Corte di Cassazione penale, Sezioni Unite, 9aprile 2010, n. 13426

Una diversa “grammatica probatoria” non può giustificare l’elusione di garanzie poste a presidio di diritti inviolabili: le Sezioni Unite delimitano l’ambito di utilizzabilità delle intercettazioni in sede di prevenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

1. – Con ordinanza del 28 aprile 2006, la Corte di appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, ha parzialmente riformato il provvedimento emesso il 3 aprile 2003 dal Tribunale di Taranto con il quale era stata applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. per anni cinque, con obbligo di soggiorno nei rispettivi Comuni di residenza, nei confronti, per quanto qui rileva, di M.D.P., L.P., S. P. e C.C., nonchè la misura patrimoniale della confisca di beni e terreni riconducibili agli stessi, revocando:
la confisca dell’autovettura Fiat Punto tg. **** appartenente a L.P. e ME.Ma.Lo.;
la confisca dell’autovettura Y10 tg. **** e del ciclomotore Piaggio 50 tg. **** – appartenenti a C. C. e D.L.;
la confisca dell’autovettura Fiat Punto tg. **** appartenente a N.M.;
la confisca dell’autovettura Fiat Punto tg. **** appartenente ad A.M.;
confermava nel resto l’impugnato provvedimento che aveva sottoposto anche C.G.G. a misura di prevenzione patrimoniale.
Le indicate misure di prevenzione erano state applicate in relazione all’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.), poi modificata in associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74), nell’ambito del processo avviato dall’operazione di polizia c.d. Quo Vadis, che aveva inizialmente portato alla condanna degli attuali ricorrenti per poi concludersi con l’assoluzione.
In particolare, con sentenza 13 gennaio 2005, la Corte d’appello di Lecce, quale giudice di rinvio, aveva assolto, per insussistenza del fatto, gli imputati M.D.P., R.F. e Z.A., in conseguenza della ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali per difetto di motivazione in ordine all’eccezionale urgenza ed all’inidoneità ed insufficienza delle apparecchiature esistenti presso la Procura della Repubblica.
Ciò, in dipendenza dei dieta enunciati da questa Corte, Sezione 6^ penale, nella sentenza n. 32865 del 13 maggio 2004, con la quale era stata appunto annullata con rinvio, per tale ragione, la pronuncia di condanna adottata dalla Corte territoriale.
2. – Avverso il provvedimento indicato in premessa hanno proposto ricorso per cassazione tanto i prevenuti ivi indicati che i terzi interessati alle misure di prevenzione patrimoniali.
Nel ricorso proposto nell’interesse di M.D.P., si deduce, nel primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura di prevenzione disposta dal primo giudice e non revocata in appello, sul rilievo che, nella specie, essendo stata esclusa, nel giudizio di merito originato dalla operazione Quo vadis, la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., ma pronunciata condanna per diversi reati in tema di violazione della legge sugli stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 73), non sussisterebbero i presupposti di legge per l’applicazione della sorveglianza speciale di cui alla disciplina antimafia prevista dalla L. n. 575 del 1965.
In particolare, risulterebbe errato il richiamo, operato dai giudici a quibus, alla L. n. 55 del 1990, art. 14 in quanto tale disposizione consente di svolgere le indagini e applicare le misure di prevenzione a carattere patrimoniale anche ai soggetti indiziati di altri reati diversi da quelli di cui all’art. 416 bis c.p. (L. n. 685 del 1975, art. 75 poi sostituito dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74), ma non consentirebbe l’estensione a tali categorie anche delle norme sulla applicazione delle misure di prevenzione a carattere personale.
L’applicazione della misura non prevista dalla legge integrerebbe, pertanto, ad avviso del ricorrente, una illegittima estensione in malam partem, vietata dall’ordinamento.
Si sottolinea, poi, la incongruenza degli elementi desunti, a sostegno della pericolosità sociale, dalle emergenze scaturite dal procedimento quo vadis, posto che una larga parte dei provvedimenti adottati nel corso di quel procedimento a carico di coimputati sono stati poi annullati o revocati.
Difetterebbe, inoltre, la attualità della pericolosità, considerato che i fatti oggetto di imputazione in quel processo risalirebbero ormai al 2000.
Viene poi contestata la motivazione del provvedimento impugnato in riferimento alla durata della misura di prevenzione ed al mantenimento dell’obbligo di soggiorno.
Nel secondo motivo di ricorso viene dedotta la mancanza del requisito di cui alla L. n. 1425 del 1956, art. 1, n. 2), avendo il prevenuto sempre lavorato onestamente, mentre nel terzo ed ultimo motivo si prospetta la sussistenza di un bis in idem, per di più promanante da una pronuncia ultra petita, in quanto nei confronti del prevenuto era stata già applicata la misura di prevenzione personale con provvedimento non ancora eseguito ma irrevocabile.
Il ricorrente risulta nelle more deceduto in data 9 giugno 2008, come da certificazione in atti.
Nel ricorso proposto nell’interesse di L.P., si deduce violazione di legge, in quanto l’assunto accusatorio nei suoi confronti si fondava, nell’ambito del procedimento Quo vadis, sulle intercettazioni ambientali che poi sono state dichiarate inutilizzabili, al punto che la Corte di appello di Lecce aveva esteso il giudicato di proscioglimento anche nei confronti dello stesso ricorrente.
La tesi dei giudei a quibus di utilizzare le intercettazioni ai fini del procedimento di prevenzione si fonderebbe, ad avviso del ricorrente, su una erronea interpretazione della giurisprudenza di legittimità, giacchè l’autonomia del procedimento di prevenzione non può valere nei casi in cui la intercettazione sia stata effettuata, come nella specie, fuori dei casi previsti dalla legge.
Pertanto, in virtù del rinvio operato dalla L. n. 152 del 1975, art. 20 e dall’art. 208 disp. coord. c.p.p., alla disciplina delle indagini preliminari ed alle norme processuali che disciplinano l’attività investigativa del pubblico ministero, le intercettazioni illegittime non possono trovare ingresso neppure nel procedimento di prevenzione.
Il primo motivo dei ricorsi proposti nell’interesse di C. C. e di D.L., terza interessata, nonchè di quello rassegnato per S.P. e A.M., terza interessata, è uguale al primo motivo del ricorso proposto nell’interesse di M.D.P., del quale già si è detto.
Il secondo motivo dei ricorsi del C.C. e dello S. prende in considerazione le misure patrimoniali.
Per i coniugi C.C. – D. si deduce la circostanza che il primo avrebbe lavorato come bracciante agricolo e si contesta l’affermazione secondo la quale i beni sequestrati al proposto ed alla moglie sarebbero frutto di attività delittuosa e si osserva che i cespiti oggetto delle misure patrimoniali sarebbero stati acquisiti in epoca antecedente ai fatti cui si è riferita l’attività della associazione contestata nell’ambito del procedimento Quo vadis.
Ciò vale sia per le disponibilità relative al conto corrente che per quanto attiene all’appartamento confiscato, le cui provviste si assumono essere, per entrambi i cespiti, di lecita provenienza.
Nella sostanza non dissimili i rilievi che compongono il corrispondente motivo di ricorso proposto per la coppia S. – A..
Si deduce, infatti, che la famiglia S. era titolare di diverse fonti di reddito, sicché si rivelerebbe immotivato il provvedimento di confisca, in quanto non assistito da congrui elementi di fatto, mentre sarebbe stata immotivatamente ritenuta non credibile la prospettazione difensiva relativa agli aiuti economici che provenivano dai familiari.
Quanto, poi, all’acquisto dell’immobile, gravato da mutuo ipotecario, si asserisce che l’epoca del relativo acquisto sarebbe antecedente a quella a partire dalla quale avrebbe iniziato ad operare il sodalizio diretto dal M. e si contesta, infine, la sussistenza dei presupposti per il mantenimento della confisca del conto corrente bancario di cui la coppia disponeva.
Con successive memorie e motivi aggiunti, il difensore di C. C., S.P., D.L. e A.M. ha sottolineato la inutilizzabilità, anche nel procedimento di prevenzione, delle intercettazioni dichiarate inutilizzabili nel processo cosiddetto quo vadis, segnalando, a tale proposito, anche la pronuncia – nel frattempo intervenuta – di queste Sezioni unite del 30 ottobre 2008, n. 1153, Racco, che ha sancito il principio secondo il quale la inutilizzabilità delle intercettazioni produce effetti anche nel procedimento per ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione.
Nel ricorso proposto, infine, da C.G.G., si deduce la insussistenza delle condizioni che legittimano i provvedimento di confisca di un immobile, ribadendosi, nella sostanza, le medesime censure già sviluppate in sede di gravame.
In particolare, si sottolinea che il terreno sarebbe pervenuto al proposto per donazione dalla madre e che vi era una costruzione risalente ad oltre venti anni prima, come sarebbe riscontrato da un rilievo aerofotogrammometrico effettuato dal Comune del luogo nel 1983.
Ad avviso del ricorrente, poi, il provvedimento impugnato affermerebbe senza prove che sarebbero stati registrati cospicui investimenti immobiliari da parte de prevenuto, mentre sarebbero state invece trascurate le entrate legittime, di cui il medesimo disponeva.
Le deduzioni sono state poi ribadite con successiva memoria.
3.- Dopo il deposito, in data 19 luglio 2008, della richiesta del Procuratore generale presso questa Corte, di rigetto del ricorso presentato nell’interesse di L.P., e di declaratoria di inammissibilità degli altri ricorsi, la Sesta sezione penale, cui i ricorsi erano stati assegnati, con ordinanza del 24 marzo 2009, rilevato che, in merito alla utilizzabilità, nel procedimento di prevenzione, di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nell’ambito del giudizio di cognizione, sussisteva un persistente contrasto giurisprudenziale, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
In data 5 giugno 2009, il Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione ha restituito alla Sesta sezione il procedimento, osservando che l’ordinanza di rimessione tendeva "chiaramente a riaprire i termini di una questione recentemente risolta dalle S.U. (sentenza 30/10/2008 Racco), con una serie di puntualizzazioni critiche che non assurgono ad effettive, nuove linee argomentative in tema di prova "incostituzionale".
La Sesta sezione, con ordinanza del 21 ottobre 2009, rilevato che, in merito all’utilizzabilità, nel procedimento di prevenzione, di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nell’ambito del giudizio di cognizione, sussisteva un persistente contrasto giurisprudenziale, ha nuovamente rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
In presenza del nuovo, motivato atto di rimessione, il Presidente Aggiunto della Corte di cassazione, con provvedimento del 1^ dicembre 2009, ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite penali.
Con successiva memoria, depositata il 1 marzo 2010, il difensore di C.C., D.L., S.P. e A. M., nel reiterare la richiesta di remissione dei ricorsi alle Sezioni Unite, ha ulteriormente ribadito i termini del contrasto di giurisprudenza con riferimento alla questione relativa all’utilizzabilità, nel procedimento di prevenzione, delle intercettazioni ritenute inutilizzabili nel processo di cognizione per omessa motivazione sull’inidoneità degli impianti disponibili presso gli uffici di Procura, deducendo argomenti in senso contrario alle prospettazioni poste in risalto dalla ordinanza della Sesta sezione.
4. – L’ordinanza di rimessione ha evidenziato i termini del persistente contrasto giurisprudenziale in merito all’utilizzabilità o meno, nel procedimento di prevenzione, di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nell’ambito del giudizio di cognizione.
Secondo un primo orientamento, infatti, si è osservato che, ferma restando l’autonomia dei due giudizi, di cognizione da un lato e di prevenzione dall’altro, che conoscono regole probatorie differenti, giustificabili in relazione alla diversità del loro oggetto, il materiale probatorio acquisito nel processo penale possa essere utilizzato, ma non in maniera indiscriminata, dovendo essere individuati freni all’utilizzazione, in presenza di vizi che, ad esempio, "determinano una patologica inutilizzabilità", collegata cioè alla violazione delle regole e dei presupposti previsti direttamente da norme costituzionali, direttamente applicabili nel processo di prevenzione.
Sulla base di tali premesse, alcune decisioni hanno ritenuto che l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, dichiarata per un difetto del provvedimento con cui si autorizza l’uso degli impianti diversi da quelli installati presso la procura della Repubblica, "non rilevi ai fini dell’acquisizione nel giudizio di prevenzione, in quanto riguarda una regola interna al processo penale, che non è in grado di proiettare i suoi effetti nell’ambito delle regole probatorie del regime della prevenzione".
Si tratterebbe di una inutilizzabilità specifica del processo penale, "un vizio relativo che non intacca in maniera sostanziale la validità della prova che è stata disposta e che per questa ragione può essere acquisita nel giudizio di prevenzione per essere valutata sulla base del diverso regime probatorio (Sez. 6^, 30 settembre 2005, n. 39953; Sez. 6^, 25 ottobre 2007, n. 1161; Sez. 2^, 28 maggio 2008, n. 25919).
Secondo altro orientamento, invece, la norma sul divieto di utilizzazione di cui all’art. 271 c.p.p., è a tutela di regole "poste a garanzia della segretezza e della libertà delle comunicazioni, costituzionalmente presidiata e cioè della libertà dei cittadini (art. 15 Cost.), che la stessa Corte costituzionale ha ritenuto debba essere assicurata attraverso il rispetto di precise disposizioni, avuto riguardo alla particolare invasività del mezzo della intercettazione telefonica o ambientale, attinenti pure alla loro esecuzione presso impianti della procura della Repubblica, con una deroga in casi eccezionali specificamente motivati (v. Corte Cost. 19.7,2000 n. 304)".
Per cui, le intercettazioni che non rispettano tali regole, devono essere considerate illegali e non utilizzabili in alcun modo, non solo nell’ambito del processo penale.
La "illegalità" delle intercettazioni rende quindi non valutabile quella prova in qualsiasi tipo di procedimento, compreso quello di prevenzione, in quanto "la utilizzabilità di una prova, anche se diversa da quella propria del processo penale e se assunta con forme diverse da quelle stabilite dal codice di procedura penale, pur se ammessa in linea di principio in procedimenti diversi da quello del giudizio ordinario di cognizione, non è mai possibile se si tratti di una prova illegale, assunta in violazione dei diritti dei cittadini garantiti dai principi costituzionali" (Sez. 1^, 15 giugno 2007, n. 29688).
Il collegio rimettente è consapevole che quest’ultima interpretazione è stata accolta dalle Sezioni unite che, con la sentenza 30 ottobre 2008, n. 1153, Racco, hanno risolto un analogo contrasto avente ad oggetto i limiti di utilizzabilità nel giudizio per la riparazione da ingiusta detenzione dei risultati delle intercettazioni disposte nel processo penale; tuttavia, ritiene che detta decisione si presti ad una serie di puntualizzazioni critiche.
Per un verso, infatti, non sembrerebbe condivisibile l’assunto che tende ad equiparare fra loro la inutilizzabilità – fenomeno tutto interno al processo – con la illegalità.
Sotto altro profilo, si rileva, in contrasto con la tesi espressa nella sentenza Racco, che anche la previsione che impone la motivazione circa il ricorso ad impianti esterni alla procura della Repubblica non può ritenersi direttamente attuativa del precetto costituzionale: l’art. 268 c.p.p., comma 3, riguarderebbe, infatti, le modalità di esecuzione dell’intercettazione, e non sarebbe dunque funzionale alla tutela della libertà e della segretezza delle comunicazioni, che l’art. 15 Cost., garantisce attraverso la previsione dell’atto motivato dell’autorità giudiziaria; atto che corrisponderebbe al decreto di autorizzazione di cui all’art. 267 c.p.p..
"La motivazione cui fa riferimento la Costituzione – sottolinea l’ordinanza di rimessione – è infatti quella con cui il giudice autorizza l’intercettazione e, quindi, l’intrusione nella sfera di riservatezza, non anche la motivazione relativa all’uso di impianti esterni".
Si evidenzia, inoltre, sotto altro profilo, che "la nuova formulazione dell’art. 240 c.p.p., non costituisca un argomento dirimente a favore della tesi della assoluta inutilizzabilità nel procedimento di prevenzione delle intercettazioni eseguite in violazione delle prescrizioni dell’art. 268 c.p.p., comma 3, così come sostenuto dalle Sezioni unite nella citata sentenza Racco".
Infatti – sottolinea l’ordinanza di rimessione – il riferimento contenuto nell’art. 240 cit. ai dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni relativi a traffico telefonico "illegalmente formati" e destinati alla distruzione non può essere esteso anche alle ipotesi di inutilizzabilità di cui all’art. 271 c.p.p..
La disposizione in esame, introdotta dal D.L. n. 259 del 2006, convertito con L. n. 281 del 2006, si riferisce – secondo la Sezione rimettente – "a condotte di formazione e acquisizione illegale, espressione da intendere nel senso di condotte illecite, poste in essere attraverso la perpetrazione di un reato. In altri termini, il procedimento previsto dall’art. 240 c.p.p. che porta alla distruzione del materiale, ha ad oggetto quelle che possono essere definite "captazioni illecite" e che, secondo autorevole dottrina, devono essere distinte dalle intercettazioni in senso tecnico, termine che va riservato alle captazioni operate dall’autorità giudiziaria e disciplinate dagli artt. 266 c.p.p. e segg.
Appare allora difficile ricomprendere nella definizione di captazioni illecite le intercettazioni regolarmente autorizzate dal giudice, ma eseguite in violazione degli obblighi motivazionali previsti dell’art. 268 c.p.p., comma 3". 5 . – Il 16 marzo 2010, infine, il Procuratore generale presso questa Corte ha rassegnato nuova, articolata requisitoria, nella quale, dato atto della sopravvenuta decisione delle Sezioni unite Racco, ha chiesto annullarsi con rinvio il provvedimento impugnato con riferimento alla posizione di L.P., C. C., D.L., S.P. e A.M.; annullarsi senza rinvio la decisione impugnata nei confronti di M. D.P. limitatamente alla misura personale ed alla cauzione, in quanto nel frattempo deceduto e disporsi l’annullamento con rinvio quanto alla misura patrimoniale; e dichiararsi, infine, inammissibile il ricorso proposto nell’interesse di C. G. G..

Motivi della decisione

1. – Come già evidenziato dalla ordinanza di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte, si registra un persistente contrasto di giurisprudenza in ordine alla questione se possano o meno essere utilizzati, nell’ambito del procedimento di prevenzione, i risultati di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nel giudizio di cognizione.
Secondo un primo orientamento, infatti, la inutilizzabilità delle intercettazioni nel giudizio di cognizione non preclude la loro utilizzabilità nel procedimento di prevenzione, se non in presenza di vizi tali da determinare una patologica inutilizzabilità; come accade, ad esempio, quando siano violate le regole indicate dall’art. 15 Cost..
In ogni altro caso – si è affermato – i risultati delle intercettazioni inutilizzabili possono essere acquisiti e valutati nel processo di prevenzione.
Si è in particolare sottolineato che, ferma restando la autonomia fra i due giudizi, che conoscono regole probatorie diverse, giustificabili in ragione della diversità del rispettivo oggetto, possono configurarsi dei limiti alla utilizzazione, nel procedimento di prevenzione, di materiale acquisito nel processo penale, "in presenza di vizi che, ad esempio, determinino una "patologica" inutilizzabilità".
Il che, proiettato sul tema delle intercettazioni, induce a distinguere tra la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni che abbiano violato le "regole e i presupposti previsti direttamente dall’art. 15 Cost., sicuramente applicabili anche nel processo di prevenzione", e la inutilizzabilità dipendente dalla mancanza di motivazione del provvedimento con il quale viene autorizzato l’impiego di impianti diversi da quelli installati presso la procura della Repubblica, che, invece, non precluderebbe la utilizzazione dei risultati delle intercettazioni ai fini del processo di prevenzione.
Si tratterebbe, infatti, "di una inutilizzabilità che, ai fini dell’acquisizione nel giudizio di prevenzione, non rileva, in quanto riguarda una regola interna al processo penale, che non è in grado di proiettare i suoi effetti nell’ambito delle regole probatorie del regime della prevenzione.
Con termine atecnico – si è puntualizzato – potrebbe parlarsi di una inutilizzabilità specifica del processo penale, nel senso che si tratta di un vizio relativo che non intacca in maniera sostanziale la validità della prova che è stata disposta e che per questa ragione può essere acquisita nel giudizio di prevenzione per essere valutata sulla base del diverso regime probatorio" (v., in tal senso, Sez. 6^, 30 settembre 2005, n. 39953; Sez. 6^, 25 ottobre 2007, n. 1161; Sez. 2^, 28 maggio 2008, n. 25919).
Secondo un diverso orientamento, le intercettazioni dichiarate inutilizzabili, anche nella ipotesi in cui la inutilizzabilità sia stata pronunciata per difetto di adeguata motivazione sull’indisponibilità degli impianti interni, non possono essere utilizzate neanche nel procedimento di prevenzione, trattandosi di prove illegali, assunte in violazione dei diritti dei cittadini garantiti dai principi costituzionali.
Le intercettazioni che non rispettano le regole poste a garanzia della libertà e segretezza delle comunicazioni, secondo le previsioni dettate dall’art. 15 Cost., vanno infatti ritenute illegali "al di là della sanzione che il legislatore denomina inutilizzabilità", e pertanto i relativi risultati non sono suscettibili di apprezzamento, anche al di fuori del processo penale.
"La "illegalità" delle intercettazioni rende quindi non valutabile quella prova in qualsiasi tipo di procedimento", con ovvi riverberi anche agli effetti del procedimento di prevenzione (Sez. 1^, 15 giugno 2007, n. 29688).
Nel medesimo senso, si è affermato, criticando l’opposto orientamento, che la distinzione tra inutilizzabilità patologica, limitata alle ipotesi di intercettazione effettuata in violazione dell’art. 15 Cost., perché priva della autorizzazione legale, ed inutilizzabilità "non patologica", che caratterizzerebbe la ipotesi di assenza di motivazione del decreto del pubblico ministero circa la utilizzazione di impianti extra moenia, in quanto concernente aspetto meramente esecutivo delle operazioni, risulterebbe una distinzione "gratuita".
Infatti, riprendendo, adesivamente, gli argomenti utilizzati nella sentenza delle Sezioni unite Racco, di cui si dirà fra breve, si è affermato che "il sacrificio della sfera privata altrui è consentito dall’art. 15 Cost., soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Ne consegue – si è aggiunto – che le disposizioni del codice procedurale apprestano la garanzia di legge richiesta dalla Costituzione. Ed il divieto di utilizzabilità dei risultati di intercettazione per questa ragione ha la stessa insuperabile ratio anche nel procedimento di prevenzione" (Sez. 5^, 5 febbraio 2009, n. 8538).
Sul tema, va infine rammentato il recente arresto di queste Sezioni unite sul finitimo versante della estensione della inutilizzabilità delle intercettazioni, dichiarate inutilizzabili nel giudizio di cognizione, anche agli effetti del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione (Sez. un., 30 ottobre 2008, n. 29, Racco).
Pronuncia, questa, che, come si è già rammentato in parte narrativa, aveva indotto a restituire il ricorso alla Sezione rimettente, avuto riguardo al novum rappresentato dal relativo principio di diritto, secondo il quale "l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale, ha effetti anche nel giudizio promosso per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione".
Nel frangente, al lume della consolidata giurisprudenza costituzionale, si è rilevato che, "al cospetto di intercettazioni eseguite fuori dei casi previsti dalla legge ovvero in violazione dell’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, si versa in ipotesi di chiara "illegalità" … donde la condivisibile affermazione che, costituendo la disciplina delle intercettazioni concreta attuazione del precetto costituzionale, in quanto attuativa delle garanzie da esso richieste a presidio della libertà e della segretezza delle comunicazioni, la sua inosservanza deve determinare la totale "espunzione" dal materiale processuale delle intercettazioni illegittime, che si concreta nella loro giuridica inutilizzabilità e nella "fisica eliminazione". 2. – La disamina della questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite non può prescindere dalla rievocazione dei passaggi più significativi che hanno contrassegnato la evoluzione della giurisprudenza costituzionale soffermatasi sul tema e della corrispondente evoluzione subita dal quadro normativo di riferimento.
Il punto essenziale di partenza è rappresentato dalla fondamentale sentenza n. 34 del 1973, con la quale il giudice delle leggi tracciò i confini costituzionalmente compatibili delle intercettazioni delle comunicazioni – all’epoca telefoniche – nel quadro del necessario bilanciamento tra le esigenze di prevenzione e repressione dei reati, da un lato, e del fondamentale diritto alla sfera della riservatezza presidiato, come valore fondamentale della persona, dall’art. 15 della Carta costituzionale.
La Corte, infatti, ebbe a sottolineare come nel sistema processuale all’epoca vigente, per come novellato ad opera della L. 18 giugno 1955, n. 517, intesa proprio ad armonizzare il potere di intercettazione della polizia giudiziaria al dettato costituzionale, "la compressione del diritto alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche, che l’intercettazione innegabilmente comporta, non resta(va) affidata all’organo di polizia, ma si attua(va) sotto il diretto controllo del giudice", al quale competeva di adottare il relativo provvedimento autorizzatorio, debitamente motivato, quanto a presupposti e durata delle operazioni.
Ma il rispetto del parametro di costituzionalità – sottolineò la Corte – "non trova soddisfazione solo nell’obbligo della puntuale motivazione del decreto dell’autorità giudiziaria.
Altre garanzie sono richieste:
a) garanzie che attengono alla predisposizione anche materiale dei servizi tecnici necessari per le intercettazioni telefoniche, in modo che l’autorità giudiziaria possa esercitare anche di fatto il controllo necessario ad assicurare che si proceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solo nei limiti dell’autorizzazione;
b) garanzie di ordine giuridico che attengono al controllo sulla legittimità del decreto di autorizzazione ed ai limiti entro i quali il materiale raccolto attraverso le intercettazioni sia utilizzabile nel processo".
Formulandosi, al tempo stesso, "l’auspicio che si realizzino opportuni interventi legislativi idonei ad attuare anche sul piano tecnico le condizioni necessarie all’effettivo controllo di cui innanzi si è detto".
La Corte, però – ed il punto assume non poco significato ai fini che qui interessano – non mancò di porre in risalto quelle che dovevano essere le conseguenze, per così dire "sanzonatorie", che dovevano scaturire dal sistema processuale, ove fossero state eluse le garanzie che dovevano assistere le attività di intercettazione, enunciando, a tal proposito, "il principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sè a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito".
Ebbene, evocando a comparazione la disciplina, all’epoca di "recente formulazione", enunciata nell’art. 304 c.p.p. 1930, comma 3, ultima parte ove si escludeva la "utilizzabilità" delle dichiarazioni rese dall’imputato prima della nomina del difensore di fiducia, la Corte sottolineò come l’identico epilogo potesse configurarsi quale specifica garanzia, che l’indicato principio legittimava e che il sistema non precludeva.
Un assunto, questo, ribadito anche nella successiva sentenza n. 120 del 1975, ove si sottolineò come le intercettazioni illegittime "sono assolutamente inidonee a produrre alcun effetto, anche se raccolte prima della entrata in vigore della L. 8 aprile 1974, n. 98", adottata proprio per adeguare la disciplina codicistica dell’epoca ai principi enunciati dalla Corte nella richiamata sentenza n. 34 del 1973. 3. – Già da tutto ciò possono trarsi alcuni significativi corollari. Nella prospettiva additata dalla Corte, nella più volte citata sentenza n. 34 del 1973 e poi ribadita in altre numerose pronunce (v. le ordinanze n. 304 del 2000, n. 259 del 2001, 209 del 2004 e n. 443 del 2004), la previsione normativa che privilegia, ai fini della effettuazione delle operazioni di intercettazione, la utilizzazione degli impianti esistenti presso la procura della Repubblica, non rappresenta un elemento estraneo alla sfera delle garanzie di "legalità" che l’ordinamento deve approntare secondo il dettato costituzionale.
Se, infatti, l’art. 15 della Carta fondamentale prevede che la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione rappresentano un diritto inviolabile della persona, sancendo che qualsiasi limitazione possa avvenire soltanto per atto motivato della autorità giudiziaria e "con le garanzie stabilite dalla legge", ciò significa che, ove il legislatore abbia individuato un determinato perimetro entro il quale quelle garanzie devono trovare soddisfacimento, non potranno essere arbitrariamente resecate, nel quadro della prospettiva costituzionale, previsioni normative che, proprio perché specificamente destinate a concretare il parametro di costituzionalità, coinvolgano non soltanto il provvedimento autorizzatorio, ma anche le modalità esecutive delle operazioni di un mezzo destinato a "limitare" un diritto fondamentale.
L’avere il legislatore, tanto nel vecchio codice che nel nuovo, "privilegiato, per l’effettuazione delle operazioni di intercettazione, l’impiego degli apparati esistenti negli uffici giudiziari – dettando una disciplina volta a circoscrivere, con apposite garanzie, l’uso di impianti esterni – non può qualificarsi, in sè, come scelta arbitraria, avuto riguardo anche alla particolare invasività del mezzo nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata: e ciò proprio perchè si tratta di scelta finalizzata ad evitare che gli organi deputati alla esecuzione delle operazioni di intercettazione ed al relativo ascolto possano operare controlli sul traffico telefonico, al di fuori di una specifica e puntuale verifica da parte della autorità giudiziaria" (v., da ultimo, la citata ordinanza della Corte costituzionale n. 443 del 2004).
Se è, dunque, la legge a dover prevedere le "garanzie" cui è subordinata la legittimità delle intercettazioni; e se, ancora, le scelte a tal fine operate si collocano nel quadro del ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa, saldandosi, anzi, ad una esigenza (controllo della esecuzione delle operazioni da parte della autorità giudiziaria) sottolineata dalla stessa Corte costituzionale, ne deriva che una interpretazione "riduttiva" del complesso di tali garanzie – quale è quello che la Sezione rimettente implicitamente propugna, svalutando il momento esecutivo rispetto a quello autorizzatorio – si porrebbe in termini sostanzialmente "abrogativi" rispetto a scelte chiare nella loro ormai lontana genesi (di conformazione costituzionale del sistema) e nella stessa perdurante attualità. 4. – L’altro simmetrico profilo additato dalla richiamata sentenza n. 34 del 1973, e prontamente recepito dal legislatore, ha riguardato la "definizione" (prescrittiva) delle conseguenze cui assoggettare i risultati delle intercettazioni effettuate al di fuori delle garanzie di legalità, stabilendosi per essi l’effetto della relativa "inutilizzabilità".
Di "Divieto di utilizzazione delle intercettazioni illecite" parlava la rubrica dell’art. 226 quinquies c.p.p. del 1930, così come introdotto dalla L. 8 aprile 1974, n. 98, art. 5 e di "Divieti di utilizzazione" fa menzione pure la rubrica dell’art. 271 del codice vigente, richiamando, fra le relative ipotesi, anche quella – che qui interessa – concernente la mancata osservanza delle disposizioni previste dall’art. 268, comma 3, in tema di operazioni eseguite extra moenia.
La inutilizzabilità, rappresenta, dunque, una sorta di "filo rosso" che collega fra loro la fondamentale sentenza della Corte costituzionale di cui si è detto; la relativa "attuazione" normativa, operata, di lì a poco, con la novella sulle intercettazioni, inserita nel corpo del vecchio codice di procedura;
la scelta, infine, di mantenere, ed anzi allargare, quella particolare categoria di sanzione processuale, a tutti i casi di prova vietata dalla legge, fra i quali, pertanto, le ipotesi di intercettazioni "illegittime" finiscono per atteggiarsi alla stregua di una species rispetto al genus.
Ebbene, due aspetti, fra loro strettamente connessi ed interagenti, varrano a chiarire le ragioni per le quali "la sanzione di inutilizzabilità di cui all’art. 271 c.p.p." "non può derubricarsi – se non in termini costituzionalmente discutibili – a mero connotato endoprocessuale, tutt’interno, cioè, al processo penale" (v. la sentenza Racco, già citata).
Da un lato, infatti, dovrà riflettersi sulle "ragioni" storiche per le quali si è avvertita l’esigenza di introdurre, per specifici atti processuali, quali quelli destinati a svolgere una funzione probatoria, una peculiare categoria di "invalidità", in aggiunta a quelle già elaborate dalla tradizione codicistica.
Dall’altro, e di riflesso, occorrerà esaminare l’essenza e la funzione di tale "fenomeno" squisitamente processuale, per verificare se da esso residui – e in che misura – un quid "esportabile" al di fuori del processo penale.
Quanto al primo aspetto, uno spunto ricostruttivo di significativo interesse è offerto dalla Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice, laddove ha puntualizzato le ragioni della scelta posta a base della previsione dettata dall’art. 191, comma 1, ove si è introdotto il principio generale secondo cui le "prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate".
Dopo aver, infatti rievocato la non assoluta novità del tema – già presente nel vecchio codice sotto l’art. 304, comma 3, e art. 226 quinquies – e rammentato gli apporti offerti dalla più volte citata sentenza n. 34 del 1973 della Corte costituzionale, la Relazione ha in particolare sottolineato come nella dottrina processualistica fosse da tempo particolarmente avvertita "una profonda insoddisfazione circa il modo di operare della nullità in rapporto a divieti probatori che il regime delle sanatorie costringe a ritenere come non scritti, quando è acquisita una prova contra legem … ed il vizio non venga tempestivamente eccepito".
Da qui la scelta di delineare "un regime normativo che esclude in via generale l’utilizzabilità delle prove acquisite in violazione di uno specifico divieto probatorio. Anche quando le norme di parte speciale non prevedono espressamente alcuna sanzione, l’inutilizzabilità può desumersi dall’art. 191, comma 1 là dove siano configurabili veri e propri divieti probatori" (v. Relazione, cit. pag. 61).
Ciò sta dunque a significare che, essendo il diritto alla prova un connotato ineludibile del nuovo processo penale, assurto al rango di paradigma del parametro costituzionale sul "giusto processo", qualsiasi divieto probatorio positivamente introdotto dal legislatore può spiegarsi solo nell’ottica di preservare equivalenti valori, anch’essi di rango costituzionale.
Ne è prova significativa, ad esempio, il "caso" affrontato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 229 del 1998.
Chiamata infatti a pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionale dell’art. 103 c.p.p., comma 6, sollevata nella parte in cui tale disposizione non prevedeva "il divieto di sottoporre a sequestro gli scritti formati dall’imputato (e dall’indagato) appositamente ed esclusivamente come appunto per facilitare la difesa negli interrogatori" – nella specie, documenti sequestrati nel corso di una perquisizione eseguita nella cella, ove l’imputato si trovava ristretto – la Corte ritenne superflua la pronuncia additiva richiesta, in quanto i documenti sequestrati dovevano comunque ritenersi "inutilizzabili per la parte concernente la tutela del diritto di difesa personale, trattandosi di prove illecitamente acquisite (art. 191 c.p.p.)".
Sicché, osservò la Corte, la supposta lacuna normativa si rivelava "conseguenza, non soltanto di un’errata interpretazione degli artt. 247 e 253 c.p.p., ma anche di una palese violazione dei principi costituzionali posti a tutela della persona umana".
Non è, dunque, l’atto processuale in sè ad essere "invalidato", quanto sono, piuttosto, i relativi effetti che vengono ad essere direttamente neutralizzati.
Ma se ciò è vero, ne deriva che la stessa ragione "storica," che ha indotto il legislatore a sancire la inutilizzabilità degli atti compiuti in violazione di divieti probatori, impedisce di ritenere "utilizzabili" quegli stessi atti nell’ambito di "altri" procedimenti giurisdizionali, giacché, ove così non fosse, la prova, vietata per tutelare – come si è detto – altri valori costituzionalmente preservati, troverebbe una inammissibile "reviviscenza," eludendo la stessa ragion d’essere della inutilizzabilità.
A differenza, dunque, dei "limiti" probatori civili, i divieti probatori penali producono i loro effetti, se violati, in qualsiasi settore dell’ordinamento, proprio perché la logica che presiede alla garanzia della inutilizzabilità non è interna ed esclusiva al processo penale.
A proposito, poi, della "fenomenologia" della inutilizzabilità – da taluno descritta, rievocando categorie di sapore civilistico, come un difetto funzionale della "causa" dell’atto probatorio, vale a dire come una inidoneità dell’atto stesso a svolgere la funzione che l’ordinamento processuale gli assegna – la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni teso a distinguere tra una inutilizzabilità "patologica", quale è quella che deriva dalla violazione di divieti probatori, ed una inutilizzabilità definita "fisiologica", in quanto correlata alle caratteristiche del processo ed alla distinzione tra atti delle indagini e prove dibattimentali (v. tra le tante, specie in tema di giudizio abbreviato, Sez. 2^, 7 novembre 2007, n. 46023; Sez. 5^, 9 maggio 2006, n. 19388; Sez. 5^, 23 marzo 2005, n. 34686).
E’ evidente che per quest’ultima non si pongono problemi di sorta circa la possibilità di "utilizzare", come elementi di valutazione e di giudizio, anche gli atti delle indagini ai fini del processo di prevenzione, posto che i "limiti" sono soltanto interni ed esclusivi al procedimento penale.
Ma, a ben guardare, anche in ipotesi riconducibili alla cosiddetta inutilizzabilità patologica possono residuare spazi non "coperti" da questa peculiare sanzione processuale.
Così, ad esempio, il mancato avvertimento di cui all’art. 64 c.p.p., comma 3, lett. c), rende inutilizzabili le dichiarazioni eventualmente rese erga alios, ma non quelle contra se, consentendo di reputare dunque più pertinente, semmai, una distinzione tra inutilizzabilità "assoluta" rispetto ad altra, per così dire, "relativa".
Ciò che però rileva è che la prova vietata – e tale deve ritenersi la intercettazione inutilizzabile a norma dell’art. 271 c.p.p. – è "inutilizzabile" tout court, senza aggettivi, limiti o deroghe di sorta, che ne consentano un qualsivoglia "recupero", sia pure in ambiti ed a fini diversi da quelli del processo penale.
Esce dunque rafforzata, anche per questa via, l’esegesi posta a base della sentenza Racco, il cui principio di diritto deve ritenersi senz’altro valido anche sul versante del processo di prevenzione.
5. – A quest’ultimo proposito va in particolare rammentato come, secondo l’ordinanza di rimessione, sia proprio l’insistito richiamo alla "autonomia" del procedimento di prevenzione rispetto al processo penale a giustificare la utilizzabilità, in quella sede, dei risultati delle intercettazioni inutilizzabili nel processo penale per carenza di motivazione del provvedimento che autorizza l’uso di impianti esterni, posto che tale sanzione risulterebbe pertinente, non alla sfera protetta dall’art. 15 Cost., ma ad un profilo esecutivo, tutto "interno" al processo penale.
L’autonomia del procedimento di prevenzione legittimerebbe, dunque, una sorta di "degradazione" della inutilizzabilità, dovendosi reputare quella sanzione – irreparabile e demolitoria di qualsiasi effetto probatorio – come giustificabile ai fini dell’accertamento della responsabilità sulla regiudicanda, ma non confacente agli effetti dello scrutinio che sottostà alla applicazione di una misura di prevenzione.
L’assunto non è però condivisibile, in quanto trae alimento da una lettura non corretta del concetto di "autonomia" che contraddistingue i due "tipi" di procedimento posti a raffronto.
In linea di principio, l’autonomia delle sfere decisorie e procedimentali sta a denotare la reciproca "insensibilità" delle acquisizioni dell’una sede rispetto a quelle dell’altra e, dunque, l’assenza di connotati di pregiudizialità dei relativi moduli di giudizio.
E’ infatti consolidato l’orientamento secondo il quale, nel corso del procedimento di prevenzione, il giudice di merito è legittimato a servirsi di elementi di prova o di tipo indiziario tratti da procedimenti penali, anche se non ancora definiti con sentenza irrevocabile, e, in tale ultimo caso, anche a prescindere dalla natura delle statuizioni terminali in ordine all’accertamento della responsabilità.
Sicché, pure l’assoluzione, anche se irrevocabile, dal delitto di cui all’art. 416 bis c.p., non comporta la automatica esclusione della pericolosità sociale, potendosi il relativo scrutinio fondare sia sugli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità di illiceità penale, sia su altri fatti acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio di prevenzione.
Ciò che rileva, si è osservato, è che il giudizio di pericolosità sia fondato su elementi certi, dai quali possa legittimamente farsi discendere l’affermazione dell’esistenza della pericolosità, sulla base di un ragionamento immune da vizi, fermo restando che gli indizi sulla cui base formulare il giudizio di pericolosità non devono necessariamente avere i caratteri di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 192 c.p.p. (cfr., ex plurimis, Sez. 1^, 6 novembre 2008, n. 47764; Sez. 2^, 28 maggio 2008, n. 25919; Sez. 1^, 13 giugno 2007, n. 27655; Sez. 6^, 30 settembre 2005, n. 39953).
Nella medesima linea, d’altra parte, si è collocata pure la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (Grande Camera, 1^ marzo – 6 aprile 2000, Labita c. Italia) ha ritenuto non in contrasto con i principi della CEDU il fatto che le misure di prevenzione "siano applicate nei confronti di individui sospettati di appartenere alla mafia anche prima della loro condanna, poiché tendono ad impedire il compimento di atti criminali"; mentre "il proscioglimento eventualmente sopravvenuto non le priva necessariamente di ogni ragion d’essere: infatti, elementi concreti raccolti durante un processo, anche se insufficienti per giungere ad una condanna, possono tuttavia giustificare dei ragionevoli dubbi che l’individuo in questione possa in futuro commettere dei reati penali".
Il tutto in linea con "le profonde differenze, di procedimento e di sostanza" che è possibile intravedere tra le due sedi, penale e di prevenzione: "la prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a seguito dell’esercizio della azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato e che sono … verificate in un procedimento che, pur se giurisdizionalizzato, vede quali titolari delibazione" di prevenzione soggetti diversi, appartenenti all’amministrazione" (v. Corte Cost., sentenza n. 275 del 1996).
Discende da tutto ciò che, il vero tratto distintivo che qualifica l’autonomia del procedimento di prevenzione dal processo penale, va intravisto nella diversa "grammatica probatoria" che deve sostenere i rispettivi giudizi: una diversità, però, che, proprio in quanto riferita esclusivamente al "modo d’essere" degli elementi di apprezzamento del "merito", non incide affatto sulla legittimità delle acquisizioni, a prescindere – evidentemente – dalla sede in cui le stesse siano operate.
La prova inutilizzabile, ad esempio perché "estorta", e acquisita, dunque, in violazione dell’art. 188 del codice di rito, non può "proiettarsi" sul terreno della prevenzione, al pari di qualsiasi altra ipotesi di prova "illegale" in quanto assunta in contrasto con i divieti di legge.
Pretendere, dunque, di fondare su di un malinteso concetto di "autonomia" dei procedimenti la possibilità di distinguere il regime di utilizzazione di prove che la legge processuale qualifica come illegittimamente assunte – in un’area, per di più, costituzionalmente presidiata, quale è quella garantita dall’art. 15 Cost. – si rivela operazione concettualmente scorretta, in quanto è solo la legge che ha il compito di delineare (e, quindi, eventualmente circoscrivere) la portata degli effetti demolitori che scaturiscono dalla sanzione di inutilizzabilità, con cui la legge stessa ha inteso presidiare la violazione dei divieti probatori.
6. – D’altra parte, i connotati di sicura giurisdizionalità che caratterizzano il processo di prevenzione si sono venuti ulteriormente ad esaltare alla luce dei più recenti apporti che hanno contrassegnato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e, di riflesso, quella costituzionale in materia.
La Corte di Strasburgo, come è noto, ha in varie occasioni avuto modo di censurare la previsione secondo la quale il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si celebra in camera di consiglio, reputandola in contrasto con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, nella parte in cui stabilisce che "ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata … pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale …".
Con giurisprudenza ormai consolidata, infatti, la Corte ha ritenuto sussistente la violazione dell’indicato principio della Convenzione europea, in quanto ha ritenuto "essenziale" a tal fine che "le persone coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti di appello".
Una conclusione, questa, cui la stessa Corte è pervenuta rievocando la propria giurisprudenza, al lume della quale la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico e costituisce uno strumento per preservare la fiducia nei giudici.
Con la trasparenza che essa conferisce alla amministrazione della giustizia – ha osservato in varie occasioni la Corte di Strasburgo – contribuisce quindi a realizzare lo scopo dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU che è proprio quello di realizzare il "giusto processo" (v. sentenza 15 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia; sentenza 8 luglio 2008, Pierre ed altri c. Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno c. Italia).
Il tema è stato ripreso e "recepito" anche dalla Corte costituzionale, la quale, proprio in aderenza alla indicata giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della interpretazione da essa data alla fonte convenzionale – ormai assurta al rango di fonte interposta rispetto all’art. 117 Cost., comma 1, secondo una consolidata giurisprudenza costituzionale (v. Corte Cost., le decisioni nn. 348 e 349 del 2007, 39 del 2008, 311 e 317 del 2009) – ha dichiarato la illegittimità costituzionale della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4 e della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter nella parte in cui non prevedono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte di appello, nelle forme dell’udienza pubblica (v. sentenza n. 93 del 2010).
Le osservazioni della Corte di Strasburgo – ha in particolare osservato il giudice delle leggi – "colgono, d’altro canto, le specifiche peculiarità del procedimento di prevenzione, che valgono a differenziarlo da un complesso di altre procedure camerali.
Si tratta cioè – ha puntualizzato la Corte – di un procedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale (art. 13 Cost., comma 1) e il patrimonio (quest’ultimo, tra l’altro, aggredito in modo normalmente "massiccio" e in componenti di particolare rilievo …), nonché la stessa libertà di iniziativa economica, incisa dalle misure anche gravemente "inabilitanti" previste a carico del soggetto cui è applicata la misura di prevenzione ….
Il che – ha concluso la Corte – conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato".
La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, da un lato, e quella costituzionale, dall’altro, impongono, dunque, una "lettura" del procedimento di prevenzione che sia in linea con i principi del "giusto processo." Il che, evidentemente, avvalora la tesi di quanti ritengono preclusa la "fruibilità", anche se ai limitati fini del giudizio di prevenzione, di intercettazioni inutilizzabili a norma dell’art. 271 del codice di rito, in quanto la inosservanza delle relative garanzie di legalità finirebbe, altrimenti, per contaminare e compromettere il "giusto procedimento di prevenzione", che tale può definirsi soltanto se basato su atti "legalmente" acquisiti.
7. – L’ultimo profilo sul quale la sezione rimettente si concentra per "aggredire" la sentenza Racco e dedurre la inapplicabilità dei relativi dicta all’odierno tema, pertinente al giudizio di prevenzione, riguarda il profilo della distruzione delle intercettazioni illegittime, in riferimento alla disciplina dettata dall’art. 240 c.p.p., come modificato dal D.L. 22 settembre 2006, n. 259, art. 1 (Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dalla L. 20 novembre 2006, n. 281.
Ad avviso della sezione rimettente, infatti, la nuova formulazione dell’art. 240 del codice di rito non costituirebbe un argomento dirimente a favore della tesi della assoluta inutilizzabilità nel processo di prevenzione delle intercettazioni eseguite in violazione delle prescrizioni dell’art. 268 c.p.p., comma 3.
Si osserva, infatti, che la nuova disciplina, che prevede la distruzione del materiale concernente dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni relativi a traffico telefonico "illegalmente formati", "si riferisce a condotte di formazione e acquisizione illegale, espressione – osserva la ordinanza di rimessione – da intendersi nel senso di condotte illecite, poste in essere attraverso la perpetrazione di un reato".
Ciò escluderebbe, dunque, la possibilità di ritenere comprese nel novero di siffatte "captazioni illecite" "le intercettazioni regolarmente autorizzate dal giudice ma eseguite in violazione degli obblighi motivazionali previsti dall’art. 268 c.p.p., comma 3.
L’assunto è in sè condivisibile, in quanto in linea con la ratio che ha ispirato la novella e con la stessa lettera della legge, la quale, nel fare riferimento al concetto di "illegalità" della attività acquisitiva, evoca, per l’appunto, una attività di assunzione di dati e notizie preservate dall’art. 15 Cost., estranea all’ordinario procedimento che disciplina le intercettazioni.
Sul punto, infatti, si è espressa in termini più che perspicui la stessa Corte costituzionale, la quale, chiamata a pronunciarsi sulla disciplina in esame, ha avuto modo di censurare l’art. 240 c.p.p.,commi 4, 5 e 6, come novellati, nella parte in cui la relativa procedura di distruzione comprometteva il diritto al contraddittorio e di difesa, proprio di chi è incolpato in ragione della illegalità della attività di intercettazione.
La Corte, infatti, ha avuto modo di sottolineare come la normativa oggetto di scrutinio di costituzionalità "è stata approvata per porre rimedio ad un dilagante e preoccupante fenomeno di violazione della riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, sia provenienti da attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia – fatto più grave, che riguarda direttamente il presente giudizio – effettuate al di fuori dell’esercizio di ogni legittimo potere da pubblici ufficiali o da privati mossi da finalità diverse, che comunque non giustificano l’intrusione nella vita delle persone.
La preoccupazione del legislatore – ha sottolineato la Corte – è stata quella di evitare che la doverosa osservanza delle norme che impongono la pubblicità degli atti del processo possa risolversi in un ulteriore danno per le vittime della illecita interferenza, le quali, oltre ad aver subito indebite intrusioni nella propria sfera personale, rimarrebbero esposte, per un lungo periodo, al rischio che il frutto dell’attività illegale di informazione e intercettazione possa diventare strumento di campagne diffamatorie e delegittimanti nei loro riguardi …
L’intento di prevenire tali possibili abusi – ha, dunque, conclusivamente rilevato la Corte – ha indotto lo stesso legislatore ad introdurre una disciplina derogatoria rispetto alla normativa ordinaria sulla conservazione del corpo di reato: i documenti, i supporti e gli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati e acquisiti, devono essere distrutti, per disposizione del giudice per le indagini preliminari, al più presto possibile, nell’ambito di un procedimento incidentale molto rapido, che deve precedere la chiusura delle indagini preliminari" (v. sentenza n. 173 del 2009).
Può, quindi, ritenersi condivisibile l’assunto della Sezione rimettente di reputare inconferente, agli effetti che qui rilevano, il procedimento di distruzione delle intercettazioni "illegali" di cui al nuovo testo dell’art. 240 c.p.p., riferendosi lo stesso alle ipotesi in cui i supporti e gli atti siano stati custoditi in quanto corpo di reato.
Ma la stessa Sezione trascura però di considerare che è lo stesso art. 271 c.p.p., comma 3, a stabilire che "in ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo di reato".
Dunque, la eliminazione "fisica" della intercettazione "illegittima", perché compiuta in violazione (anche soltanto) dell’art. 268, comma 3, dello stesso codice, era e resta l’epilogo "ordinario"; mentre la ipotesi della intercettazione "illegale", che rappresentava la deroga alla distruzione, secondo la clausola di salvezza riferita al fatto che essa costituisse, appunto, "corpo di reato", trova ora previsione e disciplina nella diversa sede offerta dal novellato art. 240.
Avendo quindi il legislatore stabilito, accanto alla inutilizzabilità dei risultati, la distruzione delle intercettazioni nei casi previsti dal richiamato art. 271 c.p.p., se ne deve dedurre – secondo la più plastica delle evidenze – che nelle ipotesi normativamente indicate, la volontà perseguita dalla legge è stata quella di escludere, non soltanto sul piano giuridico, ma financo su quello della "materialità" degli atti, qualsiasi possibilità di legittima fruizione di quelle acquisizioni: dunque, non soltanto ai fini del processo, nel cui ambito le intercettazioni sono state effettuate, ma in qualsiasi altro procedimento, penale, civile, amministrativo o disciplinare che sia, posto che un diverso regime non potrebbe logicamente sostenersi, se non facendo leva sulla del tutto casuale "non distruzione" di quegli atti e supporti.
8. – Tutto ciò non esclude, peraltro, la sussistenza di un diffuso "disagio" per il particolare rigore con il quale il legislatore ha accomunato, fra loro, sotto la medesima sanzione della inutilizzabilità, ipotesi obiettivamente diverse per "gravità", quali, da un lato, la illegittimità del provvedimento autorizzatorio delle intercettazioni o, addirittura, la sua inesistenza, e, dall’altro, il "semplice" difetto di motivazione del provvedimento del pubblico ministero che autorizza l’espletamento delle intercettazioni extra moenia.
Un "disagio", quello di cui si è fatto cenno, attestato dai vari contrasti di giurisprudenza che hanno più volte richiesto l’intervento di queste Sezioni Unite, e da una nutrita serie di questioni di legittimità costituzionale, tutte disattese dalla Corte costituzionale.
In particolare, si è in varie circostanze sottolineato la "inattualità" delle ragioni – a suo tempo evidenziate nella più volte richiamata sentenza n. 34 del 1973 della Corte costituzionale – che avevano suggerito di circondare di garanzie anche la fase esecutiva, per impedire possibili abusi da parte della polizia giudiziaria. Ciò, sia in funzione dei ritrovati della tecnica (v., ad es., in tema di legittimità dell’ascolto "remotizzato", Sez. un., 26 giugno 2008, n. 36359, Carli), sia in considerazione del diverso spettro di garanzie che sono invece previste, ad esempio, proprio in tema di intercettazioni eseguite a fini di prevenzione, dalla L. n. 646 del 1982, art. 16.
Si tratta di rilievi non privi di suggestione, ma ai quali non può che replicarsi negli stessi termini con i quali la Corte costituzionale ha respinto le censure di legittimità delle linee di sistema che vengono qui in discorso.
A proposito, infatti, del carattere in assunto "anacronistico" della disciplina dettata dall’art. 268 c.p.p., comma 3, la Corte ha replicato come non fosse proprio compito – così come non lo è di nessun giudice – quello di "inseguire" il progresso tecnologico, valutando se esso renda necessario od opportuno un adeguamento, o addirittura il superamento delle originarie regole di cautela:
trattandosi, al contrario, di valutazione istituzionalmente rimessa al legislatore".
Allo stesso modo, ha soggiunto la Corte, "rientra in un ragionevole ambito di discrezionalità legislativa – tenuto conto della pregnanza dei valori in gioco – stabilire se la violazione delle regole in questione debba essere o meno equiparata, sul piano della sanzione processuale, alla carenza dell’autorizzazione e all’esecuzione delle intercettazioni al di fuori dei casi consentiti dalla legge".
A proposito, infine, della (allora) denunciata disparità di trattamento, in parte qua, delle intercettazioni a fini di ricerca della prova rispetto alle intercettazioni preventive, la Corte non ha mancato di rilevare come "affermare che la disciplina in tema di localizzazione degli impianti … è costituzionalmente compatibile, non equivalga a dire che sia addirittura costituzionalmente obbligata: ben potendo, al contrario, il legislatore modulare in maniera diversa – in un ventaglio di possibili alternative, caratterizzate da maggiore o minore "rigidezza" – i meccanismi di garanzia degli interessi in gioco" (v. la già citata ordinanza n. 443 del 2004).
Si tratta, pertanto, di scelte normative, in ipotesi criticabili, ma, evidentemente, non manipolabili a livello ermeneutico.
9. – Deve in conclusione affermarsi il principio che le intercettazioni dichiarate inutilizzabili a norma dell’art. 271 c.p.p. (nella specie, per mancata osservanza delle disposizioni previste dall’art. 268, comma 3, dello stesso codice), così come le prove inutilizzabili a norma dell’art. 191 c.p.p., perché acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, non sono suscettibili di utilizzazione agli effetti di qualsiasi tipo di giudizio, ivi compreso quello relativo alla applicazione di misure di prevenzione.
10. – Alla stregua, pertanto, dell’appena indicato principio di diritto e scendendo all’esame dei singoli ricorsi, il provvedimento oggetto di impugnativa deve essere annullato con rinvio nei confronti di L.P., C.C., D.L., S.P., A.M. (o M.), affinchè, in sede di rinvio, venga rivalutato il quadro complessivo degli elementi acquisiti e verificata la relativa idoneità a fondare su di esso le statuizioni già adottate, previa espunzione, dalle acquisizioni a tal fine delibabili, delle risultanze scaturite dalle intercettazioni dichiarate inutilizzabili.
Nei confronti di M.D.P. il decreto impugnato deve essere annullato senza rinvio per morte del ricorrente.
Quanto a C.G.G., il relativo ricorso è palesemente inammissibile, essendosi il ricorrente limitato a formulare censure del tutto generiche e fortemente orientate a conseguire una semplice rivalutazione dei fatti posti a base della misura applicata.
Il ricorrente deve conseguentemente essere condannato al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro mille, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.
Deve da ultimo rilevarsi la palese inconsistenza del motivo di ricorso, comune a M.D.P., C.C. e S.P., secondo il quale la L. n. 55 del 1990, art. 14 consentirebbe "di estendere le disposizioni di cui alla L. n. 575 del 1965 sulle indagini e sull’applicazione delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale anche ai soggetti indiziati di altri reati diversi da quello di cui all’art. 416 bis c.p. (L. n. 685 del 1975, art. 75 poi sostituito dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74) ma non consente l’estensione a tali categorie anche delle norme sull’applicazione delle misure di prevenzione a carattere personale (come è, invece, illegittimamente avvenuto nel caso di specie)".
Come, infatti, puntualmente rilevato dal Procuratore Generale requirente, con riferimento alle misure di prevenzione personali, la L. 3 agosto 1988, n. 327, art. 13 modificando della L. 22 maggio 1975, n. 152, l’art. 19, comma 1 ha stabilito che le disposizioni di cui alla L. 31 maggio 1965, n. 575, si applichino anche alle persone indicate nella L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 1, nn. 1 e 2).
Per effetto di tale norma sussiste, quindi, una completa equiparazione, in materia di misure di prevenzione personali, tra soggetti pericolosi in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad esse corrispondenti (pericolosità cosiddetta "qualificata" ai sensi della L. n. 575 del 1965) e soggetti pericolosi in quanto abitualmente dediti a traffici delittuosi ovvero ad attività delittuose da cui, almeno in parte, traggano i mezzi di vita (pericolosità cosiddetta "generica", ai sensi della L. "base" n. 1423 del 1956).
Risultando quindi compresa in tale sfera applicativa anche la condotta illecita di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, ne deriva che lo scrutinio di pericolosità "generica" legittima la applicazione delle conseguenti misure di prevenzione personali.
Va d’altra parte osservato che la materia è stata di recente profondamente incisa dalle modifiche introdotte dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 luglio 2008, n. 125, il quale, per quel che qui interessa, ha, da un lato, abrogato della L. n. 55 del 1990, l’art. 14 dall’altro, introdotto modifiche alla L. n. 152 del 1975, art. 19, comma 1 ma lasciandone inalterata la portata precettiva.
Da ciò la conferma della perdurante validità del consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale il rinvio enunciato dalla citata L. n. 152 del 1975, art. 19, comma 1, non ha carattere materiale o recettizio, ma è di ordine formale, nel senso che, in difetto di una espressa esclusione o limitazione, deve ritenersi esteso a tutte le norme successivamente interpolate nell’atto-fonte, in sostituzione, modificazione o integrazione di quelle originarie.
Donde la conclusione che, accanto alle misure di prevenzione personali, già pacificamente applicabili, a seguito della novella introdotta dal D.L. n. 92 del 2008, pure le misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca possono essere applicate nei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi in quanto abitualmente dediti a traffici delittuosi o che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, a prescindere dalla tipologia dei reati in riferimento (cosiddetta pericolosità "generica") (Sez. 1^, 17 settembre 2008, n. 36748; Sez. 1^, 5 febbraio 2009, n. 8510; Sez. 1^, 26 maggio 2009, n. 26751; Sez. 2^, 14 maggio 2009, n. 33597).
Anche le restanti doglianze proposte dai ricorrenti si rivelano palesemente inammissibili, sia perché sterilmente riproduttive di censure già puntualmente disattese in sede di gravame di merito, sia perché tutte concentrate su profili di mero fatto, evidentemente estranei al rigoroso perimetro entro il quale è circoscritto il sindacato di legittimità in tema di misure di prevenzione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso di C.G.G. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Annulla senza rinvio il decreto impugnato nei confronti di M. D.P. per morte del ricorrente.
Annulla il decreto impugnato nei confronti di L.P., C.C., D.L., S.P., A. M. (o M.) e rinvia per nuovo esame alla Corte di appello di Lecce.

Così deciso in Roma, il 25 marzo 2010.
Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2010.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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