Cass. pen., sez. III 28-11-2007 (07-11-2007), n. 44287 Condotte produttive di dolore – Configurabilità del reato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

MOTIVAZIONE
Con sentenza in data 2.10.2006 del giudice monocratico del Tribunale di Massa, sez. distacc. di Pontremoli, B.P.C. fu condannato alla pena ritenuta di giustizia, perchè riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 727 c.p., ("perchè, nella qualità di titolare e gestore del canile (OMISSIS) sito in località (OMISSIS), sottoponeva a maltrattamenti i cani ivi custoditi con modalità di allevamento particolarmente dolorose tra cui:…, in (OMISSIS) fino al 26.4.2002" data di consumazione modificata in dibattimento "sino al 27.1.2005").
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso personalmente l’imputato, il quale con il primo motivo denuncia inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 42 e 43 c.p., per la non ravvisabilità dell’elemento psicologico del reato, in quanto egli, con sentenza passata in giudicato del Tribunale di Pontremoli in data 30.6.2003, era stato assolto da analoga imputazione ex art. 727 c.p., ("per aver gestito un canile privato detenendo animali in condizioni incompatibili con la loro natura, obbligandoli in recinti e gabbie carenti dei requisiti previsti dalla legge ed utilizzando locali ad uso veterinario in condizioni igieniche disastrose con rischi di infezioni e contagi epidemici…, in (OMISSIS) fino al gennaio 2001");
il ricorrente sostiene che, "trattandosi, nel caso in oggetto, di imputazione relativa al medesimo fatto, non si poteva non valutare la buona fede dell’agente, il quale già era stato assolto da una imputazione relativa ai medesimi fatti contestati nel procedimento in oggetto", tanto più che "la struttura del canile e le modalità di allevamento dei cani non sono stati oggetti di modificazione negli anni, tant’è che la circostanza, pur in negativo, è stata confermata dai testi dell’accusa, i quali…hanno fatto presente che la gestione del canile non era cambiata".
Il motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, essendo evidente che la precedente assoluzione (risalente al 2003 e per fatti dell’inizio del 2001) non può avere alcuna influenza sui fatti attuali, estesi, a seguito della modifica del capo di imputazione, sino al 27.1.2005 e risultanti da sopralluoghi effettuati dagli organi di P.G. e dal CTU anche nel corso del procedimento e perciò di diversa drammatica attualità.
Al riguardo, vanno rilevati: la relazione tecnica redatta dal F. a seguito di sopralluogo effettuato nell’aprile 2002 (pagg. 1 – 2 sent,); la relazione tecnica conclusiva 26.4.2002 della CT della Procura Livi, con relativo fascicolo fotografico (pagg. 2 – 5); le dichiarazioni dei testi P., Pi., B. e C. (pagg. 5 – 9); il sopralluogo effettuato dai CC. di Pontremoli il 27.1.2005 (pagg. 9 – 10); le riprese fotografiche e le video riprese effettuate dal M.llo G. effettuate il 27.1.2005 (pagg. 10 – 11).
Il giudicante non ha poi mancato di valutare le dichiarazioni dei testi indicati dalla difesa M., B. e PI. (pagg. 11 – 13).
Sulla base di tali elementi risulta giustificata pienamente la conclusione che "dall’esame delle risultanze processuali ed attraverso la loro relativa valutazione" è risultato "essersi raggiunta la prova della colpevolezza…, essendo il relativo reato contravvenzionale di maltrattamenti di animali risultato completo in tutti i suoi elementi essenziali e cioè: sia in quelli oggettivi…come pure in quelli soggettivi".
Tutto ciò senza che sulla situazione attuale oggetto di indagini attuali possa avere influenza alcuna la precedente sentenza assolutoria, relativa a una situazione precedente.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia inosservanza o erronea applicazione dell’art. 727 c.p., in quanto in base alla nuova formulazione della norma "non è sufficiente per la consumazione del reato che le condizioni di custodia dell’animale appaiano incompatibili con la natura dello stesso, ma occorre che le stesse siano produttive di gravi sofferenze", laddove nel caso in esame il Tribunale "non ha speso neppure una parola per chiarire e documentare se gli animali ricoverati…fossero effettivamente in stato di grave sofferenza".
Il ricorrente aggiunge che, se "il Tribunale si fosse effettivamente curato di accertare lo stato di salute dei cani, e cioè se gli stessi stessero o avessero subito gravi sofferenze, sicuramente non sarebbe giunto a una pronuncia di condanna".
Anche tale motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, avendo la sentenza impugnata, all’esito della lunga esposizione di cui si è detto, rilevato che sia i Carabinieri che la veterinaria nominata CTU avevano descritto le condizioni constatate nel canile, "espresse documentalmente in tutta la crudezza delle immagini, così come apparse agli operatori…, tanto da poter essere definita l’esposizione di tali soggetti come il ritratto parlante di una situazione…che può essere sancita solo come disumana, in quanto il maltrattamento – dolore è una violazione delle leggi naturali, biologiche, fisiche e psichiche si cui l’animale è portatore, con conseguente sua sofferenza".
La sentenza è, quindi, passata (pag. 16) alla descrizione dei maltrattamenti, definiti di tipo ambientale, igienico e alimentare, per pervenire alla conclusione che il canile era "nient’altro che un lager, un ghetto per animali sfortunati… per che imprigionati in uno stato di penosa sopravvivenza".
In definitiva, la sentenza impugnata ha fatto ineccepibile applicazione del consolidato indirizzo di questa Corte, secondo cui configurano il reato di maltrattamenti, anche nella formulazione novellata, "non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali destando ripugnanza per la loro aperta crudeltà, ma anche quelle condotte ed è questo il caso accertato che incidono sulla sensibilità dell’animale, producendo un dolore". E’ davvero incomprensibile come il ricorrente possa sostenere che sia mancata, da parte del giudice di merito, la sofferenza inferta agli animali.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente alle spese, nonchè (non essendovi elementi per ritenere un’assenza di colpa) al versamento alla Cassa delle ammende della somma, equitativamente fissata, di Euro mille.
P.Q.M.
La Corte Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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