CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO – SENTENZA 5 agosto 2010, n.18279 LA TUTELA DEL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso la Y lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 – 2° comma – della legge n. 300 del 1970, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 3 e n. 5 CPC).

La ricorrente sostiene che l’impugnata sentenza fornisce un’interpretazione assolutamente fuorviante della richiamata norma, che impone la contestazione disciplinare quale momento iniziale della procedura di irrogazione della sanzione, nonché del principio di specificità della medesima contestazione. La Corte territoriale in tal modo, aggiunge la ricorrente, perviene ad una soluzione del tutto aberrante, in virtù della quale in contestazione rivolta al X, particolarmente precisa e dettagliata, viene ritenuta con una forzatura evidente, già ad una prima lettura, “assolutamente vaga e priva di importanti e necessari elementi specificativi ed identificativi”.

In sostanza la ricorrente osserva che la contestazione era stata precisa con la descrizione puntuale dei fatti, anche con riferimento al luogo dello svolgimento dell’episodio (“sala delle riunioni del omissis coincidente con “omissis adibito a sala riunioni”), sicché la mancata indicazione del nome della molestata in tale quadro non assumeva alcuna rilevanza né incideva sulle garanzie difensive dell’incolpato.

Con il secondo motivo del ricorso la Y denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7 – 2° comma – della legge n. 300 del 1970 e degli artt. 4 – 1° comma -, 23 e 24 D.Lgs. n. 196 del 2003.

Al riguardo osserva che, a prescindere dalle eccepita irrilevanza dell’indicazione del nominativo della persona offesa, tale omissione trova comunque ampia giustificazione nei principi che presiedono alla tutela della c.d. privacy, non potendosi far prevalere il diritto di difesa del ricorrente su quella della tutela della riservatezza della lavoratrice vittima dell’episodio.

2. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente stando la loro stretta connessione, sono infondati.

2.1. È consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella loro materialità il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ.. Ed è egualmente consolidato il dictum dei giudici di legittimità secondo cui l’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di una indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (cfr. ex plurimis: Cass. n. 1562 del 3 febbraio 2003; Cass. n. 11933 del 7 agosto 2003; Cass. n. 11045 del 10 giugno 2004; Cass. n. 8303 del 21 aprile 2005; Cass. n. 7546 del 30 marzo 2006).

2.2. Orbene il giudice di appello ha tenuto ben presente i richiamati principi e ha proceduto alla verifica del contenuto della lettera di contestazione e degli elementi ivi indicati giungendo alla conclusione che gli stessi fossero generici, tali da non consentire di ricostruire il reale svolgimento dei fatti e le condotte dei protagonisti e tali da non consentire un adeguato diritto di difesa dell’incolpato.

Lo stesso giudice su tale versante ha osservato che non era irrilevante la conoscenza da parte sua del nominativo della persona che si riteneva offesa e delle modalità della asserita “violenza” (nella lettera di contestazione si accenna al fatto che la persona offesa sarebbe stata chiamata dal X per farsi portare un caffè nella sala riunioni e nei suoi confronti, una volta entrata, il medesimo X avrebbe rivolto profferte di contenuto sessuale con tentativo, contro la sua volontà, di baciarla e toccarla). Ha aggiunto che la conoscenza soprattutto del nome della persona molestata avrebbe, se non altro, permesso al ricorrente di contrapporre circostanze di tempo e di luogo incompatibili con la denuncia della lavoratrice importunata ed evidenziare anche eventuali situazioni pregresse, tali da fornire una diversa chiave di lettura dei fatti.

Se si considera inoltre – come si ricava da quanto riportato a pagina 6 della impugnata sentenza – che il X ha – in sede di interrogatorio libero dinanzi al primo giudice – riferito taluni motivi di inimicizia e la sussistenza di pregressi rapporti sentimentali con l’accusatrice – rapporti che avrebbero potuto anche evincersi dalla stessa lettera inviata dalla Z alla società – non può non rilevarsi che una tempestiva individuazione della persona indicata come parte offesa della condotta del suddetto X avrebbe consentito a quest’ultimo di esercitare compiutamente il proprio diritto di difesa, senza quelle limitazioni che il giudice d’appello – con una valutazione congrua e logicamente motivata – ha ravvisato nel caso di specie.

Al riguardo va ribadito come il giudice di appello abbia osservato che neppure il luogo in cui sarebbe avvenuto l’episodio incriminato, è stato ben individuato, riferendosi la lettera di contestazione alla “sala riunione del omissis”, mentre nella memoria difensiva della società si parla di “omissis”.

2.3. A fronte, dunque, di queste valutazioni così ampiamente articolate la società ha ribadito le sue censure, che si traducono in un diverso apprezzamento del requisito di specificità della contestazione, come tale, secondo la richiamata giurisprudenza, non consentito al giudice di legittimità. D’altro canto tali valutazioni superano la verifica della logicità e congruità delle ragioni esposte nella sentenza impugnata, non essendo stato sollevato sotto tale profilo alcun esplicito rilievo da parte della società ricorrente.

3. Sotto altro versante va rimarcato come il giudice d’appello abbia fornito una ragionevole risposta anche sull’altro punto relativo alla mancata indicazione del nome della persona offesa, che secondo la ricorrente troverebbe ampia giustificazione nei principi che presiedono alla tutela della c.d. privacy, ribadendo che la comunicazione di tale nominativo fin dal momento in cui l’accusa era stata formalmente formulata, rispondeva all’esigenza di permettere all’incolpato di esercitare in modo pieno il proprio diritto di difesa. E ciò proprio in relazione ad una vicenda in cui la conoscenza dei rapporti pregressi tra i protagonisti avrebbe potuto consentire di verificate la portata di accuse così gravi.

3.1. L’iter argomentativo del giudice d’appello – oltre a risultare come detto congruo e logico – si presenta del tutto condivisibile anche sul piano giuridico.

Sono note le difficoltà di definire con una regola generale ed in maniera esaustiva l’ambito applicativo della privacy nei casi in cui si debba procedere ad individuare un equo bilanciamento tra tale diritto ed altro diritto anche esso a copertura costituzionale.

Sul punto è stata rimarcata nella materia in esame l’esigenza che si pervenga ad un esito variabile cosi come patrocinato da una autorevole opinione dottrinaria, che nei casi di contrapposizione di diritti garantiti dalla Carta Costituzionale parla di “gerarchia mobile”. Principio questo da intendersi – non come rigida e fissa subordinazione di uno degli interessi all’altro – ma come concreta individuazione da parte del giudice dell’interesse da privilegiare tra quelli antagonistici a seguito di una ponderata valutazione della specifica situazione sostanziale dedotta in giudizio con conseguente bilanciamento tra gli stessi, capace di evitare che la piena tutela di un interesse possa tradursi nella limitazione di quello contrapposto tanto da vanificarne o ridurne il valore contenutistico.

Non si è mancato di osservare in dottrina – proprio in una materia attinente al diritto di riservatezza – che l’operazione di bilanciamento può condurre ad un arretramento di tutela dei dati personali tutte le volte in cui nel conflitto di interessi il grado di lesione della dignità dell’interessato sia di ridotta portata rispetto a quella che subirebbe il diritto antagonista, non potendo consentirsi all’interessato di trincerarsi dietro l’astratta qualificazione del suo diritto sì da limitare in maniera rilevante il diritto di difesa della controparte.

La condivisione da parte di questa Corte di tale assunto induce ad affermare che il richiamo ad opera di una parte processuale al doveroso rispetto del diritto alla privacy – cui il legislatore assicura in sede giudiziaria idonei strumenti di garanzia – non può dunque legittimare, nei casi come quello in esame, una violazione del disposto di cui all’art. 24 Cost. che, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, non può incontrare nel suo esercizio ostacoli all’accertamento della verità materiale a fronte di addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla persona dell’incolpato ed alla sua onorabilità o – come nel caso in esame – anche alla perdita del diritto al posto di lavoro.

3.2. Ragioni di completezza motivazionale inducono a evidenziare – con riferimento a fattispecie aventi ad oggetto il diritto alla riservatezza – come nella giurisprudenza di legittimità si riscontri ripetutamente l’affermazione che il giudice di merito debba effettuare in caso di contrapposizione di diritti una comparazione tra gli stessi al fine di trovare un giusto equilibrio tra le posizioni delle parti in lite (cfr. al riguardo: Cass. 30 giugno 2009 n. 15327, secondo cui la riservatezza dei dati personali debba recedere qualora il relativo trattamento sia esercitato per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante e nei limiti in cui sia necessario per la tutela dello stesso, cui adde – con espresso riferimento al codice della privacy di cui al d.lgs. 193 del 2003 – e sempre per la necessita di una valutazione comparativa tra il diritto protetto dalla suddetta normativa ed il rango del diritto azionato Cass. 7 luglio 2008 n. 18584).

Per concludere il ricorso va rigettato e la sentenza impugnata va confermata sottraendosi la stessa alle numerose censure che le sono state mosse perche il giudice d’appello – con una motivazione congrua e ineccepibile sul piano logico – ha, dapprima, ritenuto la contestazione dell’addebito priva della necessaria specificità ed ha, poi, operato sul piano giuridico un corretto bilanciamento tra privacy, diritto inviolabile della persona, e diritto della difesa, anche esso inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Conclusione questa che si presenta come corollario del principio di diritto che – alla stregua del disposto di cui all’art. 384, comma 1, c.p.c. – va enunciato nei seguenti termini: “Nelle controversie in cui configura una contrapposizione tra due diritti, aventi ciascuno di essi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il c.d. criterio di “gerarchia mobile”, dovendo il giudice procedere di volta in volta ed in considerazione dello specifico “thema decidendum” alla individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di una equilibrata comparazione tra diritti in gioco, volta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico. Ne consegue che il richiamo ad opera di una parte processuale al doveroso rispetto del diritto (suo o di un terzo) alla “privacy” – cui il legislatore assicura in ogni sede adeguati strumenti di garanzia – non può legittimare una violazione del diritto di difesa che, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, comma 2, Cost.), non può incontrare nel suo esercizio ostacoli ed impedimenti nell’accertamento della verità materiale a fronte di gravi addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla controparte in termini di un irreparabile “vulnus” alla sua onorabilità e, talvolta anche alla perdita di altri diritti fondamentali, come quello al posto di lavoro”.

4. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro 54,00 oltre Euro 3.000.00 per onorari ed oltre IVA. CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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