Cass. pen., sez. VI 19-03-2008 (03-03-2008), n. 12307 Istanza intesa ad escludere una circostanza aggravante ovvero a configurare una responsabilità per un reato meno grave

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Con sentenza pronunciata il 5.4.2001, all’esito di giudizio abbreviato, il g.u.p., del Tribunale di Reggio Calabria condannava R.D. alla pena di anni trenta di reclusione per vari reati (cinque imputazioni) comprensivi di eventi omicidiari e di condotte associative, tra le quali ultime quelle di partecipazione ad associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p. (capo A: adesione ad una cosca della ‘ndrangheta di Siderno) e di partecipazione ad associazione criminosa dedita al narcotraffico (capo M1), aggravata dalla disponibilità di armi (art. 74, comma 4, D.P.R. cit.) e da un numero di associati non inferiore a dieci (art. 74, comma 3, D.P.R. cit.).
Investita dall’impugnazione del R., la Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria con sentenza resa il 28.1.2003 assolveva il R. da tre reati, confermandone la condanna per i fatti associativi (capi A e M1) e così riducendo l’inflitta pena a sedici anni ed otto mesi di reclusione.
Adita dalle impugnazioni del R. e di altri coimputati, questa Corte di Cassazione con sentenza del 15.4.2004 (Cass. Sez. 6, 15.4.2004 n. 35635) rigettava i ricorsi.
A seguito di ricorso straordinario proposto dal R. ai sensi dell’art. 625 bis c.p.p. avverso detta decisione di legittimità, questa stessa Corte di Cassazione con sentenza del 18.5.2005 (Cass. Sez. 2, 18.5.2005 n. 33375), rilevando un errore di fatto nella precedente sentenza, ne correggeva il dispositivo, annullando con rinvio la sentenza della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria del 28.1.2003 "limitatamente alla determinazione della pena". La prima decisione di questa Corte, infatti, non aveva rilevato che – benchè al R. fosse formalmente contestata la mera partecipazione all’associazione ex art. 74, D.P.R. cit. (capo M1) – il giudice di appello aveva determinato la sanzione muovendo dalla pena base edittale prevista per l’ipotesi di promozione dell’associazione. Era gravata da ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. anche tale sentenza correttiva, nella parte in cui aveva dichiarato inammissibile l’anteriore ricorso straordinario in ordine al motivo di doglianza dell’asserita inesatta percezione del numero degli associati determinante la contestazione dell’aggravante ex art. 74, comma 3, D.P.R. cit.. Con sentenza del 21.4.2006 questa Corte (Cass. Sez. 6, 21.4.2006 n. 16539) dichiarava inammissibile detto ulteriore ricorso.
Giudicando in sede di rinvio, la Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria con sentenza del 15.11.2005, divenuta irrevocabile il 16.1.2006, rideterminava la pena inflitta al R. in quella di undici anni e quattro mesi di reclusione, calcolata assumendo a base del computo la pena edittale minima di 12 anni di reclusione prevista per la partecipazione ad associazione armata (art. 74, comma 4, D.P.R. cit.), che aumentava di un terzo per l’aggravante del numero degli associati (art. 74, comma 3, D.P.R. cit.: + 4 anni = 16 anni), ulteriormente incrementata di un anno per la continuazione con il reato associativo ex art. 416 bis c.p. (capo A) e così definitivamente ridotta di un terzo per la diminuente del rito abbreviato. La Corte territoriale respingeva l’eccezione difensiva della supposta inesistenza della aggravante del numero non inferiore a dieci degli associati per effetto di sentenze che in separati giudizi avevano assolto alcuni coimputati nel medesimo reato, facendo in tal modo scendere al di sotto di dieci il numero dei correi nel reato di cui al D.P.R. cit., art. 74, comma 3, osservando che – alla stregua della decisione di annullamento con rinvio di questa S.C. – sulla statuizione inerente la ricorrenza dell’aggravante e sulla misura dell’aumento sanzionatorio (un terzo) si era ormai formato il giudicato.
2.- Con istanza presentata il 6.2.2006 innanzi alla Corte di Appello di Catanzaro, competente a norma dell’art. 633 c.p.p., comma 1, il difensore di R.D., procuratore speciale dell’imputato, chiedeva la revisione della sentenza 15.11.2005 della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria per un presunto "insanabile contrasto di giudicati", in ipotesi rilevante ex art. 630 c.p.p., lett. a), tra tale decisione, la già citata sentenza 5.4.2001 del g.u.p. del Tribunale di Reggio Calabria e la sentenza pronunciata il 3.4.2004 dalla Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria (giudizio di secondo grado susseguente a sentenza della Corte di Assise di Locri 18.6.2002), nelle parti – per entrambe tali ultime sentenze – relative alle posizioni dei coimputati nel reato di narcotraffico associato (capo M1 nella rubrica della sentenza del g.u.p., capo H nella rubrica della seconda sentenza). Premesso che il reato di associazione finalizzata a traffici di droga aggravata dal numero dei concorrenti era stata in origine ascritta a sedici imputati, l’istante difensore evidenziava che: la sentenza del g.u.p. aveva assolto quattro imputati dal reato in parola per non aver commesso il fatto ed aveva per un imputato operato la riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73, L.Stup.; la sentenza della Corte di Assise di Appello (nel procedimento separato) aveva assolto per non aver commesso il fatto altri due imputati dal reato di cui all’art. 74, L.Stup. Le intervenute assoluzioni, riducendo da sedici a nove il numero dei condannati per il reato di narcotraffico associato, determinavano – quindi – la caducazione della contestata aggravante ex art. 74, comma 3, L.Stup., in virtù della quale la pena base della pena inflitta al R., individuata in dodici anni di reclusione, era stata incrementata (in misura di un terzo) di quattro anni di reclusione con la sentenza 15.11.2005 della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria.
A sostegno dell’invocata revisione, la condanna del R. basandosi – quanto all’entità della irrogata sanzione – sulla ricorrenza di una circostanza aggravante da ritenersi "oggettivamente insussistente", il difensore istante si richiamava – in primo luogo – ad una non recente decisione a prima vista in termini di questa Corte regolatrice evocante l’istituto della revisione (Cass. Sez. 1^, 8.6.1994 n. 9370, Morabito, rv. 199915: "Ai fini della ravvisabilità dell’aggravante di dieci o più partecipanti all’associazione, prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 3, nel numero degli associati possono essere inclusi anche i soggetti non ancora giudicati ma coimputati in procedimenti separati, ben potendosi anticipatamente ed autonomamente deliberare per la decisione del giudizio in corso, la posizione di altri presenti associati, ovviamente senza influenza nei confronti di costoro e salvo il rimedio della revisione in caso di successiva contraddittorietà di giudicati"). In secondo luogo l’istante, anche in questo caso menzionando alcune decisioni di legittimità, osservava che la categoria della inconciliabilità presupposta dall’art. 630 c.p.p., lett. a) non è circoscritta ad una mera contraddittorietà logica tra valutazioni effettuate in separate sentenze su una medesima vicenda, ma si estende ad una oggettiva antinomia o discrasia storica tra i "fatti" presi in considerazione dalle sentenze in contrasto. La circostanza aggravante di cui all’art. 74, comma 3, L.Stup. – proseguiva l’istante – è ancorata (quanto ad esistenza o meno) ad un mero criterio numerico di oggettiva constatazione (verifica del numero degli accoliti del sodalizio criminoso), scevro da elementi di carattere valutativo.
In sede di incidentale delibazione dell’ammissibilità della richiesta di revisione la Corte di Appello di Catanzaro disponeva con ordinanza del 21.7.2006 procedersi al giudizio cd. rescissorio (rectius eventualmente rinnovatorio del revisionando giudizio) ai sensi dell’art. 636 c.p.p..
3.- All’esito del giudizio di revisione la Corte di Appello di Catanzaro con l’epigrafata sentenza del 15.3.2007 ha deliberato l’inammissibilità della richiesta di revisione invocata nell’interesse di R.D.. Deliberazione, osservano i giudicanti, dagli effetti dichiarativi del tutto compatibili con il disposto giudizio revisorio a seguito dall’anteriore ordinanza disponente il giudizio (cfr. Cass. S.U., 26.9.2001 n. 624, Pisano, rv. 220441).
La Corte territoriale ha giudicato insussistenti i presupposti strutturali tassativamente previsti dal combinato disposto degli artt. 630 e 631 c.p.p., la revisione essendo praticabile soltanto se suscettibile di dar luogo ad un proscioglimento del condannato. Ciò che deve escludersi nel caso del R.. Il testo dell’art. 631 c.p.p. non lascia spazio a dubbi, imponendo la formulazione – osserva la sentenza – di un giudizio prognostico sull’esistenza di elementi idonei a determinare la sostituzione di una decisione irrevocabile di condanna con una decisione liberatoria ancorchè con formula in senso lato dubitativa. Il R. invoca non il proscioglimento dall’accertato delitto di partecipazione ad associazione dedita al narcotraffico, accertamento attinto da giudicato, ma l’espunzione di una circostanza aggravante con pedissequa riduzione della pena inflitta. La Corte, rilevando – col supporto di consolidata giurisprudenza di legittimità – che la revisione non è esperibile se rivolta a conseguire il riconoscimento di un reato meno grave, argomenta come a fortiori la revisione – pena un’arbitraria dilatazione dell’istituto – non possa tendere ad una pronuncia di esclusione di una circostanza aggravante, che rappresenta una tipologia di effetti certamente inferiori rispetto a quelli prodotti da una "derubricazione" del reato. Quanto alla decisione di questa S.C. alla quale si richiama la richiesta di revisione (Sez. 1, Morabito, 1994), la Corte catanzarese ne esclude la pertinenza al thema decidendum afferente alla posizione del R., poichè quella decisione non affronta la tematica dei presupposti della revisione, ad essa limitandosi ad operare un mero incidentale e ipotetico riferimento.
4.- Avverso la sentenza della Corte di Catanzaro ha proposto ricorso per cassazione il difensore di R.D., delineando le due serie di rilievi censori di seguito sintetizzati per gli effetti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1. 1. Violazione della legge processuale (artt. 630 e 631 c.p.p.) e carenza di motivazione.
L’ordinanza emessa dalla Corte di Appello di Catanzaro (in diversa composizione) il 21.7.2006 ai fini del giudizio ex art. 636 c.p.p. aveva espresso un giudizio diametralmente opposto rispetto a quello adottato dall’impugnata sentenza, muovendo dall’assunto della potenziale esperibilità del rimedio revisorio anche nel caso di un contrasto tra giudicati non risolventesi in eventuale proscioglimento del condannato (tale è il caso del ricorrente R.), poichè il "limite della revisione" precisato dall’art. 631 c.p.p. dovrebbe intendersi correlato alla sola ipotesi della revisione determinata da nuove prove ai sensi dell’art. 630 c.p.p., lett. c). L’ordinanza ammissiva del giudizio revisorio trovava conforto a tale tesi nel richiamo alla revisione contenuto nella massima della ricordata sentenza Morabito/1994 di questa S.C. (massima riportata nella originaria richiesta di revisione). Ad avviso del ricorrente la sentenza 15.3.2007 della Corte territoriale capovolge illogicamente il già espresso giudizio di ammissibilità della revisione ai sensi dell’art. 634 c.p.p., ritenendo la detta decisione di legittimità inconferente ai fini del giudizio revisorio. Assunto che, tuttavia, in aperta contraddizione con "il senso letterale della massima e il suo contenuto", la Corte non motiverebbe, focalizzando i propri sforzi argomentativi sulla ipotesi di sopravvenienza o scoperta di nuove prove (art. 630 c.p.p., lett. c), del tutto diversa da quella in discussione per il caso del R. (art. 630 c.p.p., lett. a). I giudici di Catanzaro impropriamente avrebbero richiamato, quindi, decisioni di legittimità pertinenti alla erronea ipotesi di revisione individuata. Ipotesi connotata da "ontologica diversità" rispetto a quella attinente al caso in esame contemplato dall’art. 630 c.p.p., lett. a). Diversità che andrebbe ermeneuticamente desunta dal rilievo per cui l’art. 630 c.p.p., lett. c) richiamerebbe espressamente l’art. 631 c.p.p., "con ciò introducendo un elemento di ontologica differenza rispetto agli altri casi di revisione contemplati dallo stesso art. 630 c.p.p. e in particolare al caso di revisione richiesta per inconciliabilità di giudicati". L’oggetto della devoluzione nel caso previsto dall’art. 630 c.p.p., lett. a afferma il ricorrente, può essere costituito da una situazione di tangibile incompatibilità tra elementi di fatto su cui si fondano due o più sentenze penali irrevocabili, elementi che nel caso di specie sono integrati dalla circostanza aggravante di cui all’art. 74 c.p.p., comma 3. Circostanza in virtù della quale il R. ha riportato un ragguardevole incremento della pena comminata, sebbene l’aggravante dovesse ritenersi in concreto inesistente, alla luce delle altre due sentenze che per il medesimo fatto-reato avevano mandato assolti più imputati, così definendo in numero inferiore a dieci il numero complessivo dei concorrenti nel reato associativo. La censura in esame si conclude con l’inferenza secondo cui il carattere di norma di chiusura del sistema riconoscibile all’intera disciplina sulla revisione consente di "estendere in via analogica l’applicabilità dell’istituto a quelle ipotesi che, sia pure dallo stesso non contemplate, assecondino le finalità cui l’istituto è deputato" (necessità di sacrificare il rigore delle forme alle esigenze insopprimibili della verità e della giustizia reale).
2. Subordinata illegittimità costituzionale dell’art. 631 c.p.p. nella parte in cui non consentirebbe l’ammissibilità della richiesta di revisione in caso di inconciliabilità tra sentenze definitive derivante da una circostanza aggravante di natura oggettiva che comporti un rilevante aumento della pena.
Se ciò che si richiede ai fini della revisione di cui all’art. 630 c.p.p., lett. a) è l’esistenza di un contrasto tra i fatti stabiliti a fondamento di due sentenze definitive, i limiti contemplati dall’art. 631 c.p.p., correlati alle cause di proscioglimento dell’imputato, dovrebbero consentire una lettura dinamica della norma che in essa comprenda anche l’ipotesi di una sensibile variazione sanzionatoria per effetto di una circostanza aggravante, cioè di un dato di fatto (stante la natura oggettiva della circostanza di cui si discute) contraddetto da risultanze processuali rappresentate da sentenze di condanna diverse riguardanti lo stesso reato. Ove non si acceda a tale interpretazione del disposto dell’art. 631 c.p.p., deve dedursi l’incostituzionalità della norma per la palese disparità di trattamento cui essa può dar luogo, disparità di trattamento irragionevole "tra coloro che, condannati, possono beneficiare dell’istituto solo in relazione a fatti conducenti a un completo proscioglimento e coloro che, al contrario, venuta meno sul piano oggettivo la sussistenza dei fatti in riferimento ai quali vi è stata condanna per una aggravante, non possono ottenere siffatto beneficio, malgrado in entrambi in casi vengano meno i presupposti di una pena legittima". Oltre al principio di uguaglianza sostanziale risultano vulnerati i principi costituzionali della difesa e della funzione rieducativa della pena, determinati dalla ritenuta esistenza di una circostanza aggravante che invece deve considerarsi oggettivamente inesistente.
5.- Gli illustrati motivi di impugnazione sono privi di giuridico pregio e il ricorso deve essere rigettato.
La decisione della Corte di Appello di Catanzaro che ha ritenuto inammissibile la revisione invocata nell’interesse di R. D. è ineccepibile sul piano della correttezza giuridica (anche alla luce dei consolidati principi statuiti da questa Corte regolatrice sul tema) e della linearità di analisi, del tutto immune dalle carenze e contraddittorietà logiche ipotizzate dal ricorrente.
A. Il caso della esclusione, per altro soltanto potenziale per quel che si preciserà, dell’aggravante del numero di dieci concorrenti nel reato di cui all’art. 74, L.Stup. che dovrebbe dar luogo alla revisione della sentenza 15.11.2005 della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria pronunciata nei confronti di R.D. (n. 1965) è pacificamente estraneo alla proiezione processuale dell’art. 630 c.p.p., lett. a).
1. Innanzitutto nessun profilo di illogicità della decisione oggi impugnata può essere ravvisato in relazione all’anteriore ordinanza della medesima Corte di Appello di Catanzaro che aveva valutato ammissibile l’istanza di revisione anche sulla scorta di una implausibile lettura di una decisione di questa S.C. in materia di aggravante del numero dei soggetti agenti partecipi dell’associazione criminosa punita dall’art. 74 L.Stup. Per la semplice ragione che tale ordinanza, al pari della richiesta di revisione nella parte in cui si basa sui medesimi argomenti inizialmente recepiti dalla Corte calabrese, deve considerarsi palesemente erronea. La sentenza di legittimità Morabito del 1994 non investe ex professo la problematica della revisione, ponendola in relazione alla menzionata circostanza aggravante e agli effetti derivanti da sentenze separatamente emesse nei confronti di coimputati dello stesso reato associativo (facendo, se mai, riferimento ad una fase anteriore al sopravvenire di una o più decisioni definitive: "nel numero degli associati possono essere inclusi anche i soggetti non ancora giudicati ma coimputati in procedimenti separati"). Puntualmente la sentenza impugnata annota il carattere meramente incidentale dell’accenno alla revisione contenuto nella massimata sentenza. Del resto che si tratti di un richiamo ricadente nel novero degli obiter dieta è un dato emergente dalla stessa massima, laddove rende chiaro l’ambito della decisione in area tematica del tutto estranea a quella della revisione.
2. In secondo luogo non può non rilevarsi che da nessun passaggio della sentenza impugnata è dato evincere che la Corte territoriale abbia equivocato la tipologia di revisione invocata dal ricorrente, confondendola con quella relativa all’acquisizione di nuove prove (art. 630 c.p.p., lett. c). Diversamente da quel che sostiene il ricorrente, sulla base di una lettura dir poco fuorviante della decisione gravata da ricorso, la sentenza in esame mostra di avere perfetta contezza del profilo di revisione postulato dal R. e su questo formula le proprie considerazioni decisorie nel senso della totale inammissibilità dell’invocato rimedio correttivo (revisorio).
Esito valutativo che è imperniato su una corretta lettura dell’art. 631 c.p.p., la cui disciplina – a tacer d’altro – non avrebbe ragion d’essere se interpretata in senso riduttivo siccome riferibile alla sola ipotesi di revisione per "nuove prove". Se la revisione, quale rimedio impugnatorio straordinario, è ammessa – per definizione (art. 629 c.p.p.) – nei riguardi di una decisione di condanna, le "nuove prove" cui fa riferimento dell’art. 630 c.p.p., lett. c) non ad altro possono condurre che al sovvertimento di quella decisione, cioè ad una decisione liberatoria o di proscioglimento. Di tal che il disposto dell’art. 631 c.p.p. – ove se ne confini la previsione nella sola casistica di cui all’art. 630 c.p.p., lett. c), – sarebbe pleonastico o ultroneo. Nè può sostenersi in senso contrario, come si assume nel ricorso, che l’art. 630 c.p.p., lett. c) richiamerebbe espressamente l’art. 631 c.p.p., introducendo in tal modo una differenziazione tra i casi di revisione previsti dall’art. 630 c.p.p.. La tesi è frutto di anfibologia esegetica, la combinata lettura dell’art. 630 c.p.p., lett. c) e dell’art. 631 c.p. conducendo a ben diverso risultato. E’ sufficiente osservare che la nozione di "prove" (nuove e quale che sia l’ambito referenziale di tale aggettivazione) è semiologicamente e giuridicamente diversa dalla più estesa nozione di "elementi" (art. 631 c.p.p.). Sul piano concettuale gli elementi, se intesi nella loro connotazione di rappresentatività di una evenienza storica o giuridica (intesi cioè nel senso di elementi probatori), racchiudono in sè anche le prove, ma si estendono a ricomprendere anche fatti diversi dalle prove in senso tecnico, vale a dire strumenti dimostrativi di una possibile inconciliabilità di giudicati ovvero delle altre situazioni processuali individuate dall’art. 630 c.p., lettere b) e d). La differenza lessicale, evocativa di entità concettuali sovrapponigli ma non uguagliagli, introdotta dal legislatore tra l’art. 630 c.p.p., lett. c), e l’art. 631 c.p.p. (basti aggiungere, ancora a mente dell’art. 631 c.p.p., che gli "elementi" probatori si "accertano", laddove le "prove" di per sè – disgiunte dalla generalizzante categoria degli elementi – non si accertano ma si assumono attraverso i cd. mezzi di prova), concorre a radicare, in termini di piena logicità, l’applicabilità del limite della postuma prognosi liberatoria del condannato a tutte le ipotesi di revisione elencate dall’art. 630 c.p.p..
3. In terzo luogo l’inammissibilità (improponibilità) della revisione della sentenza di condanna subita dal ricorrente, ritenuta dalla Corte territoriale in ragione del generale limite previsto dall’art. 631 c.p.p. (revisione funzionale ad un proscioglimento), costituisce un giudizio in tutto conforme alla giurisprudenza di questa Corte regolatrice, escludente la possibilità che attraverso la revisione si renda possibile un trattamento sanzionatorio meno afflittivo (come nel caso dell’odierno ricorrente) ovvero una condanna per un reato meno grave (cfr.: Cass. Sez. 1, 23.5.2007 n. 23927, Pietroiusti, rv. 236844; Cass. Sez. 1, 28.2.2000 n. 4464, Ilacqua, rv. 215810: "Non può trovare accoglimento la richiesta di revisione che sia fondata sulla prospettazione di elementi tali da dar luogo, se accertati, non al proscioglimento, ma a una dichiarazione di responsabilità per un diverso e meno grave reato").
Se la causa ultima della rivalutazione del giudicato penale attraverso lo strumento della revisione, in deroga al principio cardine dell’intangibilità del giudicato, affonda le proprie radici nella necessità di sciogliere un contrasto tra una verità formale (attestata dal giudicato) ed una verità fenomenica venuta in luce a seguito di situazioni o emergenze nuove non considerate dalla sentenza irrevocabile di condanna, è evidente che la ratio dell’istituto nasce dall’altrettanto irrinunciabile favor innocentiae che permette di sacrificare il giudicato ad immanenti esigenze di giustizia sostanziale (così Cass. S.U., 26.9.2001 n. 624, Pisano). E tale principio del favor innocentiae, di stretta applicazione e la cui disciplina operativa non tollera estensioni analogiche (come riconosce lo stesso ricorrente nelle conclusioni del primo motivo di ricorso), proprio per i suoi dirompenti effetti di dissolvimento del giudicato del caso singolo non può che assumere scansioni funzionali incentrate su esiti di assoluzione totale e piena del già condannato, alle quali sono estranei il possibile disconoscimento di una circostanza aggravante o la riqualificazione giuridica del reato ascritto, che non muterebbero il già raggiunto e non modificabile esito di affermata colpevolezza del condannato. In questa prospettiva, allora, deve convenirsi che – se il concetto di inconciliabilità tra due o più sentenze irrevocabili di cui all’art. 630 c.p.p., lett. a) va correlato non alla contraddittorietà logica tra le valutazioni sviluppate nelle due decisioni, ma ad un oggettivo contrasto o conflitto tra i "fatti" esaminati dalle due sentenze – l’accertamento del numero dei concorrenti in un determinato reato, sebbene finalizzato alla sola verifica dell’esistenza o meno di una circostanza aggravante, costituisce pur sempre il risultato di un giudizio valutativo che rimane in sè avulso dall’area applicativa della revisione prevista dall’art. 630 c.p.p., lett. a) (arg. ex Cass. Sez. 4, 25.10.2001 n. 8135, Pisano, rv. 221098).
B. Ma, messa da canto la conclamata inapplicabilità sistemica dell’istituto revisorio alla situazione processuale riguardante il ricorrente, l’approfondimento degli aspetti storico-sequenziali delle prospettazioni del ricorrente rende palese come nel caso di specie il lamentato contrasto di giudicati sia soltanto apparente o virtuale.
Posto che le decisioni in ipotetico contrasto ricadono senza incertezze tra gli atti valutabili in questa sede di legittimità, vuoi perchè costituiscono l’antefatto del conflitto di giudicati di cui si sollecita la soluzione, vuoi perchè la loro conoscibilità si coniuga alla sostanziale natura di error in procedendo del vizio di legittimità configurato dal ricorrente, possono formularsi alcune rapide osservazioni.
1. Che il numero complessivo degli originari concorrenti nel reato associativo di cui all’art. 74 L.Stup. vada individuato in sedici imputati è affermazione meno categorica di quel che sostiene il ricorrente e comunque meritevole di verifica.
E’ senz’altro vero che soltanto sedici sono gli imputati – compreso l’odierno ricorrente – sottoposti a giudizio per il predetto reato nell’ambito dei processi di cui si discute (capo MI della originaria rubrica, capo H della rubrica del processo stralciato). Senonchè già la mera lettura della contestazione formale (imputazione) suscita serie inferenze sul verosimile maggiore e non definibile preciso numero degli effettivi concorrenti o associati per finalità di narcotraffico, atteso che la stesura dell’imputazione evoca – con l’ausilio discorsivo della congiunzione "e" – la partecipazione criminosa anche di soggetti (altri) dediti all’uso di droga ("…per avere, in numero superiore a dieci e con la partecipazione di soggetti dediti all’uso di sostanze stupefacenti, fatto parte…").
Il dato supera la soglia della semplice ipotesi quando si constati che esplicitamente la sentenza 5.4.2001 del g.u.p. del Tribunale reggino, inclusa nel contrasto di giudicati denunciato dal ricorrente, menziona il contributo partecipativo recato all’associazione criminoso da più altri soggetti rimasti ignoti, sì da rendere il numero complessivo degli effettivi concorrenti nel reato ben superiore a quello degli originari sedici imputati (p. 91 sentenza; "Nessuna contraddizione vi è nel considerare che l’associazione posta in essere dai R., da alcuni loro congiunti e da altri soggetti non identificati sia inserita nell’alveo della più ampia aggregazione dei C…."), Non meno esplicito è il riferimento ad altri concorrenti non potuti identificare nel reato associativo di narcotraffico contenuto nella sentenza 3.3.2004 della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria, anch’essa inclusa nella delineata inconciliabilità di giudicati, laddove si prende atto della non compiuta identificazione di tutti i personaggi che intervengono nelle innumerevoli conversazioni intercettate (p. 61 sentenza: "…rilievo che oltre ai tre soggetti identificabili…le conversazioni coinvolgono altri personaggi che, sebbene non noti, mostrano di condividere tanto le problematiche commentate quanto i propositi di azione denunciati dai loquenti…").
2. Anche sottacendo le precedenti notazioni il contrasto di giudicati prefigurato dal ricorrente va considerato inesistente o inapprezzabile. Tutti gli imputati riconosciuti colpevoli dell’associazione dedita al narcotraffico (il ricorrente R. e gli altri imputati giudicati con la medesima sentenza 5.4.2001 del g.u.p. reggino, gli imputati giudicati con la sentenza 3.3.2004 della Corte di Assise di appello di Reggio Calabria) hanno riportato condanne per il reato aggravato ex art. 74, commi 3 e 4, L.Stup., cioè parametrate sul piano sanzionatorio alla fattispecie aggravata anche dal numero non inferiore a dieci dei concorrenti nel reato, sebbene non risultino in chiaro – in ambedue le sentenze – i singoli incrementi sanzionatori computati per detto reato aggravato (molti dei condannati sono stati riconosciuti colpevoli anche di altri reati rispetto ai quali è stato operato un aumento di pena per la ritenuta continuazione con il reato ex art. 74, L.Stup.). In particolare la sentenza 5.4.2001 del g.u.p. e la separata sentenza di appello del 3.3.2004 non hanno in concreto escluso per gli imputati condannati ex art. 74, L.Stup. la circostanza aggravante del numero delle persone, che è stata – dunque – per implicito riconosciuta sussistente. Il solo effettivo elemento differenziatore tra tali sentenze e la sentenza oggetto della richiesta revisione, la sentenza 15.11.2005 della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria, è offerto dal fatto che soltanto questa sentenza puntualizza i passaggi del trattamento sanzionatorio, indicando l’aumento di sanzione ex art. 74, comma 3, L.Stup. apportato sulla definita pena base per il reato di partecipazione ad associazione armata dedita al narcotraffico.
Da tutto ciò consegue l’effetto paradossale dell’eventuale accoglimento dell’istanza revisoria del ricorrente, che – rimuovendo la presunta ingiustizia della asserita eccedente misurazione della pena inflitta al R. – produrrebbe in linea di principio una ancor più vistosa ingiustizia nei confronti degli altri otto coimputati definitivamente condannati per il medesimo reato ascritto al R. siccome aggravato dal numero dei concorrenti, così dando origine ad una situazione di potenziale revisionabilità delle decisioni relative a detti altri otto coimputati. Ciò che appare, a tacer d’altro, in palmare antinomia con le esigenze di giustizia sostanziale ripetutamente evocate dal ricorrente e con le finalità proprie dell’istituto di eccezionale (straordinaria) applicazione previsto dagli artt. 629 ss. c.p.p. in difetto – per quel che si è visto – di qualsivoglia disparità di trattamento (sanzionatorio) tra la posizione del R. e quella degli altri coimputati condannati per il reato di cui all’art. 74 L.Stup..
3. Tutte le deduzioni fin qui articolate rendono palese l’inammissibilità della questione, sollevata in via subordinata dal ricorrente, dell’eventuale incostituzionalità dell’art. 631 c.p.p. nella parte in cui limita l’esperibilità della procedura revisoria a scenari di pieno proscioglimento del condannato, con l’esclusione di situazioni implicanti un più mite trattamento sanzionatorio per effetto della riqualificazione del reato ascritto ovvero della inesistenza di una circostanza aggravante. La questione di costituzionalità sollevata dal ricorrente dovrebbe condurre in ipotesi la Corte Costituzionale alla pronuncia di una sentenza cd. additiva. Cioè di una peculiare sentenza di accoglimento, con cui la Corte dichiari l’incostituzionalità della omessa previsione di una disciplina che avrebbe potuto (e non dovuto, come con le sentenze costituzionali cd. sostitutive) essere prevista dalla legge, ma che questa non contempla neppure in forma implicita. Nel caso di specie, a fronte dell’eccezionalità dell’istituto della revisione, espressione della discrezionalità del legislatore, la negata estensione della revisione ad ipotesi diverse da quelle che comportino il proscioglimento del condannato non potrebbe – nel rigoroso rispetto del principio di stretta legalità regolante la materia in esame – essere superata in via (di interpretazione) additiva. Con l’ovvio effetto di rendere ipso iure inammissibile l’indicata questione di costituzionalità, in carenza di elementi che accreditino come costituzionalmente necessitata l’applicazione estensiva della revisione ex art. 630 c.p.p., lett. a) invocata dal ricorrente.
Al rigetto dell’impugnazione segue ope legis la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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