Cass. pen., sez. II 20-12-2007 (05-12-2007), n. 47371 Violazione – Conseguenze – Sanabilità

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MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza del 9.5.2006 il GIP del Tribunale di Patti dichiarava G.A. e Gu.Ro. responsabili dei reati loro rispettivamente ascritti in continuazione (a titolo di violazione degli artt. 628, 624 c.p. e L. n. 110 del 1975, art. 4) con quelli di cui alla sentenza n. 448/06 pronunciata dal GIP di Bologna il 16.3.2006 e divenuta irrevocabile il 19.4.2006 e, applicata ad entrambi la riduzione per il rito, condannava G.A., in aumento sulla pena con la precedente sentenza irrogata, alla pena di anni due, mesi cinque e giorni dieci di reclusione ed Euro 280,00 di multa, e Gu.Ro., a titolo di aumento sulla pena con la detta sentenza irrogata, alla pena di anni uno, mesi tre e giorni dieci di reclusione ed Euro 144,00 di multa, oltre al pagamento in solido delle spese processuali.
Con sentenza del 15.1.2007 la Corte di Appello di Messina confermava la decisione impugnata.
Avverso tale sentenza gli imputati predetti propongono, per mezzo dei rispettivi difensori, ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge sotto diversi profili.
In particolare Gu.Ro., col primo motivo di gravame, lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), con riferimento all’art. 601 c.p.p. per mancato rispetto del termine minimo di venti giorni intercorrente tra la notifica e l’udienza.
Osserva la difesa che tale rilievo, sollevato immediatamente e preliminarmente alla trattazione processuale, determinava la nullità della sentenza per violazione dei diritti dell’imputato, atteso che lo stato di detenzione agli arresti domiciliari e la rinuncia a comparire dell’imputato non comportavano il venir meno del diritto dello stesso al termine in questione.
Analogo motivo di gravame viene sollevato dal coimputato G. A. il quale, nell’evidenziare la nullità suddetta verificatasi nei confronti del Gu., rileva che il giudice procedente avrebbe dovuto stralciare la posizione di esso imputato ovvero rinviare la trattazione della causa ad altra udienza ritenendo la trattazione inscindibile.
Con altro motivo di gravame, comune ad entrambi i ricorrenti, gli stessi hanno lamentato la erroneità della decisione dei giudici di merito che, nel ritenere il vincolo della continuazione dei reati oggetto del presente giudizio con quelli già definiti con sentenza del GIP di Bologna del 16.3.2006 divenuta irrevocabile il 19.4.2006, avevano applicato a titolo di continuazione una pena di gran lunga superiore alla precedente, argomentando dalla "caratura criminale" dei due imputati, quale delineatasi con la perpetrazione di tutti i reati sub iudice, che non era quella che "si e(ra) prefigurato quel giudice al momento della emissione della relativa sentenza". In tal modo la Corte territoriale si era trincerata dietro una motivazione assolutamente apodittica, autoreferenziale e priva di fondamento giuridico, atteso che i giudici di merito avrebbero dovuto indicare i fatti e le circostanze che giustificavano tale loro scelta, ed avrebbero dovuto considerare più gravi i reati di cui al presente giudizio, dando espressa, ampia e chiara contezza dei motivi per cui la pena in continuazione era stata irrogata in maniera così sproporzionata ed eccessiva rispetto a quella applicata dal giudice precedente.
Con ulteriore motivo di gravame entrambi i ricorrenti lamentano la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. In particolare rileva la difesa che erroneamente la Corte territoriale aveva negato rilievo alla confessione resa dagli imputati, considerandola irrilevante a fronte della ineluttabilità probatoria dell’accusa, e trascurando peraltro di considerare che tale confessione era intervenuta in una fase che precludeva agli stessi la conoscenza degli atti processuali e degli eventuali riscontri probatori.
Con nota del 3.12.2007 il ricorrente Gu.Ro. ha rinunciato al presente ricorso per cassazione, proposto avverso la sentenza del 15.1.2007 della Corte di Appello di Messina.
Orbene, tale rinuncia determina ipso iure, ai sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. d), l’inammissibilità del ricorso proposto dal Gu., comportando la stessa la preclusione, in capo al giudice, di ogni attività comunque delibativa di qualsiasi situazione processuale a lui devoluta o rilevabile d’ufficio.
Per quel che riguarda la posizione dell’altro ricorrente G. A., rileva il Collegio che il ricorso dallo stesso proposto è manifestamente infondato.
Ed invero, per quel che riguarda la deduzione relativa all’omesso stralcio della posizione di esso imputato, a seguito della nullità verificatasi nei confronti del Gu., ovvero all’omesso rinvio della trattazione della causa ad altra udienza stante la inscindibilità delle posizioni dei due ricorrenti, osserva innanzi tutto il Collegio che la violazione del termine stabilito dall’art. 601 c.p.p., comporta una nullità non assoluta ed insanabile, bensì relativa e sanabile, ai sensi dell’art. 181 c.p.p.; inoltre, essendo tale termine previsto nell’interesse dell’imputato, quest’ultimo può a tale termine validamente rinunciare, come pure può procedere ad una sanatoria della suddetta nullità del decreto di citazione comparendo in udienza ovvero facendo pervenire comunicazione di rinuncia a presenziare.
Siffatta ipotesi si è verificata nel caso di specie laddove il coimputato Gu.Ro., detenuto agli arresti domiciliari, aveva rinunciato a comparire in tal modo operando la sanatoria della nullità verificatasi in relazione al suddetto del decreto di citazione, ove si osservi che era stato comunque conseguito lo scopo sostanziale dell’atto, consistente nella conoscenza da parte del detto imputato e del suo difensore del capo di imputazione e del procedimento per il quale era stato citato; e pertanto, per come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, la nullità deve ritenersi sanata, a nulla rilevando la circostanza che il difensore la abbia tempestivamente eccepita.
Orbene, la sanatoria della dedotta nullità verificatasi nei confronti del Gu. rende il motivo di gravame proposto dal G., ab origine, palesemente infondato; a ciò si aggiunge che la decisione di procedere o meno ad una trattazione unitaria nei confronti di soggetti imputati dello stesso reato o di reati connessi costituisce un provvedimento meramente ordinatorio non sanzionato in alcun modo nel codice di ritto.
Del pari manifestamente infondato è l’ulteriore motivo di gravame relativo alla quantificazione della pena applicata a titolo di continuazione.
Osserva il Collegio che nel vigente sistema normativo il reato continuato, lungi dall’essere un reato unico, costituisce la risultante di reati plurimi aventi distinta autonomia ed unificati, solo per determinati effetti giuridici, dall’elemento ideativo agli stessi comune; argomentando da tale premessa si deve rilevare che la motivazione in ordine alla quantificazione dell’aumento per la continuazione si basa sui medesimi parametri posti dall’art. 133 c.p. in relazione alla pena base, di talchè occorre fare riferimento alla natura dei reati ed alla personalità dell’imputato; ed a tali principi si è attenuta la Corte d’appello di Messina che, nella determinazione della pena da applicare a titolo di continuazione, ha espressamente fatto riferimento alla caratura criminale del soggetto interessato, venutasi meglio a delineare a seguito dell’accertamento della commissione degli ulteriori, numerosi e gravi reati, posti in essere in uno stretto arco temporale, di cui non aveva avuto contezza il GIP di Bologna che aveva emesso la precedenza sentenza, e che meglio delineavano la personalità dell’imputato e, in particolare, la sua propensione al delitto. Alla stregua di quanto sopra non può dubitarsi che la Corte territoriale abbia correttamente e compiutamente motivato in ordine alle ragioni che giustificavano il ritenuto aumento di pena rispetto a quella applicata per i reati in precedenza giudicati, di talchè sotto tale profilo l’impugnata sentenza si sottrae alle censure ed ai rilievi mossi con il proposto atto di gravame.
In ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche osserva il Collegio che per costante orientamento giurisprudenziale è legittimo il diniego delle suddette circostanze motivato con la esplicita valorizzazione negativa dell’ammissione di colpevolezza, per essere stata la responsabilità già acquisita aliunde, ed allorchè tale confessione non appaia determinata da effettiva resipiscenza ma da un intento utilitaristico.
D’altronde il giudice di merito può altresì, adempiendo egualmente all’obbligo di motivazione, svalutare il significato ed il contenuto della confessione, richiamandosi alla gravità dei fatti ed alla personalità dell’imputato, negando in tal modo la concessione delle circostanze attenuanti generiche che non costituiscono certamente un diritto per l’imputato ma possono essere concesse solo in presenza di determinati presupposti che indicano a ritenere l’esigenza di un trattamento di particolare favore in presenza di peculiari circostanze non codificate dal legislatore.
Ed alla stregua di tali principi nel caso di specie i giudici di merito, in relazione alle invocate attenuanti generiche, hanno fatto riferimento alla "gravità e molteplicità di reati commessi in un arco temporale piuttosto ridotto, emblematiche di una spiccata propensione al crimine", attribuendo una sub-valenza alla confessione effettuata essendo stato lo stesso già raggiunto da imponenti elementi accusatori.
E pertanto anche sotto tale profilo il gravame proposto dal G. denota la sua manifesta infondatezza.
Per le considerazioni in precedenza espresse i ricorsi vanno dichiarati entrambi inammissibili, e tale declaratoria comporta la condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e, potendosi ravvisare profili di colpa, anche la condanna di ciascuno al versamento della somma di Euro cinquecento alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 500,00 alla Cassa delle Ammende.

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