Corte Costituzionale sentenza n. 8 SENTENZA 10 – 12 gennaio 2011 .

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 3 del 19-1-2011

Sentenza

nel giudizio di legittimita’ costituzionale degli artt. 35 e 48,
commi da 1 a 4, della legge della Regione Emilia-Romagna 22 dicembre
2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale adottata a norma
dell’articolo 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in
coincidenza con l’approvazione del bilancio di previsione della
Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2010 e del
bilancio pluriennale 2010-2012), promosso dal Presidente del
Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 22-25 febbraio 2010,
depositato in cancelleria il 2 marzo 2010 ed iscritto al n. 29 del
registro ricorsi 2010.
Visto l’atto di costituzione della Regione Emilia-Romagna;
Udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2010 il Giudice
relatore Maria Rita Saulle;
Uditi l’avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente
del Consiglio dei ministri e gli avvocati Luigi Manzi e Giandomenico
Falcon per la Regione Emilia-Romagna.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 22-25 febbraio 2010 e depositato
il successivo 2 marzo, il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha
impugnato gli artt. 35 e 48 della legge della Regione Emilia-Romagna
22 dicembre 2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale adottata a norma
dell’art. 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in
coincidenza con l’approvazione del bilancio di previsione della
Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2010 e del
bilancio pluriennale 2010-2012), in riferimento agli artt. 3 e 117,
commi secondo, lettere i), l), m), terzo e quinto, della
Costituzione.
1.1. – La prima questione investe l’art. 35 della cennata legge
regionale, nella parte in cui prevede che la «Regione, avvalendosi
della Commissione regionale del farmaco, puo’ prevedere, in sede di
aggiornamento del Prontuario terapeutico regionale, l’uso di farmaci
anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione
all’immissione in commercio (AIC), quando tale estensione consenta, a
parita’ di efficacia e di sicurezza rispetto a farmaci gia’
autorizzati, una significativa riduzione della spesa farmaceutica a
carico del Servizio sanitario nazionale e tuteli la liberta’ di
scelta terapeutica da parte dei professionisti del SSN».
Secondo la difesa dello Stato, il legislatore regionale, nello
stabilire la «possibilita’ di utilizzare, nell’ambito del Servizio
sanitario nazionale, un medicinale per indicazioni terapeutiche
diverse da quelle prescritte dall’Agenzia del farmaco (AIFA) all’atto
del rilascio dell’autorizzazione», sarebbe andato oltre le proprie
competenze, incidendo sui livelli essenziali di assistenza la cui
determinazione spetta alla potesta’ legislativa esclusiva dello Stato
ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della
Costituzione.
A sostegno delle proprie argomentazioni il ricorrente richiama
alcune sentenze (n. 271 del 2008 e n. 44 del 2010) con le quali la
Corte costituzionale ha espressamente affermato che l’erogazione dei
farmaci rientra nei livelli essenziali di assistenza, nonche’ alcune
norme statali che regolano l’uso cd. off label dei medicinali.
In proposito il ricorrente rileva che l’art. 6, comma 1, del
decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 (Attuazione della
direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad
un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonche’
della direttiva 2003/94/CE) prevede che nessun medicinale puo’ essere
messo in commercio sul territorio nazionale senza autorizzazione
dell’AIFA o di quella comunitaria «a norma del regolamento (CE) n.
726/2004 in combinato disposto con il Regolamento (CE) n. 1394/2007».
Detta autorizzazione e’, altresi’, necessaria «per ogni ulteriore
dosaggio, forma farmaceutica, via di somministrazione e
presentazione, nonche’ per le variazioni ed estensioni» del
medicinale.
L’art. 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536
(Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la
rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996), convertito con
legge 23 dicembre 1996, n. 648, dispone, poi, che, «qualora non
esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico
del Servizio sanitario nazionale […] i medicinali da impiegare per
un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata», inseriti
in un apposito elenco predisposto e aggiornato dalla Commissione
unica del farmaco, sulla base di procedure e criteri da essa stessa
determinati.
Infine, l’art. 3, comma 2, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n.
3 (recte: 23) (Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni
cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria),
convertito in legge con legge 8 aprile 1998, n. 4 (recte: 94)
nell’introdurre una deroga al principio poc’anzi citato, ha
riconosciuto al medico, in casi particolari, sotto la sua
responsabilita’ e con il consenso del paziente, la possibilita’ di
impiegare un farmaco prodotto industrialmente «per un’indicazione o
una via di somministrazione […] diversa da quella autorizzata». La
medesima norma, al comma 4, precisa il Presidente del Consiglio dei
ministri, statuisce, tuttavia, che tale facolta’ non «puo’ costituire
riconoscimento del diritto del paziente alla erogazione dei
medicinali a carico del Servizio sanitario nazionale, al di fuori
dell’ipotesi disciplinata dall’art. 1, comma 4, del decreto-legge 21
ottobre 1996, n. 536».
Tale prescrizione, precisa ancora il ricorrente, e’ stata in
seguito ribadita dall’art. 1, comma 736 (recte: 796), lettera z),
della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge finanziaria
2007), secondo cui il cennato art. 3, comma 2, del decreto-legge n.
23 del 1998 «non e’ applicabile al ricorso a terapie farmacologiche a
carico del Servizio sanitario nazionale che, nell’ambito dei presidi
ospedalieri o di altre strutture e interventi sanitari, assuma
carattere diffuso e sistematico e si configuri, al di fuori delle
condizioni di autorizzazione all’immissione in commercio, quale
alternativa terapeutica rivolta a pazienti portatori di patologie per
le quali risultino autorizzati farmaci recanti specifica indicazione
al trattamento. Il ricorso a tali terapie e’ consentito solo
nell’ambito delle sperimentazioni cliniche dei medicinali di cui al
decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 211, e successive
modificazioni».
Cosi’ ricostruito il quadro normativo di riferimento, il
ricorrente ritiene che la previsione regionale di «estendere l’uso di
farmaci nell’ambito del SSN, anche al di fuori delle indicazioni
registrate nell’AIC, peraltro per finalita’ e con modalita’ che […]
travalicano quelle previste» dalle richiamate disposizioni statali,
inciderebbe «negativamente» sui livelli essenziali di assistenza, in
quanto determinerebbe «una evidente disparita’ di trattamento tra gli
assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il resto dei fruitori del
SSN su scala nazionale, consentendo un decremento del regime di
assistenza riconosciuto, consistente nell’impiego improprio di
medicinali».
In via subordinata, il ricorrente ritiene, inoltre, che
«nell’ipotesi» in cui si considerasse la disposizione impugnata come
espressione della competenza legislativa concorrente delle Regioni in
materia di tutela della salute, essa sarebbe comunque illegittima,
per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in
quanto inciderebbe «sulla determinazione dei principi fondamentali»
riservata allo Stato.
Sul punto il ricorrente precisa che «la materia relativa all’uso
dei farmaci», anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, in
particolare, della sentenza n. 282 del 2002, attiene senza dubbio ai
principi fondamentali. Principi contenuti nella normativa statale
finora richiamata, in base alla quale, prosegue il Presidente del
Consiglio dei ministri, le variazioni delle indicazioni terapeutiche
dei farmaci sono sottoposte a preventiva autorizzazione e
l’erogazione di medicinali a carico del Servizio sanitario nazionale
per indicazioni terapeutiche diverse da quelle autorizzate e’
possibile «solo qualora non esista una valida alternativa terapeutica
e, comunque, previo inserimento degli stessi in un apposito elenco
predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione unica del
farmaco».
Tanto premesso, secondo il ricorrente, la norma regionale
impugnata violerebbe i suddetti principi fissati dallo Stato in
quanto: a) «finalizza» la possibilita’ di utilizzare farmaci anche al
di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione
all’immissione in commercio, «alla prospettiva di una significativa
riduzione della spesa farmaceutica a carico del SSN», senza «tenere
conto del piu’ stringente criterio della mancanza di valide
alternative sul piano curativo»; b) «oblitera» le competenze della
Commissione tecnico scientifica dell’AIFA «e dei corrispondenti
organi comunitari», nonche’ la procedura in base alla quale puo’
avvenire l’erogazione del farmaco.
1.2. – Con una seconda questione il Presidente del Consiglio dei
ministri impugna, inoltre, l’art. 48 della legge regionale n. 24 del
2009.
In particolare, censura il comma 1, nella parte in cui
attribuisce ai cittadini di Stati parti dell’Unione europea il
diritto di accedere alla fruizione dei servizi privati in condizione
di parita’ e senza discriminazione. La norma, secondo il ricorrente,
nel sancire «il corrispondente obbligo per gli operatori economici
privati di non rifiutare la loro prestazione», introdurrebbe un
obbligo legale a contrarre, peraltro gia’ previsto dal legislatore
statale all’art. 187 del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635
(Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18
giugno 1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza) e, pertanto,
violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
1.3. – Con una terza questione il ricorrente impugna il comma 2
del citato art. 48. La disposizione e’ impugnata nella parte in cui
prevede che la Regione «assume le nozioni di discriminazione diretta
ed indiretta previste» dalla direttiva 2000/43/CE del Consiglio
dell’Unione europea relativa al principio della parita’ di
trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e dall’origine
etnica, dalla direttiva del Consiglio dell’Unione europea 2000/78/CE,
che stabilisce un quadro generale per la parita’ di trattamento in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e dalla direttiva
2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa
all’attuazione del principio delle pari opportunita’ e della parita’
di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di
impiego.
Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la Regione,
nel recepire dalla normativa comunitaria la nozione di
discriminazione diretta e indiretta, sarebbe intervenuta in un ambito
di competenza esclusiva dello Stato, poiche’ «il concetto di
discriminazione» attiene alla materia «ordinamento civile» di cui
all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. Sotto
altro profilo, la norma si porrebbe in contrasto con l’art. 16 della
legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione
dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle
procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), e quindi
violerebbe l’art. 117, quinto comma, della Costituzione, in quanto la
Regione avrebbe «recepito una direttiva in una materia che esula
dalla propria competenza».
Il ricorrente ritiene, inoltre, che la disposizione impugnata
violi l’art. 3 della Costituzione, a norma del quale spetta alla
Repubblica il compito di rimuovere ogni ostacolo di ordine economico
e sociale che limiti di fatto la liberta’ e l’uguaglianza dei
cittadini. A suo avviso, non potrebbe essere lasciata alle singole
Regioni la disciplina in materia di discriminazione, in quanto cio’
«potrebbe comportare il rischio di avere diverse forme di tutela
sull’intero territorio nazionale, con evidenti pregiudizi ed
ingiustificate difformita’ normative».
1.4. – La quarta questione investe il comma 3 dell’art. 48 della
legge regionale n. 24 del 2009. Detta disposizione e’ impugnata nella
parte in cui prevede che «i diritti generati dalla legislazione
regionale nell’accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi, si
applicano» anche «alle forme di convivenza», di cui all’art. 4 del
decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223
(Applicazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione
residente).
Secondo il ricorrente, il richiamo operato dal legislatore
regionale alle «forme di convivenza», di cui al citato d.P.R. che,
nel definire la «famiglia anagrafica», ricomprende «l’insieme delle
persone legate da vincoli affettivi», eccederebbe le competenze
regionali, comportando un’invasione della potesta’ legislativa
esclusiva dello Stato nelle materie di «cittadinanza, stato civile e
anagrafi» e dell’«ordinamento civile». Al riguardo, il ricorrente
precisa che, secondo la giurisprudenza amministrativa, la nozione di
famiglia nucleare e’ diversa da quella di famiglia anagrafica e che,
alla luce della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 253 del
2006), le Regioni possono adottare «misure di sostegno a favore di
determinate categorie di persone» solo nell’ambito delle materie
riservate alla propria competenza legislativa.
1.5. – Con una quinta questione il Presidente del Consiglio dei
ministri impugna il comma 4 dell’art. 48 che prevede la promozione
«di azioni positive per il superamento di eventuali condizioni di
svantaggio derivanti da pratiche discriminatorie».
Il ricorrente ritiene che il citato comma sia in contrasto con
l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto
esso «e’ strettamente connesso al primo comma e segue di conseguenza
l’interpretazione attribuita a quest’ultimo. Conseguentemente risulta
illegittimo per gli stessi motivi che affliggono tale disposizione».
2. – Con atto depositato il 6 aprile 2010 si e’ costituita in
giudizio la Regione Emilia-Romagna.
2.1. – Con riferimento alla censura rivolta all’art. 35 della
legge regionale n. 24 del 2009 e relativa alla violazione dell’art.
117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, la difesa
regionale eccepisce, in via preliminare, l’inammissibilita’ della
stessa, in quanto, premesso che secondo la giurisprudenza
costituzionale i livelli essenziali delle prestazioni farmaceutiche
sono stabiliti dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli
essenziali di assistenza), il ricorrente non avrebbe indicato quale
disposizione del citato decreto sia stata violata dalla Regione.
La difesa regionale precisa, inoltre, che il cennato D.P.C.M.
disciplina i livelli di assistenza farmaceutica come livelli di
erogazione territoriale dei farmaci, mentre, la norma impugnata si
riferisce alla somministrazione di farmaci nell’ambito
dell’assistenza ospedaliera.
La Regione ritiene, poi, inconferenti le norme statali richiamate
dal Presidente del Consiglio dei ministri a sostegno della censura,
in particolare, l’art. 6 del citato d.lgs. n. 219 del 2006 a norma
del quale nessun farmaco puo’ essere immesso in commercio senza aver
ottenuto la prescritta autorizzazione. La disposizione impugnata,
infatti, avrebbe ad oggetto «farmaci regolarmente autorizzati, dal
momento che ne disciplina l’uso off label: "label" essendo l’uso
indicato nell’autorizzazione».
Inoltre, sempre in via preliminare, ad avviso della Regione
resistente, il ricorrente avrebbe citato disposizioni che, «allo
scopo di impedire l’aumento della spesa, limitano le possibili
prestazioni del servizio sanitario nazionale, la cui violazione
dunque concettualmente» non potrebbe essere riferita alla violazione
dei livelli essenziali, posto che «la Regione darebbe semmai un di
piu’, non un di meno».
Nel merito, la difesa regionale ritiene infondata la censura, in
quanto la norma impugnata non introdurrebbe alcuna restrizione alla
disponibilita’ dei farmaci ed al loro utilizzo nel servizio sanitario
ospedaliero. La norma impugnata si limiterebbe, infatti, a consentire
alle strutture del servizio sanitario di utilizzare, nel rispetto
della liberta’ del medico e del consenso informato dei pazienti,
«farmaci regolarmente immessi in commercio, per usi cd. off label,
quando sia scientificamente accertata la "parita’ di efficacia e di
sicurezza rispetto a farmaci gia’ autorizzati" e quando questo
consenta "una significativa riduzione della spesa farmaceutica a
carico del Servizio sanitario nazionale"»; «il tutto», precisa ancora
la difesa regionale, attraverso lo strumento del Prontuario
terapeutico regionale e sotto il controllo tecnico di un’apposita
commissione (Commissione regionale del farmaco), formata da esperti
(medici, farmacisti, farmacologici, clinici del Servizio sanitario
regionale, nonche’ da componenti delle Commissioni provinciali del
farmaco).
Del pari infondata sarebbe poi la censura riferita alla
violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione. Con
riferimento al citato art. 6 del decreto legislativo n. 219 del 2006,
la Regione ribadisce che detta disposizione non puo’ venire in
rilievo nella presente controversia, in quanto essa sancisce il
divieto di immettere in commercio farmaci non autorizzati, laddove la
disposizione impugnata ha ad oggetto farmaci regolarmente
autorizzati.
Riguardo all’art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 536 del 1996,
secondo la difesa regionale detta disposizione deve essere letta come
una «norma che fissa un livello essenziale di prestazione», con la
conseguenza che la Regione non potrebbe precludere «l’erogabilita’ di
tali farmaci».
La norma impugnata non contrasterebbe con quanto disposto dalla
indicata norma statale in quanto il legislatore avrebbe provveduto
proprio nel senso da essa indicato, stabilendo, in particolare, che,
anche qualora esista «una alternativa terapeutica "scientificamente
valida"», ma risultasse «impraticabile per ragioni di costo», come
nel caso di specie, l’assistenza ospedaliera fornita dal Servizio
sanitario possa utilizzare off label «principi attivi ricavati da
farmaci autorizzati per altri usi». E cio’, prosegue la Regione,
«quando tale estensione consenta, a parita’ di efficacia e di
sicurezza rispetto a farmaci gia’ autorizzati», di ridurre la spesa
farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale.
Non risulterebbe, altresi’, violato, contrariamente a quanto
ritenuto dal ricorrente, l’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 23
del 1998, in quanto la disposizione impugnata non inciderebbe sulla
discrezionalita’ del medico, la quale risulterebbe, al contrario,
oggetto di specifica tutela.
Quanto all’asserito contrasto della disposizione regionale con
l’art. 1, comma 796, lettera z), della legge n. 296 del 2006, la
difesa regionale sottolinea che lo scopo della citata norma statale,
al pari di quella regionale, e’ limitare la spesa. Cio’ premesso, la
Regione precisa che la norma impugnata non permetterebbe «un uso
generale e sistematico dei farmaci in modalita’ off label», ma
soltanto in casi specifici e «a parita’ di efficacia»; efficacia
stabilita non dalla Regione, ma dalla «comunita’ scientifica dei
medici».
Del tutto infondata, prosegue la difesa regionale, sarebbe anche
la censura secondo la quale la norma regionale attribuirebbe ad
organi politici il compito di decidere in merito a scelte che,
invece, dovrebbero «basarsi su valutazioni scientifiche e della
scienza medica». Al riguardo, la Regione puntualizza che la
legislazione statale (sia quella che in generale prevede l’obbligo
dell’equilibrio finanziario del Servizio sanitario regionale sia
quella sul servizio farmaceutico e sull’uso dei farmaci nell’ambito
dell’assistenza fornita dalle strutture del servizio sanitario), pone
in capo alle Regioni il compito di effettuare «una "politica del
farmaco"» che non «si traduce in una sovrapposizione degli organi
politici alle scelte del medico […] bensi’ nell’organizzare le
strutture tecniche del servizio sanitario», affinche’ «con le proprie
scelte possano raggiungere gli obiettivi posti dal legislatore
statale». Nella realizzazione della suddetta "politica del farmaco",
la Regione, pertanto, non potrebbe che avvalersi delle «risorse
tecnico-scientifiche delle proprie strutture»; risorse che non
possono essere delegittimate solo per il fatto di operare a livello
regionale.
La difesa regionale, in subordine, sottolinea che in capo alle
Regioni sussiste l’obbligo, la cui violazione e’ sanzionata dalla
legislazione statale, di pareggiare i conti del Servizio sanitario e
di rispettare i limiti percentuali relativi alla spesa farmaceutica.
Pertanto, a suo avviso, sarebbe costituzionalmente illegittimo «porre
a carico delle Regioni un obbligo», sanzionarne il mancato rispetto,
«senza contestualmente attribuire il potere di controllare la spesa».
Ne consegue, che qualora le disposizioni statali e, in particolare,
l’art. 1, comma 796, lettera z), dovessero essere intese nel senso di
«precludere al Servizio sanitario regionale l’utilizzo off label di
farmaci di minor costo ma di pari efficacia dei farmaci registrati
per uso specifico, quando ne fosse accertato il pari valore
terapeutico», esse risulterebbero in contrasto sia con l’art. 97,
primo comma, della Costituzione, con riferimento al principio di buon
andamento dell’amministrazione, sia con l’art. 119 della
Costituzione, «in relazione all’autonomia finanziaria dal lato della
spesa».
2.2. – Successivamente la Regione procede all’esame dei motivi di
censura riferiti all’art. 48 della legge n. 24 del 2009.
Per quanto attiene all’asserita illegittimita’ del comma 1, la
resistente, nel concludere per l’infondatezza della censura, precisa
che la disposizione in parola non intende attribuire ai cittadini
dell’Unione specifici diritti verso «la generalita’ dei privati».
Essa, nella parte in cui prevede che la Regione «riconosce» a tutti i
cittadini dell’Unione europea i diritti di accesso ai servizi, si
limiterebbe «a prendere atto della loro esistenza, ed informare il
proprio comportamento al loro riconoscimento». Si tratterebbe,
precisa ancora la difesa regionale, di garantire l’accesso «alle
strutture private – ed in questo senso ai servizi "privati" –
nell’ambito dell’azione pubblica che direttamente o indirettamente fa
capo alla Regione». La disposizione pertanto non troverebbe
applicazione in relazione ai pubblici esercizi ed il richiamo alla
sentenza n. 253 del 2006 risulterebbe inconferente, considerato che
«la situazione e’ del tutto diversa» rispetto a quella che ha portato
la Corte a dichiarare incostituzionale, con la predetta sentenza, la
disposizione regionale che prevedeva obblighi di contrarre tra
privati, sanzionandone l’eventuale inosservanza.
2.3. – Anche la censura che investe il comma 2 dell’art. 48
sarebbe infondata, poiche’ la disposizione in parola non avrebbe «un
vero carattere normativo»; essa si limiterebbe ad esprimere «in forma
solenne l’adesione della Regione ai valori di civilta’ espressi dalle
direttive». La resistente contesta poi l’assunto del ricorrente
secondo cui la nozione di non discriminazione rientrerebbe
nell’ambito della materia «ordinamento civile». Al riguardo, secondo
la difesa regionale, si tratterebbe, piuttosto, di una nozione di
diritto costituzionale generale «che puo’ e deve trovare applicazione
nei diversi settori dell’ordinamento, ivi compreso quello dei servizi
dell’amministrazione».
Quanto all’asserito contrasto del citato comma 2 con l’art. 117,
quinto comma, della Costituzione, la difesa regionale ritiene che la
censura, fondandosi sulla presunta incompetenza della Regione in
materia di non discriminazione, risulterebbe una mera «ripetizione
della censura precedente». Non essendovi, inoltre, alcun «profilo
specifico», in relazione al suddetto parametro costituzionale, sempre
secondo la resistente, la censura sarebbe anche inammissibile.
La Regione ritiene poi infondata la censura avente ad oggetto la
violazione dell’art. 3 della Costituzione, in quanto il disposto
costituzionale asseritamente violato, nel sancire che spetta alla
Repubblica rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che
limiti di fatto la liberta’ e l’uguaglianza dei cittadini, non
intenderebbe riferirsi solo allo Stato, come erroneamente affermato
dal ricorrente, ma «a tutti gli enti che costituiscono la Repubblica,
ciascuno nell’ambito della propria competenza». Inoltre, la
resistente precisa che la legge regionale non disciplina in materia
di discriminazione, introducendo forme differenziate di tutela, «ma
si limita ad applicare nell’esercizio della propria competenza il
principio di non discriminazione, evitando discipline
discriminatorie».
2.4. – Riguardo alla censura che investe il comma 3 del citato
art. 48, la difesa regionale eccepisce, in via preliminare,
l’inammissibilita’ della stessa per genericita’. Il ricorrente,
infatti, avrebbe «semplicemente affermato, ma per nulla illustrato» i
motivi dell’asserito contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettere
i) e l), della Costituzione. Nel merito, la censura sarebbe
infondata, in quanto la disposizione regionale si limiterebbe ad
«utilizzare la nozione fornita dalla legge statale per individuare i
destinatari delle proprie norme», senza disciplinare nelle materie
della «cittadinanza, stato civile e anagrafi» e «ordinamento civile».
La resistente sottolinea al riguardo che, sulla base della
giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 253 del 2006), una legge
regionale puo’ utilizzare nozioni derivanti dalla legislazione
statale.
2.5. – Infine, anche la censura relativa al comma 4 sarebbe
inammissibile per genericita’, non avendo il ricorrente illustrato
«la presunta connessione con il comma 1, ne’ quale interpretazione di
questo potrebbe o dovrebbe essere seguita».
Nel merito, la censura risulterebbe comunque infondata perche’ la
disposizione prevede interventi promozionali «che non si traducono in
atti di autorita’, ma suggeriscono azioni di contrasto alle pratiche
discriminatorie su base puramente volontaria».
3. – In prossimita’ dell’udienza il Presidente del Consiglio dei
ministri ha depositato una memoria con la quale ribadisce le
argomentazioni esposte nel ricorso ed insiste per la declaratoria di
incostituzionalita’ delle norme regionali impugnate.
4. – Anche la difesa regionale ha depositato una memoria,
allegando tra l’altro alcuni documenti, con la quale insiste per
l’infondatezza del ricorso.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 117, commi secondo, lettere i), l), m),
terzo e quinto, della Costituzione, questione di legittimita’
costituzionale degli artt. 35 e 48 della legge della Regione
Emilia-Romagna 22 dicembre 2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale
adottata a norma dell’art. 40 della legge regionale 15 novembre 2001,
n. 40 in coincidenza con l’approvazione del bilancio di previsione
della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2010 e del
bilancio pluriennale 2010-2012).
1.1. – L’art. 35 e’ impugnato nella parte in cui attribuisce alla
Regione il potere di prevedere, in fase di aggiornamento del
prontuario terapeutico regionale, «l’uso di farmaci anche al di fuori
delle indicazioni registrate nell’autorizzazione all’immissione in
commercio». Ad avviso del ricorrente, la citata norma violerebbe
l’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto
esorbiterebbe dalle competenze regionali ed invaderebbe la competenza
esclusiva dello Stato in materia di livelli essenziali delle
prestazioni. In particolare, essa inciderebbe negativamente su questi
ultimi, poiche’ darebbe luogo ad «una disparita’ di trattamento tra
gli assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il resto dei fruitori
del SSN su scala nazionale» e consentirebbe un «decremento […] del
regime di assistenza sanitaria riconosciuto, consistente nell’impiego
improprio di medicinali».
In via subordinata, si deduce che la norma impugnata violerebbe,
altresi’, l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, che riserva
alla potesta’ legislativa concorrente la disciplina della tutela
della salute, in quanto risulterebbe in contrasto con i principi
fondamentali dettati dal legislatore riguardo alle modalita’ e alle
procedure per l’uso dei farmaci cd. off label, ovvero non inclusi nel
prontuario farmaceutico.
1.1.1. – In via preliminare, deve essere dichiarata fondata
l’eccezione di inammissibilita’ proposta dalla Regione resistente in
relazione all’asserito contrasto dell’impugnato art. 35 con l’art.
117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto la
censura risulta formulata in modo generico. Il ricorrente, infatti,
ha omesso di indicare la disposizione statale contenuta nel D.P.C.M.
29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza)
con la quale la norma regionale risulterebbe in contrasto e si e’
limitato ad affermare, in modo apodittico, che la norma impugnata
«impatta negativamente sui LEA, determinando una evidente disparita’
di trattamento tra gli assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il
resto dei fruitori del SSN su scala nazionale, consentendo un
evidente decremento del regime di assistenza sanitaria riconosciuto,
consistente nell’impiego improprio di medicinali».
Tale omissione rende inammissibile la censura, poiche’ questa
Corte ha gia’ affermato che «l’inserimento nel secondo comma
dell’art. 117 del nuovo Titolo V della Costituzione, fra le materie
di legislazione esclusiva dello Stato, della "determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale"
attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento per
garantire il mantenimento di una adeguata uniformita’ di trattamento
sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema
caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale
decisamente accresciuto» e che «la conseguente forte incidenza
sull’esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze
legislative ed amministrative delle Regione e delle Province
autonome» comporta «che queste scelte, almeno nelle loro linee
generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovra’ inoltre
determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere
alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano
necessarie nei vari settori» (sentenza n. 88 del 2003, nonche’
sentenza n. 134 del 2006).
1.1.2. – La questione di legittimita’ costituzionale dell’art.
35, prospettata con riferimento all’art. 117, terzo comma, della
Costituzione, e’ fondata.
Prima di procedere all’esame della censura, appare opportuno
ricostruire il quadro normativo entro il quale si inserisce la
questione oggetto del presente giudizio. Al riguardo va osservato che
il legislatore statale, nell’esercizio della propria competenza
concorrente in materia di tutela della salute, e’ piu’ volte
intervenuto per individuare i principi fondamentali volti a regolare
le modalita’ ed i criteri in base ai quali e’ ammesso l’uso dei
farmaci al di fuori delle indicazioni per le quali e’ stata
autorizzata la loro immissione in commercio (AIC).
L’art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 536 del 1996 (Misure per
il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del
tetto di spesa per l’anno 1996), convertito dalla legge 23 dicembre
1996, n. 648, statuisce che, «qualora non esista valida alternativa
terapeutica, sono erogabili a totale carico del SSN, a partire dal 1°
gennaio 1997, i medicinali innovativi la cui commercializzazione e’
autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale, i
medicinali non ancora autorizzati ma sottoposti a sperimentazione
clinica e i medicinali da impiegare per un’indicazione terapeutica
diversa da quella autorizzata, inseriti in un apposito elenco
predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione unica del
farmaco [oggi sostituita dall’Agenzia Italiana del Farmaco]
conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa».
Con il successivo decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23
(Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo
oncologico e altre misure in materia sanitaria), convertito in legge
con modificazioni dalla legge 8 aprile 1998, n. 94, il legislatore
statale e’ nuovamente intervenuto nella materia considerata.
In particolare l’art. 3, comma 2, del citato decreto-legge
prevede che il medico, in deroga al principio generale secondo cui,
nel prescrivere una specialita’ medicinale o altro medicinale
prodotto industrialmente, e’ tenuto ad attenersi «alle indicazioni
terapeutiche, alle vie e alle modalita’ di somministrazione previste
dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal
Ministero della Sanita’», puo’ «in singoli casi, sotto la sua diretta
responsabilita’ e previa informazione del paziente e acquisizione del
consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto
industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o
una modalita’ di somministrazione o di utilizzazione diversa da
quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti
dell’applicazione dell’art. 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre
1996, n. 536». Tale potere del medico e’ subordinato
all’accertamento, «in base a dati documentabili», che il paziente
«non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia
gia’ approvata quella indicazione terapeutica o quella via o
modalita’ di somministrazione e purche’ tale impiego sia noto e
conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate
in campo internazionale».
Il successivo comma 4 precisa, inoltre, che «in nessun caso il
ricorso, anche improprio, del medico alla facolta’ prevista dai commi
2 e 3 puo’ costituire riconoscimento del diritto del paziente
all’erogazione dei medicinali" a carico del SSN, al di fuori
dell’ipotesi disciplinata dal citato art. 1, comma 4, del d.l. n. 536
del 1996».
L’art. 6, comma 1, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219
(Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di
modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali
per uso umano, nonche’ della direttiva 2003/94/CE), a sua volta,
sancisce il principio di carattere generale, secondo cui nessun
medicinale puo’ essere immesso in commercio sul territorio nazionale
senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione
comunitaria a norma del regolamento CE n. 726/2004, in combinato
disposto con il regolamento CE n. 1394/2007. Il successivo comma 2
stabilisce poi che «quando per un medicinale e’ stata rilasciata una
AIC ai sensi del comma 1, ogni ulteriore dosaggio, forma
farmaceutica, via di somministrazione e presentazione, nonche’ le
variazioni ed estensioni sono ugualmente soggetti ad autorizzazione
ai sensi dello stesso comma 1».
Al fine di circoscrivere ulteriormente le condizioni in base alle
quali e’ possibile fare ricorso a medicinali per indicazioni
terapeutiche diverse da quelle autorizzate, il legislatore statale,
ancor piu’ recentemente, con l’art. 2, comma 348, della legge 24
dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato-legge finanziaria 2008), ha
stabilito che «In nessun caso il medico curante puo’ prescrivere, per
il trattamento di una determinata patologia, un medicinale di cui non
e’ autorizzato il commercio quando sul proposto impiego del
medicinale non siano disponibili almeno dati favorevoli di
sperimentazioni cliniche di fase seconda. Parimenti, e’ fatto divieto
al medico curante di impiegare, ai sensi dell’articolo 3, comma 2,
del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 aprile 1998, n. 94, un medicinale
industriale per un’indicazione terapeutica diversa da quella
autorizzata ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione
dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536,
convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora per tale
indicazione non siano disponibili almeno dati favorevoli di
sperimentazione clinica di fase seconda».
La medesima legge, all’art. 2, comma 349, ha attribuito alla
Commissione tecnico-scientifica dell’Agenzia Italiana del Farmaco, in
sostituzione della Commissione unica del farmaco, la competenza di
valutare, «oltre ai profili di sicurezza, la presumibile efficacia
del medicinale, sulla base dei dati disponibili delle sperimentazioni
cliniche gia’ concluse, almeno di fase seconda»; competenza,
quest’ultima, che deve essere esercitata proprio in riferimento alle
«decisioni da assumere ai sensi dell’articolo 1, comma 4, del
decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23
dicembre 1996, n. 648, e dell’articolo 2, comma 1, ultimo periodo,
del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 aprile 1998, n. 94».
1.1.3. – Nel riportato quadro normativo si inserisce la
disposizione regionale censurata.
Essa attribuisce alla Regione il potere di prevedere, in fase di
aggiornamento del Prontuario terapeutico regionale e avvalendosi
della Commissione regionale del farmaco, «l’uso di farmaci anche al
di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione
all’immissione in commercio, quando tale estensione consenta, a
parita’ di efficacia e di sicurezza rispetto a farmaci gia’
autorizzati, una significativa riduzione della spesa farmaceutica a
carico del Servizio sanitario nazionale e tuteli la liberta’ di
scelta terapeutica da parte dei professionisti del SSN».
Risulta evidente il contrasto tra la norma regionale e le
richiamate disposizioni statali. La norma impugnata, infatti,
individua condizioni diverse rispetto a quelle stabilite dal
legislatore per l’uso dei farmaci al di fuori delle indicazioni
registrate nell’AIC. In particolare, laddove le disposizioni statali
circoscrivono il ricorso ai farmaci cd. off label a condizioni
eccezionali e ad ipotesi specificamente individuate, la norma
regionale introduce una disciplina generalizzata in ordine
all’indicato utilizzo dei farmaci, rimettendo i criteri direttivi
alla Commissione regionale del farmaco, cosi’ eludendo il ruolo che
la legislazione statale attribuisce all’Agenzia Italiana del Farmaco
nella materia considerata.
A quest’ultimo riguardo deve osservarsi che questa Corte, con la
sentenza n. 185 del 1998, ha gia’ affermato che competono allo Stato
le responsabilita’, «attraverso gli organi tecnicoscientifici della
sanita’, con riguardo alla sperimentazione e alla certificazione
d’efficacia, e di non nocivita’, delle sostanze farmaceutiche e del
loro impiego terapeutico a tutela della salute pubblica».
Sempre al fine di assicurare la protezione della salute pubblica,
con la sentenza n. 282 del 2002 questa Corte ha avuto modo, altresi’,
di precisare che «un intervento sul merito delle scelte terapeutiche
in relazione alla loro appropriatezza non potrebbe nascere da
valutazioni di pura discrezionalita’ politica dello stesso
legislatore, bensi’ dovrebbe prevedere l’elaborazione di indirizzi
fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e
delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e
organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a cio’ deputati» .
Pertanto, la violazione dei citati principi generali posti dalla
legislazione statale comporta la declaratoria di illegittimita’ della
norma regionale in esame.
1.2. – L’art. 48, comma 1, e’ impugnato nella parte in cui
«riconosce a tutti i cittadini di Stati appartenenti alla Unione
europea il diritto di accedere alla fruizione dei servizi pubblici e
privati in condizioni di parita’ di trattamento e senza
discriminazione, diretta o indiretta, di razza, sesso, orientamento
sessuale, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali
e sociali. L’accesso ai servizi avviene a parita’ di condizioni
rispetto ai cittadini italiani e con la corresponsione degli
eventuali contributi da questi dovuti». Secondo il Presidente del
Consiglio dei ministri, la citata disposizione violerebbe l’art. 117,
secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto
introdurrebbe «un’ipotesi di obbligo legale a contrarre», incidendo
cosi’ sull’autonomia negoziale dei privati.
1.2.1. – La questione non e’ fondata.
La disposizione si limita a richiamare l’obbligo del necessario
rispetto del principio di eguaglianza e di non discriminazione tratti
dalla Costituzione e dai Trattati europei. Ne consegue che la
disposizione impugnata non e’ idonea a ledere alcuna competenza
riservata allo Stato.
1.3. – L’art. 48, comma 2, e’ impugnato nella parte in cui
prevede che la Regione «assume» la nozione di discriminazione diretta
ed indiretta contenuta nella direttiva 2000/43/CE del Consiglio
dell’Unione europea, relativa al principio della parita’ di
trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e dall’origine
etnica, nella direttiva 2000/78/CE del Consiglio dell’Unione europea,
che stabilisce un quadro generale per la parita’ di trattamento in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e nella direttiva
2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa
all’attuazione del principio delle pari opportunita’ e della parita’
di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di
impiego. Ad avviso del ricorrente la norma violerebbe l’art. 3 della
Costituzione, in quanto spetta «alla Repubblica il compito di
rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che limiti di
fatto la liberta’ e l’uguaglianza dei cittadini». La disposizione
impugnata risulterebbe, altresi’, in contrasto con l’art. 117,
secondo comma, lettera l), della Costituzione, poiche’ «il concetto
di discriminazione» rientrerebbe nella «materia ordinamento civile»,
di competenza esclusiva dello Stato. Essa, infine, violerebbe l’art.
117, quinto comma, della Costituzione, attraverso il parametro
interposto costituito dall’art. 16 della legge 4 febbraio 2005, n. 11
(Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo
normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli
obblighi comunitari), in quanto la Regione avrebbe «recepito» atti
comunitari in una materia che esula dalla propria competenza
esclusiva.
1.3.1. – La questione non e’ fondata.
Con tale disposizione il legislatore regionale non ha provveduto
ad attuare atti comunitari, ma si e’ limitato, evidentemente con
riferimento all’esercizio delle molteplici competenze di cui e’
titolare, a servirsi delle "nozioni" desumibili dal diritto
comunitario ai fini dell’autonomo svolgimento delle attribuzioni
regionali.
La norma impugnata, pertanto, non e’ suscettibile di recare alcun
vulnus alle competenze statali.
1.4. – L’art. 48, comma 3, e’ censurato nella parte in cui
prevede che «i diritti generati dalla legislazione regionale
nell’accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi, si applicano»
anche «alle forme di convivenza» di cui all’art. 4 del decreto del
Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (Applicazione del
nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente). Ad avviso
del Presidente del Consiglio dei ministri, la citata disposizione
violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettere i) e l), della
Costituzione, poiche’ il richiamo operato dal legislatore regionale
alle «forme di convivenza», di cui al citato d.P.R. che, nel definire
la «famiglia anagrafica», ricomprenderebbe «l’insieme delle persone
legate da vincoli affettivi», eccederebbe le competenze regionali ed
invaderebbe la competenza esclusiva dello Stato nelle materie di
«cittadinanza, stato civile e anagrafi» e dell’«ordinamento civile».
1.4.1. – In via preliminare, va rigettata l’eccezione di
inammissibilita’ per genericita’ della motivazione sollevata dalla
difesa regionale, posto che le argomentazioni sviluppate dal
ricorrente sono sufficienti per l’individuazione dell’oggetto della
doglianza.
Nel merito la questione non e’ fondata.
La censura si fonda sull’erroneo presupposto interpretativo,
secondo cui il legislatore regionale ha inteso disciplinare tali
forme di convivenza. Viceversa, la norma impugnata si limita ad
indicare l’ambito soggettivo di applicazione dei diritti previsti
dalla legislazione regionale nell’accesso ai servizi, alle azioni e
agli interventi senza introdurre alcuna disciplina sostanziale delle
forme di convivenza.
Pertanto, essa risulta inidonea ad invadere ambiti
costituzionalmente riservati allo Stato.
1.5. – L’art. 48, comma 4, e’ impugnato nella parte in cui
prevede che la Regione promuove «azioni positive per il superamento
di eventuali condizioni di svantaggio derivanti da pratiche
discriminatorie». La disposizione violerebbe l’art. 117, secondo
comma, lettera l), della Costituzione, in quanto, «pur contenendo una
norma programmatica priva di immediato rilievo costituzionale, e’
strettamente conness[a] al primo comma e segue di conseguenza
l’interpretazione attribuita a quest’ultimo». Pertanto, secondo il
ricorrente, la disposizione risulterebbe illegittima «per gli stessi
motivi che affliggono» il primo comma dell’art. 48.
1.5.1. – L’eccezione di inammissibilita’ della questione,
sollevata dalla difesa regionale, e’ fondata.
La censura, infatti, e’ formulata in modo generico, senza una
sufficiente ed autonoma motivazione in ordine alla dedotta lesione
del parametro costituzionale invocato.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 35 della legge
della Regione Emilia-Romagna 22 dicembre 2009, n. 24 (Legge
finanziaria regionale adottata a norma dell’art. 40 della legge
regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l’approvazione
del bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna per
l’esercizio finanziario 2010 e del bilancio pluriennale 2010-2012);
Dichiara inammissibile la questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 48, comma 4, della legge regionale n. 24 del
2009, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della
Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 48, comma 1, della legge regionale n. 24 del 2009, promossa
dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento all’art.
117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con il ricorso
indicato in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 48, comma 2, della legge regionale n. 24 del 2009, promossa
dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento agli
articoli 3 e 117, commi secondo, lettera l), e quinto della
Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 48, comma 3, della legge regionale n. 24 del 2009, promossa
dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento all’art.
117, secondo comma, lettere i) e l) della Costituzione, con il
ricorso indicato in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2011.

Il Presidente: De Siervo

Il redattore: Saulle

Il cancelliere: Fruscella

Depositata in cancelleria il 12 gennaio 2011.

Il cancelliere: Fruscella

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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