in termini di "alto grado di credibilità razionale" nel quale si sostanzia la certezza processuale come affermato dalle sezioni unite nella sentenza ricordata.

Orbene è possibile a questo punto affermare, per le considerazioni già svolte in precedenza, che i giudici di appello si siano ispirati a questi criteri con argomentazioni che si inseriscono nel percorso giurisprudenziale conclusosi con la sentenza delle sezioni unite che viene espressamente richiamata e condivisa: sono state proprio le omissione colpose accertate e già descritte – hanno evidenziato i giudici di merito – a non consentire il trattamento terapeutico adeguato alla situazione patologica esistente già alle ore 11 ed accertabile con normali indagini diagnostiche.

Se i medici che hanno seguito il paziente avessero osservato le già ricordate regole cautelari, per quanto si è già detto, CR. A. si sarebbe salvato in termini di elevata credibilità razionale secondo i criteri di probabilità logica in precedenza enunciati.

17^) La causa sopravvenuta da sola idonea a determinare l’evento.

La tesi riguardante la possibilità di applicare l’art. 41, comma 2 è sostenuta dalla ricorrente dott. C. secondo cui la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto che, anche ammettendo un’efficienza causale della sua condotta, si sarebbe verificata l’interruzione del rapporto di causalità per la condotta dei medici che hanno successivamente trattato il caso in modo negligente e imperito.

La censura ripropone uno dei temi di maggior complessità del diritto penale che riguarda l’interpretazione dell’art. 41 c.p., comma 2 secondo cui "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento".

Si tratta di una norma di fondamentale importanza all’interno dell’assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema della causalità e lo scopo della norma, secondo l’opinione maggiormente seguita, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nell’art. 41, comma 1 in esame che si ritiene abbia accolto il principio condizionalistico o dell’equivalenza delle cause ("condicio sine qua non").

Anzi, secondo taluni autori, questa norma escluderebbe che il codice abbia voluto accogliere integralmente la teoria condizionalistica essendo, il concetto di causa sopravvenuta, estraneo a questa teoria così come è da ritenere estraneo alla teoria della causalità adeguata.

E’ stato affermato in dottrina che se il secondo comma in esame venisse interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi escluso solo nel caso di un processo causale del tutto autonomo verosimilmente si tratterebbe di una disposizione inutile perchè, in questi casi, all’esclusione si perverrebbe con la mera applicazione del principio condizionalistico previsto dall’art. 41, comma 1.

Deve pertanto trattarsi, secondo questo condivisibile orientamento, di un processo non completamente avulso dall’antecedente, di una concausa che deve essere, appunto, "sufficiente" a determinare l’evento.

Ma questa sufficienza non può essere intesa come avulsa dal precedente percorso causale perchè, altrimenti, torneremmo al caso del processo causale del tutto autonomo per il quale il problema è risolto dall’art. 41, comma 1.

Su questa affermazione di principio deve ritenersi raggiunto un sufficiente consenso in quanto gli orientamenti (peraltro, a quanto risulta, quasi esclusivamente dottrinali) che sostenevano la tesi della completa autonomia dei processi causali non sembrano essere state più riproposte negli ultimi decenni.

In base alla ricostruzione che va sotto il nome della teoria della causalità "umana" si parte dalla premessa che, oltre alle forze che l’uomo è in grado di dominare, ve ne sono altre – che parimenti influiscono sul verificarsi dell’evento – che invece si sottraggono alla sua signoria.

Può dunque essere oggettivamente attribuito all’agente quanto è da lui dominabile ma non ciò che fuoriesce da questa possibilità di controllo.

Quali sono gli elementi esterni controllabili? Innanzitutto quelli dotati da carattere di normalità, cioè quelli che si verificano con regolarità qualora venga posta in essere l’azione.

Ma non solo queste conseguenze si sottraggono al dominio dell’uomo ma altresì quelle che si caratterizzano per essere non probabili o non frequenti perchè comunque possono essere prevedute dall’uomo.

Che cosa sfugge invece al dominio dell’uomo? Ciò che sfugge a questo dominio – secondo l’illustre Autore che ha formulato la teoria – "è il fatto che ha una probabilità minima, insignificante di verificarsi: il fatto che si verifica soltanto in casi rarissimi…………nei giudizi sulla causalità umana si considerano "propri" del soggetto tutti i fattori esterni che concorrono con la sua azione, esclusi quelli che hanno una probabilità minima, trascurabile di verificarsi; in altri termini esclusi i fattori che presentano un carattere di eccezionalità".

Per concludere che per l’imputazione oggettiva dell’evento sono necessari due elementi, uno positivo e uno negativo: quello positivo "è che l’uomo con la sua condotta abbia posto in essere un fattore causale del risultato, vale a dire un fattore senza il quale il risultato medesimo nel caso concreto non si sarebbe avverato; il negativo è che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali (rarissimi). Soltanto quando concorrono queste due condizioni l’uomo può considerarsi autore dell’evento".

Perchè possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità (o la sua interruzione come altrimenti si dice) si deve dunque trattare, secondo questa ricostruzione, di un percorso causale ricollegato all’azione (od omissione) dell’agente ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.

E’ noto l’esempio riportato nella relazione ministeriale al codice penale: l’agente ha posto in essere un antecedente dell’evento (ha ferito la persona offesa) ma la morte è stata determinata dall’incendio dell’ospedale nel quale il ferito era stato ricoverato.

Il che, appunto, non solo non costituisce il percorso causale tipico (come, per es., il decesso nel caso di gravi ferite riportate a seguito dell’aggressione) ma realizza una linea di sviluppo della condotta del tutto anomala, oggettivamente imprevedibile in astratto e imprevedibile per l’agente che non può anticipatamente rappresentarla come conseguente alla sua azione od omissione (quest’ultimo versante riguarda l’elemento soggettivo ma il problema, dal punto di vista dell’elemento oggettivo del reato, si pone in termini analoghi).

Va infine rilevato che sia l’Autore che l’ha proposta che tutti coloro che l’hanno condivisa – comprese la giurisprudenza di legittimità e quella di merito – hanno affermato che la teoria della causalità "umana" è applicabile anche ai reati omissivi impropri.

Alla luce della ricostruzione che precede la tesi della ricorrente non solo non appare condivisibile ma si evidenzia nella sua totale ed evidente infondatezza.

Non è infatti possibile qualificare come inopinata, abnorme, assolutamente imprevedibile la condotta di un soggetto, pur negligente, la cui condotta inosservante trovi la sua origine e spiegazione nella condotta di chi abbia creato colposamente le premesse su cui si innesta il suo errore o la sua condotta negligente.

Inoltre la condotta dei medici che sono subentrati alla dott. C. nella trattazione della patologia del paziente non può essere ritenuta abnorme o imprevedibile perchè non è eccezionale la condotta di un medico che affronti senza l’osservanza delle regole dell’arte medica il caso sottopostogli; tanto più se il medico tragga spunto e giustificazione della sua condotta inosservante proprio nella precedente analoga condotta di altro soggetto.

Era certamente obbligo dei medici che sono succeduti alla ricorrente di approfondire quegli aspetti che erano stati omessi dal primo medico ma eccezionale e imprevedibile non è certo la condotta di chi si adegua ad una condotta negligente da altri tenuta.

Insomma nel caso in esame non può ipotizzarsi l’ipotesi prevista dall’art. 41 c.p., comma 2 perchè la causa sopravvenuta non solo non costituisce uno sviluppo del tutto autonomo ed eccezionale della prima condotta inosservante ma rientra nell’ambito delle conseguenze prevedibili di questa condotta addebitabile alla ricorrente di cui costituisce una possibile, e quindi prevedibile, conseguenza.

Anzi la loro condotta colposa trova l’antecedente logico e causale nelle negligenze del medico che li ha preceduti.

18^) Il trattamento sanzionatorio.

Vanno infine ritenute infondate le censure, proposte dalle imputate C. e V., in merito alla determinazione della pena loro inflitta.

Va infatti rilevato che la Corte di merito ha accolto il motivo di appello sul punto riducendo sensibilmente la pena stabilità dal primo giudice e che la misura della pena inflitta nel secondo grado del giudizio è assai prossima al minimo previsto.

Quanto alla censura proposta dall’imputata V., riferita alla comparazione con le pene inflitte agli altri imputati, la doglianza non è condivisibile per la preponderanza dell’elemento soggettivo accertato nei suoi confronti.

19^) Va infine verificato se il reato ascritto agli imputati possa ritenersi prescritto.

Il decesso è avvenuto il (OMISSIS) e quindi l’ordinario termine di prescrizione, essendo state concesse agli imputati le attenuanti generiche, era pari ad anni sette e mesi sei; la sentenza di primo grado è stata pronunziata prima dell’entrata in vigore della L. 5 dicembre 2005, n. 251 e dunque si applica – per l’art. 10 della medesima legge – la disciplina previgente che, peraltro, per l’omicidio colposo non aggravato ai sensi dell’art. 589, comma 2 è uguale a quella oggi in vigore quanto al termine massimo di prescrizione.

Dall’esame degli atti risultano peraltro i seguenti periodi di sospensione del corso della prescrizione:

rinvio del dibattimento di primo grado dal 9 dicembre 2004 al 24 gennaio 2005 per impedimento dell’imputata V.;

rinvio dal 1^ aprile al 27 maggio 2004 per adesione dei difensori all’astensione dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria;

rinvio dal 25 novembre al 9 dicembre 2004 per analoga causa;

rinvio dal 29 marzo al 28 giugno 2007 del dibattimento d’appello su concorde richiesta delle parti per raggiungere un accordo con le parti civili.

Al termine di prescrizione – che scadrebbe ordinariamente il 31 luglio 2009 – vanno dunque aggiunti altri 191 giorni che fanno giungere all’11 febbraio 2010 il termine massimo di estinzione del reato.

20^) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto dei ricorsi con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4^ penale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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