Cass. pen., sez. I 28-02-2008 (13-02-2008), n. 8990 Giudizio di cassazione – Procedura camerale non partecipata – Contrasto con CEDU

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
1^. Il tribunale di Reggio Calabria, con decreto del 12 novembre 2004, sottoponeva A.C. alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di anni cinque, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza e con obbligo di versare una cauzione pari a 5.000,00 Euro, disponendo il sequestro e la confisca di una serie di beni (fabbricati e terreni).
Con lo stesso provvedimento il tribunale disponeva il sequestro e la confisca della ditta individuale " A.A." e del relativo patrimonio aziendale, di un conto corrente (il n. (OMISSIS) acceso presso l’agenzia di Melito PS della Unicredit Banca) e di tre veicoli intestati al figlio A.A..
La corte di appello di Reggio Calabria, con decreto del 24 novembre 2006, in parziale riforma del provvedimento del tribunale, ha annullato la confisca della ditta individuale " A.A." e del relativo patrimonio aziendale, nonchè la confisca dell’autocarro Nissan targ. (OMISSIS), confermando nel resto le statuizioni del giudice di primo grado.
2^. Avverso il decreto della corte territoriale hanno proposto ricorso per cassazione i due A., padre e figlio.
A.C. ha presentato due atti di ricorso:
uno personalmente e altro a firma dell’avv. Alfredo Gaito.
Nella sua impugnazione personale, A. lamenta innanzitutto una assoluta carenza motivazionale in ordine al giudizio di pericolosità sociale qualificata espresso nei suoi confronti:
il giudice di appello si era limitato a recepire acriticamente le argomentazioni della pronuncia di primo grado operando un mero rinvio recettizio per relationem, effettuando solo qualche precisazione qua e là, senza tener conto della vasta produzione documentale depositata a seguito della proposizione dei motivi di impugnazione (ivi comprese memorie, consulenze di parte (primo motivo).
Il ricorrente lamenta poi che sia stata confermata la competenza del giudice reggino attraverso la pedissequa applicazione dei criteri interpretativi sanciti dalla giurisprudenza di legittimità, senza tener conto delle ragioni di doglianza che riguardavano specificamente le condotte poste in essere all’ A. e che si erano realizzate solo ed esclusivamente nel comprensorio ligure, e non in quello calabro.
La corte di appello aveva sovrapposto il criterio della ricostruzione della pericolosità sociale di carattere soggettivo del proposto, che inevitabilmente portava in Liguria, con quello di una non meglio precisata pericolosità sociale di un’organizzazione in alcun modo soggettivizzata, identificata con una consorteria mafiosa (c.d.
"operazione Scilla"), valorizzando la condizione di lunga latitanza del ricorrente (secondo motivo).
Per quanto concerne il riconoscimento della qualificata pericolosità sociale, la difesa ravvisa una violazione del principio del ne bis in idem, essendo stato l’A. già sottoposto nel 1995 a una misura di prevenzione personale (Decreto n. 135 del 1995), in quanto ritenuto intraneo a una consorteria mafiosa dedita al commercio di sostanze stupefacenti, senza che venissero adottate nei suoi confronti misure di prevenzione di carattere patrimoniale.
Nei confronti dell’ A. erano stati rivalutati una seconda volta – secondo la difesa – elementi già apprezzati nel precedente procedimento di prevenzione, ripercorrendo vicende giudiziali e fattuali che lo riguardavano a far data dal 1970, superando l’intangibilità del giudicato rivitalizzando dati riferibili ad ambiti temporali risalenti nel tempo e non sovrapponibili.
La protrazione della pericolosità sociale qualificata dell’ A. veniva ricavata dal suo coinvolgimento nell’"operazione Scilla" le cui condotte si erano realizzate nel 1999, senza tener conto che nella sentenza di condanna conseguente a quest’ultimo procedimento penale subito dal ricorrente si spiegava che l’attività di traffico di sostanze stupefacenti era stata da lui svolta in modo del tutto autonomo ed isolato, senza contatti di sorta con qualsivoglia consorteria mafiosa, ad onta del rilievo attribuito alla sua latitanza (resa possibile, si legge nel provvedimento impugnato, dall’appoggio di ambiti delinquenziali mafiosi) (terzo motivo).
Violazione della L. n. 575 del 1965, artt. 2 bis e 2 ter e carenza motivazionale sono poi le censure proposte dall’ A. per contestare la disposta confisca di beni, dovendosi segnalare – secondo la difesa – l’assoluta mancanza di corrispondenza temporale tra il momento storico di insorgenza della pericolosità sociale qualificata e il momento di realizzazione dei beni confiscati: i quali vennero acquistati agli inizi degli anni 1990 e prima del 1995.
Il decreto impugnato aveva colto l’occasione del procedimento relativo alla c.d. "operazione Scilla" per rimettere in discussione fatti e vicende riferibili ad oltre un trentennio addietro, utilizzando un metodo valutativo che si prestava a censure, perchè quelle condotte rivelatrici di pericolosità sociale erano già state oggetto di valutazione nel 1995 da parte di altro giudice, nessuna concreta valenza potendo attribuirsi all’inesistenza in questa materia del giudicato implicito richiamato dalla corte territoriale.
Si denunziava in proposito la mancata valorizzazione dell’apporto dimostrativo offerto dalla consulenza integrativa di parte ritualmente depositata nel corso del giudizio di appello, liquidata come insufficiente e insoddisfacente per dimostrare le capacità reddituali del ricorrente, che pure aveva segnalato di aver posseduto continuativamente a partire dal 1970 due ditte sempre operanti, una di lavori edili e l’altra di autotrasporti (esibendo le autocertificazioni degli operai, liquidate dalla corte come non sufficientemente esaustive;
dimostrando la sussistenza di una plusvalenza aziendale accertata dall’ufficio delle imposte, ritenuta sempre dalla corte non utilizzabile;
dimostrando di aver percepito un indennizzo per un incendio della propria abitazione, argomento ritenuto anch’esso non utilizzabile dai giudici).
La carenza motivazionale veniva addotta anche in ordine ai mutui accesi dall’ A. per l’acquisto di un’abitazione a (OMISSIS), come pure in ordine alla realizzazione dell’abitazione sita in (OMISSIS), di cui era responsabile la madre M. S., e all’attività svolta quale socio dell’Expo frutta (quarto motivo).
L’avv. Gaito, nell’atto di ricorso a sua firma, ripropone i temi della competenza e della procedibilità, insistendo sulla acclarata permanente dimora ligure del suo assistito e sulla conseguente incompetenza funzionale del tribunale di Reggio Calabria.
A.A., figlio di A.C., si duole della confisca di un terreno di sua proprietà, acquistato nel 2001 con le risorse percepite fino a quattro anni prima, ripercorrendo l’iter dei suoi guadagni.
Secondo l’A., la corte territoriale aveva omesso di considerare le passività e non aveva tenuto conto degli accrescimenti patrimoniali e dei redditi da lui percepiti in epoca successiva all’acquisto del terreno, quando risultava aver percepito un reddito molto elevato stante la titolarità di un’importante azienda che operava nel settore delle forniture edili, ottenendo tra l’altro lunghe dilazioni nel pagamento delle merci.
3^. In prossimità della vigilia dell’udienza camerale, l’avv. Alfredo Gaito, difensore di A.C., ha depositato delle note di replica alla requisitoria scritta del procuratore generale presso questa Corte, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Nella memoria si ripetono le argomentazioni già svolte sulla incompetenza funzionale del tribunale reggino e sulla violazione della regula iuris enunciata nell’art. 649 c.p.p., richiamando in proposito l’autonomia degli ambiti di operatività del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale per ribadire che i fattori di novità segnalati dalla corte territoriale non costituivano affatto indici rivelatori di un’ulteriore tendenza a delinquere e quindi di un protrarsi della pericolosità sociale qualificata del ricorrente.
Seguivano alcune considerazioni sulla ritenuta illegittimità della disposta confisca di beni.
Con una successiva memoria la difesa di A.C. ha poi richiesto il rinvio della trattazione del procedimento ad altra data per la sua celebrazione in udienza pubblica, evidenziando che una decisione della Corte europea (13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia) ha stabilito con fermezza la necessità della pubblicità di tutti i procedimenti giudiziari in attuazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per cui la tecnicità dei procedimenti di prevenzione non può giustificare una deroga a tale vincolante principio, in considerazione della crescente valorizzazione del diritto alla partecipazione attiva delle parti al processo.
4^. Preliminare è il rigetto della richiesta di trattazione del procedimento in udienza pubblica, giacchè, come riconosce lo stesso difensore del ricorrente, in mancanza di disposizioni specifiche contenute nella disciplina legislativa della materia delle misure di prevenzione, la procedura deliberativa per il ricorso per cassazione è quella scandita dal modulo camerale non partecipato (arg. ex art. 611 c.p.p.).
Tale modulo, peraltro, resta valido anche di fronte al prospettato contrasto delle norme interne con i vincoli derivanti da obblighi comunitari o dalle disposizioni della CEDU, perchè, se è vero che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, è altrettanto vero, come ha statuito di recente la Corte costituzionale (sent. 22 ottobre 2007, n. 349), che tali principi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile (atti comunitari, atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, deroghe nazionali a norme comunitarie giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali).
La Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza del 4 ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; Id., 29 maggio n. 1998, C-299/95, Kremzow): ipotesi che si verifica precisamente in materia di misure di prevenzione.
Si aggiunga che nel procedimento di prevenzione la garanzia del contraddittorio tra le parti è assicurata nel giudizio di merito e non appare il caso di riproporla in sede di legittimità.
Sempre in via preliminare, va precisato che, nel procedimento di prevenzione, il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge, secondo il disposto della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, comma 1 richiamato dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 3 ter, comma 2 per cui, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi della carenza e illogicità manifesta o contraddittorietà della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. e), potendosi denunciare con il ricorso esclusivamente il caso di motivazione inesistente o meramente apparente, qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice di appello dal predetto art. 4, comma 9 della legge (Cass., Sez. 1^, 1 dicembre 2004, Luceri; Id., Sez. 6^, 26 giugno 2002, Paggiarin, in Cass. pen. mass. ann., 2003, n. 713, p. 2441; Id., Sez. 5^, 28 marzo 2002, Ferrara, ivi, 2003, n. 207, p. 605).
Ciò posto, non possono essere prese in considerazione le censure proposte da A.C. nel primo e nel quarto motivo che attengono per un verso alla ritenuta pericolosità sociale qualificata del ricorrente e per altro verso alla confisca dei beni di sua appartenenza.
Viene denunciata, anche attraverso la deduzione surrettizia e di striscio della violazione della L. n. 1423 del 1956, art. 4, e L. n. 575 del 1965, artt. 2 bis e 2 ter una presunta carenza motivazionale del provvedimento impugnato, per aver recepito per relationem tutte le argomentazioni contenute nel decreto del giudice di prime cure per quanto attiene il presupposto della pericolosità sociale qualificata del ricorrente, e per non aver tenuto nel debito conto una consulenza di parte (sia quella depositata in primo grado che quella ulteriore integrativa depositata nelle more della celebrazione del giudizio di appello) in ordine alle asserite capacità reddituali del ricorrente.
La valutazione delle circostanze addotte costituisce questione di mero fatto, tenuto conto dell’esame dettagliato e specifico effettuato dalla corte di merito dei vari beni confiscati e della loro ritenuta sproporzione rispetto ai redditi dichiarati, avuto riguardo alle notevoli fonti di reddito accumulate da A. C. nella sua lunga e pervicace attività delinquenziale nel settore degli stupefacenti, praticamente mai interrotta.
La dettagliata motivazione dei giudici di merito è tutt’altro che illogica, essendo stato da essi posto in risalto sia che gli acquisti vennero effettuati tutti tra il 1985 e 1992 sia l’insufficienza e non esaustività dei rilievi difensivi alla luce della pericolosità sociale risalente al 1976 e perdurante del ricorrente.
Allo stesso modo nessuna manifesta illogicità si ravvisa nell’iter argomentativo del decreto per quanto concerne i terreni confiscati a A.A., avendo i giudici dimostrato che il reddito netto da lui percepito fino al momento dell’esborso di 80.000.000 lire nel settembre 2001 non assurgeva a una consistenza tale da consentire l’accantonamento di una tale somma di denaro, riferibile con ogni probabilità all’attività illecita del padre A.C. (p. 34).
Quanto alle eccezioni procedurali, sono entrambe infondate.
E’ assolutamente priva di pregio la doglianza relativa al difetto di competenza del giudice reggino, avendo la corte territoriale spiegato in dettaglio, in piena aderenza all’orientamento espresso da questo Supremo Collegio (cfr. Cass., Sez. 5^, 2005, n. 957, Bernascone; e, da ultimo, Cass., Sez. 1^, 5 giugno 2007, Mastromauro) le ragioni per le quali, ai fini dell’applicabilità delle misure di prevenzione personale, bisogna aver riguardo alla "dimora" del proposto, concetto al quale si richiama la L. n. 1423 del 1956, art. 4, comma 1 e che deve intendersi non in senso civilistico, quasi fosse equiparabile alla "residenza", ma, in considerazione dei presupposti e dei fini della normativa in materia di prevenzione, come il luogo in cui la pericolosità sociale si è manifestata.
Ne consegue che la competenza che alla dimora si collega, si radica là dove il soggetto, quand’anche saltuariamente, tenga comportamenti idonei a costituire elementi sintomatici della sua pericolosità, ivi trovando stimoli e copertura omertosa delle sue attività illecite.
Parimenti infondata è la seconda doglianza, volta a evidenziare una violazione del divieto di ne bis in idem.
E’ pacifico infatti che, ferma restando la portata generale dell’art. 649 c.p.p., la regola del ne bis in idem assume nel procedimento di prevenzione una valenza del tutto peculiare, operando "rebus sic stantibus", senza impedire la rivalutazione della pericolosità sociale ove sopravvengano nuovi elementi indiziari in precedenza non noti o non esaminati.
Ed è proprio questo il criterio cui si è attenuta la corte territoriale, quando fa riferimento al procedimento c.d. Scilla, in cui il ricorrente è stato accusato di aver partecipato a un traffico di stupefacenti gestito dalla cosca Iamonte, analogamente a quanto verificatosi nel procedimento penale definito nel 1995.
La corte ha osservato correttamente che "l’eguale fattispecie criminosa ascritta non comporta identità dei fatti storici" (p. 35) e ha del pari evidenziato la forte valenza indiziaria della lunga latitanza dell’ A., successiva al primo decreto e "sintomatica della prosecuzione della condotta associativa" già giudicata, a conferma e riprova che il proposto godeva dei forti appoggi della cosca di appartenenza e della sua pervicace dedizione criminale al narcotraffico.
Va da sè, e il decreto impugnato non manca di sottolinearlo, che l’assenza di acquisizione di beni pervenuti dopo il 1995, non dimostra certo la legittimità della loro provenienza, avuto riguardo alla personalità del proposto, ritenuto socialmente pericoloso da ben tre decenni. Senza contare che i beni confiscati risultano tutti acquisiti dal ricorrente e dalla moglie tra il 1985 e il 1992, a fronte della produzione di una documentazione incompleta e non significativa.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto da A.A. e al rigetto del ricorso proposto da A. C. seguono le conseguenze di legge, meglio precisate nel dispositivo.
P.Q.M.
Visti gli artt. 606, 616 c.p.p.;
dichiara inammissibile il ricorso proposto da A.A.;
rigetta il ricorso proposto da A.C..
Condanna entrambi in solido al pagamento delle spese del procedimento e A.A. inoltre al versamento della somma di Euro 1000,00 a favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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