Cass., Sez. V Civ., sentenza 26 febbraio 2010, n. 4737. Elusione ed evasione, interposizione e simulazione; abuso del diritto tributario non armonizzato: querelle “antica e nuova” in un reasoning del S.C.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

(Omissis)
FATTO
1.1 La Commissione tributaria regionale della Campania, con la decisione indicata in epigrafe, ha rigettato l’appello proposto da F.D.N., nei confronti dell’Agenzia delle Entrate di Avellino, avverso la sentenza di primo grado con cui era stato respinto il proprio ricorso avverso l’avviso di accertamento con il quale il reddito da lavoro dipendente ai fini IRPEF relativo all’anno 1993 era stato elevato da L. 3.251.387.000 a L. 3.714.137.000.
1.2. Detto avviso si fondava su un processo verbale di constatazione redatto il 27 novembre 1998 dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di M.o, nel quale era stato evidenziato che la società S.M.G. Ltd, con sede in Dublino, aveva stipulato con la S.I.I. Ldt un contratto per l’acquisizione dei diritti di sfruttamento dell’immagine passiva di atleti ingaggiati da società svolgenti attività sportiva in diverse discipline appartenenti alla medesima holding, aventi la funzione di garantire agli atleti – individuati da un codice costituito dalle ultime due lettere del nome e del cognome – una cospicua integrazione dell’ingaggio per le prestazioni sportive effettuate.
1.3 La Commissione tributaria regionale, premesso che la prova dell’interposizione fittizia di regola viene raggiunta per presunzioni, osservava che già la contrattazione dei diritti di sfruttamento del nome e dell’immagine con una società estera, "collocata in un paradiso fiscale", costituiva il primo indizio, grave e preciso, dell’interposizione, potendosi agevolmente dedurre che si fosse "inteso ostacolare gli accertamenti dell’Amministrazione finanziaria", e che, pertanto, si fosse "voluto nascondere la reale destinazione delle somme indicate fittiziamente come cessione dei menzionati diritti di sfruttamento". Richiamata la valenza, sul piano probatorio, delle risultanze inerenti agli accertamenti effettuati dai revisori della A.A. & CO., si rilevava che ulteriori elementi probatori erano costituiti: a) dall’assenza di prove circa l’effettivo sfruttamento dell’immagine del D.N.; b) dall’indicazione del medesimo – secondo un sistema utilizzato anche per altri atleti – con il nome in codice "D.", formato con le sillabe finali del nome e del cognome; c) dalla dislocazione delle società cessionarie, costituite in coincidenza con l’acquisizione dei menzionati diritti di sfruttamento dell’immagine, in "paradisi fiscali"; d) dalla loro appartenenza, infine, al medesimo gruppo (F.) cui era inserita la società sportiva (M. A.C. Spa) che aveva ingaggiato il D.N..
1.4. Avverso detta decisione il D.N. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati con memoria.
1.5. Si sono costituiti con controricorso l’Agenzia delle Entrate e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, concludendo per il rigetto del ricorso.
DIRITTO
2.1 Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità, per difetto di legittimazione, del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, che non è stato parte del giudizio d’appello, instaurato nei confronti della sola Agenzia delle entrate, nella sua articolazione periferica, dopo la data del 1 gennaio 2001, con implicita estromissione, dell’ufficio periferico del Ministero (Cass., Sez. Un., n. 3166 del 2006). Ricorrono giusti motivi (rilievo ufficioso dell’inammissibilità, proposizione del ricorso in epoca anteriore alla richiamata pronuncia delle SS.UU. di questa Corte) per la compensazione, in parte qua – delle spese processuali.
2.2. a – Passando all’esame del ricorso proposto nei confronti dall’Agenzia delle Entrate, va osservato che il primo motivo, con il quale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, nonchè vizio di motivazione, è infondato. In particolare, con la censura inerente alla violazione della norma contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, il ricorrente osserva in sostanza che il richiamo a tale disposizione non sarebbe consentito in merito alla "prova della simulazione del contratto stipulato fra SIL e SMG, prova che riguarda l’oggetto delle pattuizioni e non i soggetti tra cui essi effettivamente intercorsero". Si aggiunge che, poichè il soggetto interponente, nella decisione impugnata, sarebbe indicato nella SIIL, mentre di tale interposizione il D.N. sarebbe soltanto "consapevole", non sarebbe applicabile a costui la norma in questione, che consente l’imputazione del reddito al solo soggetto interponente. Sotto tale profilo sarebbe riscontrabile anche un vizio motivazionale, relativamente alle modalità, non ben esplicitate, con cui il compenso sarebbe pervenuto al calciatore.
2.2.b. La motivazione della decisione impugnata, quanto meno per quanto attiene alla descrizione dei rapporti negoziali attraverso i quali si sarebbe verificata l’evasione d’imposta (ed a prescindere da quanto si dirà, in prosieguo, circa gli aspetti di natura probatoria), rinvia, a ben vedere, a un complesso meccanismo che si giova di due distinte forme di simulazione, fra loro collegate ma non coincidenti: da un lato, l’interposizione soggettiva, nel senso che una parte dei compensi al calciatore sarebbero stati versati a una società cessionaria dei diritti di sfruttamento del nome e dell’immagine del predetto; dall’altro, una vera e propria simulazione oggettiva, nel senso che la cessione di detti diritti non sarebbe stata in realtà voluta (nell’ambito di un contratto che non avrebbe mai avuto una concreta attuazione), ma sarebbe stata utilizzata come schermo per giustificare i passaggi di danaro relativi al pagamento di una parte del compenso dovuto all’atleta. Non può, invero, dubitarsi, del riferimento, nella decisione impugnata, al meccanismo testè descritto, così come, per altro, posto alla base dell’accertamento in esame: “Il M., società sportiva del Gruppo F., ingaggia come calciatore il D.N. e pattuisce un certo compenso per le di lui prestazioni, del quale una parte appare ufficialmente e una parte viene simulata come sfruttamento d’immagine mediante la stipulazione di contratti fittizi tra le altre società del Gruppo F.". Appare, pertanto, evidente, come la simulazione della cessione dei diritti di sfruttamento dell’immagine, così come le forme di pagamento attuate mediante soggetti interposti, costituiscano tante facce del poliedrico meccanismo sopra descritto, nel quale il D.N. non assume di certo la veste di "terzo", ancorchè consapevole, essendo chiaramente indicato, non solo come beneficiario, ma anche come uno dei principali artefici del meccanismo stesso, mediante il testuale riferimento – sopra richiamato – all’accordo intervenuto fra lui e la società sportiva M. circa la ripartizione del compenso pattuita in una parte "ufficiale" ed in un’altra (quella oggetto dell’avviso di accertamento impugnato) da versarsi mediante il ricorso alle attività di altre società del gruppo. Appare quindi evidente come sia del tutto riduttiva l’analisi di un singolo frammento del citato meccanismo per rinvenire la giustificazione, sul piano normativo, della tesi sostenuta dall’Agenzia delle Entrate. Di certo, ove si consideri che la Commissione tributaria regionale era investita, tramite il primo motivo di appello (riportato nella parte narrativa della decisione impugnata), della questione inerente esorbitanza dai poteri della commissione tributaria di primo grado di sindacare (in quanto – si sosteneva – riservata al giudice ordinario) la simulazione oggettiva, appare comprensibile che i giudici di secondo grado si siano a lungo profusi sulla figura della simulazione, analizzandone i vari aspetti e richiamando, quanto a quella soggettiva, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3. Va rilevato, per completezza di esposizione, che la tesi secondo cui l’accertamento della simulazione relativa oggettiva sarebbe precluso nel procedimento tributario non trova riscontro nè nella migliore dottrina, nè nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., 26 ottobre 2005, n. 28816; Cass., 10 giugno 2005, n. 12353).
2.2.c. Tanto premesso, occorre precisare che la tesi secondo cui la norma più volte richiamata sarebbe stata erroneamente applicata perchè il D.N. non sarebbe indicato come "interponente", bensì come mero soggetto "consapevole dell’accordo triangolare nel quale la società estera sarebbe il soggetto interposto, mentre la società S.I. il soggetto interponente", si fonda su un brano della sentenza impugnata contenente una breve esposizione della tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, in cui, se la definizione dell’interposizione è – forse in maniera poco felice – relegata al solo aspetto della delegazione di pagamento dissimulata, essendo cioè, riferita a una limitata frazione del meccanismo complessivamente posto in essere, tuttavia la sostanza del fenomeno, per quanto qui maggiormente interesse, è sostanzialmente colta dalla Commissione tributaria regionale con l’affermazione secondo cui il contratto collegato in esame avrebbe avuto ben altre finalità, nel senso che "le relative somme fittiziamente pattuite per il suddetto sfruttamento costituirebbero una ben mascherata integrazione del pagamento dello stipendio di calciatore pagato al D.N.F." (altrove, con riferimento all’indicazione in codice del nome dell’atleta, ci si riferisce espressamente al "mascheramento del contratto dissimulato, cioè di quello vero di pattuizione di un extra-ingaggio").
2.2.d. Non potendo, quindi, dubitarsi che la Commissione tributaria regionale abbia correttamente colto, e posto alla base della sua decisione, la sostanza del fenomeno come sopra descritto, inquadrandolo altresì, con l’esplicito riferimento al calciatore come "effettivo possessore per interposta persona" del reddito, nella previsione della disposizione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, la qualificazione giuridica della fattispecie deve essere operata con il riferimento alla legittimità dell’accertamento in quanto inerente a un meccanismo, come quello descritto, artificiosamente posto in essere allo scopo di ottenere indebiti vantaggi di natura fiscale. Giova, in proposito, richiamare l’orientamento che, movendo da ben precise pronunce comunitarie, ha evidenziato come, anche prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600,art. 37 bis, fosse presente nel nostro ordinamento il divieto dell’abuso del diritto per conseguire indebiti vantaggi sul piano fiscale (Cass., 21 Ottobre 2005, n. 20398; Cass., 26 ottobre 2005, n. 20816; Cass., 14 novembre 2005, n. 22932; Cass., 29 settembre 2006, n. 21221; Cass., 17 ottobre 2008, n. 25374). Di recente le Sezioni Unite di queste Corte hanno affermato che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione" (Cass., 23 dicembre 2008, n. 30055; successivamente richiamata da Cass., Sez. Un., 26 giugno 2009, n. 15029). Tanto premesso, appare evidente come il complesso delle attività sopra evidenziate, fra loro coordinate e finalizzate – secondo la tesi recepita nella decisione impugnata – all’occultamento di parte del compenso corrisposto al ricorrente, non possa considerarsi opponibile all’Amministrazione finanziaria, che legittimamente può far valere la reale situazione sottesa alla situazione apparente, allo scopo di affermare la fondatezza della pretesa fiscale.
2.3 – Deve considerasi infondato anche il secondo motivo di ricorso, con il quale, in merito alla utilizzazione di dati emergenti dalle relazioni della società di revisione, o da dichiarazioni di singoli relatori, ha denunciato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. In proposito vale bene richiamare una recente pronuncia di questa Corte (Cass., 12 marzo 2009, n. 5926 ), condivisa dal Collegio, nella cui parte motiva, premessa una ricostruzione dei compiti e delle responsabilità delineate dal quadro normativo, si è affermato che l’istituto della revisione del bilancio delle società commerciali si caratterizza per alcuni profili particolarmente forti del suo regime, quali sono quelli del controllo pubblicistico (iscrizione all’Albo e vigilanza della Consob) e della responsabilità civile e penale del revisore, che, se pur non consentono di affermare che la relazione di revisione garantisce la verità del bilancio, vincolano a riconoscere, a pena dell’inutilità dell’istituto, che essa costituisce una pronuncia qualificata sulla verità della contabilità e del bilancio. Da tanto si è condivisibilmente desunto che "ogni volta che la relazione di revisione venga messa a disposizione dell’ufficio tributario e del giudice tributario, le autorità devono tenerla in conto, non di presunzione iuris tantum della veridicità delle scritture, perche manca una norma legislativa che le attribuisca tale forza, ma di documento incorporante enunciati sui quali sia l’ufficio tributario sia il giudice tributario si devono pronunciare e che possono essere privati della loro forza dimostrativa dei fatti attestati solo mediante la prova contraria a carico dell’ufficio. Tale prova non può essere fornita attraverso la rilevazione di semplici indizi di non veridicità relativamente alle motivazioni addotte nella relazione di revisione, ma attraverso la produzione di documenti che siano idonei a dimostrare che nel giudizio di revisione il revisore è incorso in errore o ha realizzato un inadempimento. Tra i documenti che sono in grado di esprimere tale forza di confutazione della relazione di revisione possono annoverarsi, senza che esauriscano la categoria: a) quelli che dimostrino il carattere omissivo del comportamento del revisore, b) quelli che, pur tributariamente rilevanti, non siano stati oggetto di valutazione da parte del revisore, perchè non se ne prevedeva l’inserimento nelle procedure di revisione; c) quelli che sono stati occultati, perchè idonei a provare comportamenti dolosi".
2.4 – Tanto premesso, deve rilevarsi la fondatezza del terzo e del quarto motivo di ricorso, che possono essere congiuntamente trattati, in quanto attinenti a vizi della motivazione relativamente alla prova della percezione dei compensi da parte del D.N.. La questione attiene, principalmente, all’assenza di specifici riferimenti, nella motivazione della sentenza scrutinata, al tema fondamentale, proposto con l’appello, "della prova della percezione delle somme da parte del ricorrente". Sul punto la decisione impugnata appare carente sotto il profilo motivazionale (come affermato da questa Corte, in relazione ad analoga fattispecie, con la decisione n. 13660/2009), per non aver ben evidenziato – anche mediante il ricorso a presunzioni – come il ricorrente fosse con certezza identificabile nella sigla (D.) utilizzata nelle fatturazioni (il cui utilizzo, contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, è in ogni caso significativo di attività non ostensibile, epperò fraudolenta; per non aver affrontato il tema dei rapporti fra lo stesso e la società interposta, in relazione ai movimenti di danaro ai quali si fa riferimento sia nel ricorso (precisandosi tuttavia che il D.N. non sarebbe incluso fra i beneficiari diretti dell’erogazione di somme provenienti dalle società estere) sia nel controricorso, nonchè alle relazioni – anche sotto il profilo diacronico – fra l’attività svolta dalle società coinvolte nell’affare della cessione dei diritti di sfruttamento dell’immagine e il contratto intercorso fra il ricorrente e la società sportiva. Un altro aspetto, che appare contraddittorio, consiste nell’aver la decisione impugnata evidenziato i rapporti fra le società del gruppo, anche in relazione alla decurtazione dei costi, senza collocare in tale quadro la posizione del D.N..
2,5. La pronuncia impugnata, pertanto, va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione Tributaria regionale della Campania, che procederà a nuovo esame – anche sulla base dei principi di diritto enunciati -della fattispecie concreta.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e compensa le relative spese. Pronunciando sul ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, accoglie il terzo e il quarto motivo, e rigetta i rimanenti. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della CTR della Campania.

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