Cass. pen., sez. I 28-02-2008 (05-02-2008), n. 8952 Truffa commessa in danno dell’Amministrazione da carabinieri – Giurisdizione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
Con sentenza dell’I 1.12.2001, il tribunale militare di Napoli assolveva i sottufficiali dei Carabinieri L.C.G. e L.F. dalla imputazione di duplice truffa militare perchè il fatto non sussiste, ai sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p..
Su gravame del P.M. militare, seguito da quello incidentale degli imputati, la corte militare d’appello, sezione distaccata in Napoli – colla sentenza oggi esaminata – dichiarava estinto per prescrizione il reato di cui al capo b), confermando nel resto la pronuncia assolutoria.
Osservava, in via preliminare, detta corte che era infondata l’eccezione di difetto giurisdizionale del giudice militare, sollevata nell’interesse degli imputati sul rilievo che il danno da costoro eventualmente prodotto, non avrebbe interessato l’Amministrazione militare, in quanto dipendenti dal ministero dell’Interno e non da quello della Difesa; invero, per costante giurisprudenza, tale Amministrazione si identifica nel complesso delle strutture occorrenti per l’organizzazione del personale e dei mezzi materiali destinati alla difesa annata dello Stato, mentre i beni in dotazione alla stessa si identificano in quelli amministrati dal ministero della Difesa o dai Corpi militari, a norma delle leggi sulla contabilità generale dello Stato. Era indubbio, nella specie, che i fondi sui quali interferiva la condotta degli imputati, fossero amministrati dall’autorità militare e ciò, in una colla qualità di militare dei due sottufficiali dell’Arma, radicava la competenza del giudicante attuale.
Ciò premesso, rilevava la corte militare che il processo aveva tratto origine dalla segnalazione del maresciallo P., il quale, recatosi in missione a Piacenza, ed alloggiando presso l’Hotel (OMISSIS), si era sentito offrire insistentemente dal gestore, in relazione alla sua qualità, di ottenere, come da prassi in casi analoghi, una fatturazione di entità superiore al prezzo effettivamente da pagare. Si erano allora inviati, in qualità di agenti provocatori, due altri sottufficiali presso detto albergo, ed anche a loro era stato offerto il medesimo trattamento, riservato ai militari.
L’esame della sequestrata contabilità alberghiera, consentiva, secondo la sentenza esaminata, di ritenere l’effettività di tale prassi, in quanto in una apposita colonna dei registri era annotata la qualità di appartenenza dei clienti (i cui rapporti con amministrazioni militari erano poi stati accertati, anche nei casi della loro qualità di civili) a corpi militari; ed era altrettanto significativo che di detta qualità si fossero spontaneamente informati i gestori dell’albergo, per quanto i due sottufficiali avessero esibito semplici patenti di guida. Era impensabile – come invece era stato ritenuto in altro procedimento, svoltosi dinanzi al giudice ordinario – che tali annotazioni non fossero eseguite (e del resto, il loro esame diretto documentava l’uniformità grafica delle annotazioni, il che rendeva inutile l’esperimento di una perizia) dai gestori, ma dalla polizia giudiziaria che aveva svolto le indagini;
anche perchè tale colonna riportava indicazioni diverse, laddove i clienti non erano militari.
Elemento decisivo, per configurare il meccanismo truffaldino, era poi quello per il quale le fatture concernenti clienti civili, nell’arco di tempo considerato, recavano importi sensibilmente inferiori a quelle riguardanti i militari, per la stessa stanza; anche accettando l’idea che le tariffe fossero comunque diversificate, era però evidente che quelle adottate per i militari erano sempre prossime ai limiti superiori. Superflue ed irrilevanti erano le testimonianze chieste al riguardo dalla difesa. Era del tutto ipotetica la tesi – una volta accertata la prassi tenuta dai gestori dell’albergo – che i due imputati non avessero accettato il trattamento di favore; mancava qualsiasi dato di fatto a sostegno, anche perchè l’argomento secondo il quale l’importo fatturato nei loro confronti conteneva l’inglobamento di un pasto consumato, era privo di prova: la relativa dichiarazione (ad integrazione del contenuto del foglio di viaggio) non era stata rinvenuta in allegato al medesimo, nè era annotata in calce, mentre, se fosse esistita, ne avrebbe tenuto conto il competente ufficio, all’atto della liquidazione. Senza poi tacere che la direzione dell’albergo compilava separatamente le fatture dei pernottamenti e quelle dei pranzi.
Era irrilevante la tesi che, sovraffatturando in tali termini, la direzione dell’albergo non ritraesse una effettiva utilità economica, dimostrando il contrario (anche sotto il profilo della regolarità fiscale) la tenuta di tale genere di contabilità.
In conclusione, la corte militare, previa la concessione delle attenuanti previste dall’art. 62 bis c.p., e art. 62 c.p., n. 4, dichiarava estinto per prescrizione l’episodio truffaldino di cui al capo b), mentre – mancando per il periodo di riferimento qualunque riscontro documentale – confermava l’assoluzione per quello sub a);
era conseguente il rigetto dell’appello incidentale, oltre tutto proposto al solo fine di ottenere una modifica della formula assolutoria, per la quale i prevenuti non avevano un interesse tutelabile.
Avverso tale pronuncia ricorrevano per cassazione, a mezzo del loro difensore, il L.C. e il L., che, in via preliminare, reiteravano l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice militare, rilevando che costoro avevano agito in occasione di operazioni di polizia giudiziaria, estranee agli interessi dell’amministrazione militare, e riconducibili invece a quelli del ministero della Difesa; ragion per cui i beni economici assegnati ad altri dicasteri, non potevano ricollegarsi a quello militare. Ed invero, i costi delle missioni venivano imputati al ministero della Difesa, soggetto danneggiato dalla pretesa condotta truffaldina. Non era un caso che, in analoga circostanza (una ipotesi di truffa ai danni del fondo di assistenza per i finanzieri) fosse individuata la giurisdizione del giudice ordinario (sentenza n. 7728/1996, Tripodi, di questa Corte). In ogni caso, mancava nella sentenza impugnata qualsiasi valutazione dei documenti prodotti per attestare la pertinenza dei fondi in questione al ministero dell’Interno.
In punto di valutazione della responsabilità, era dedotto vizio della motivazione, in una colla mancata assunzione di prova decisiva.
La corte militare era partita da un pregiudizio colpevolistico, ritenendo certa l’esistenza della prassi truffaldina seguita dai gestori dell’Hotel (OMISSIS); ingiustificatamente era stato negato l’espletamento di una perizia sui registri dell’albergo, sul presupposto che, in separato procedimento, le annotazioni cui la sentenza impugnata aveva dato tanta importanza, non fossero state attribuite ai detti gestori; eppure, era stata introitata (ma non considerata) la consulenza grafologica di parte, che conduceva a conclusioni opposte a quelle ritenute dai giudici di merito.
Altrettanto ingiustificatamente, non erano stati ammessi i testimoni indicati dalla difesa, sia sulla fatturazione di cifre elevate anche nei confronti di clienti civili, sia sulla effettiva diversificazione delle tariffe praticate dall’albergo, sia sul constatato pagamento, da parte di clienti militari, della cifra effettivamente fatturata.
Ed ancora ingiustificatamente si era rifiutata l’acquisizione (incongruamente negandone l’esistenza) della dichiarazione esplicativa rilasciata dai ricorrenti, circa l’inglobamento nella fattura del pernottamento, del pasto effettivamente consumato.
Violati erano i criteri di valutazione della prova, anche sulla affermata prassi truffaldina, della quale ai giudici militari era sfuggita l’antieconomicità per la direzione alberghiera, e che poggiava su due presupposti indimostrati: il rilascio di fatture gonfiate ai soli militari e il minor prezzo praticato ai clienti civili. Si trattava, sotto entrambi gli aspetti, di mere congetture, fondate su dati ambigui e generici, come quello, da ultimo ipotizzato, del pernottamento da parte dei due imputati, in una unica camera, allo scopo di far apparire incongruo un importo pienamente congruo.
In ogni caso, da tale ultima congettura, deriverebbe la mancata corrispondenza tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza.
Nell’interesse dei ricorrenti, il difensore ha presentato motivi nuovi di ricorso, ulteriormente illustrando (anche con produzione di atti e documenti) le tesi difensive sopra esposte, con particolare riferimento alla necessità di acquisire le prove richieste e di chiarire ulteriormente la inesistenza della prassi cui si accennava nella pronuncia impugnata, della quale si insisteva per l’annullamento.
L’eccezione di carenza giurisdizionale dell’autorità giudiziaria militare – qui riproposta, senza tenere conto delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata – deve essere recisamente disattesa, alla stregua della giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo la quale le previsioni criminose di cui all’art. 640 c.p. e all’art. 234 c.p.m.p. sono integrate dagli stessi elementi costitutivi, coll’unica differenza che il secondo è commesso in danno dell’ "amministrazione militare", termine che rientra nel concetto di "pubblica amministrazione" (così Sez. 1, 18.7.1994, Baldassarre); più recentemente, è stato deciso che l’amministrazione militare deve intendersi circoscritta nelle strutture occorrenti per l’organizzazione del personale e dei mezzi militari destinati alla difesa armata dello Stato, e i beni in dotazione della stessa si identificano in quelli che, a norma delle leggi sulla contabilità generale dello Stato, sono amministrati dal ministero della Difesa o dai Corpi militari; ne consegue che, facendo l’Arma dei Carabinieri (come la Guardia di Finanza, in relazione alla quale questa Corte si esprimeva, superando analogamente le obiezioni oggi mosse dai ricorrenti) parte integrante delle Forze Armate dello Stato, è configurabile la giurisdizione dell’autorità giudiziaria militare e non di quella ordinaria, in tema di truffa addebitata ad appartenenti a tali Corpi in danno dell’amministrazione di appartenenza, mediante il conseguimento dell’indebito rimborso di spese di missione, eccedenti quanto effettivamente pagato (cfr. Sez. 1, 19.4.2001, Froio; id., 31.1.2000, Petrarca; id., 19.1.2000, Pellegrino).
E non per nulla i rimborsi avvenivano mediante compilazione di documenti presentati all’Ufficio amministrativo dal quale erano governati i due marescialli, che liquidava le loro debenze attingendo a fondi amministrati dal medesimo Ufficio, come la sentenza in esame ricorda (pagg. 38 e segg.).
Ne consegue la manifesta infondatezza degli appunti mossi al giudice militare, per non essersi attenuto ad altre decisioni, di segno contrario, di singoli giudici ordinari.
Ciò premesso, deve rilevarsi la inammissibilità del congiunto ricorso, tenendo presente che, per uno dei capi d’imputazione, è ormai passata in giudicato l’assoluzione, non impugnata dal p.g.;
mentre per l’altro capo, il reato è stato dichiarato estinto per prescrizione. Ne consegue che, per poter applicare una formula di ampio proscioglimento, dovrebbe qui riscontrarsi quella "evidenza" dell’estraneità dei ricorrenti ai fatti loro addebitati, richiesta dall’art. 129 c.p.p., comma 2; in presenza, cioè, di una causa estintiva del reato, l’innocenza dell’imputato deve emergere dagli atti in modo assolutamente non contestabile; tanto che la valutazione da compiersi in proposito, appartiene più al concetto di "constatazione" che a quello di "apprezzamento". Ed invero, il richiamato requisito della "evidenza", presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva, che renda superflua ogni dimostrazione; ne consegue che gli atti dai quali può essere desunta la sussistenza della "causa più favorevole"sono costituiti unicamente dalla sentenza impugnata, in conformità ai limiti di deducibilità del vizio motivazionale, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e) (cfr., in un quadro giurisprudenziale costante, Sez. 6, 8.6.2004, Dolce).
Nella fattispecie, la sentenza impugnata argomenta convincentemente sulla esistenza di una vera e propria prassi di rimborsi gonfiati a vantaggio dei militari, richiamando inoppugnabili emergenze testimoniali e documentali; accerta la diversità del rimborso chiesto dagli attuali ricorrenti, rispetto al trattamento riservato ai clienti civili; le argomentazioni contrarie che il ricorso svolge o non incentrano carenze logico-giuridiche dell’impianto argomentativo che sorregge la pronuncia de qua, o propongono ricostruzioni alternative, o richiedono addirittura l’acquisizone di nuove prove, in contrasto insanabile coi principi ermeneutici sopra enunciati. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, colle ulteriori statuizioni indicate nel dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, oltre al versamento della somma di 1.000,00 Euro ciascuno alla Cassa delle ammende.

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